Samidoun: Oggi e nei giorni precedenti, abbiamo visto decine di mobilitazioni in città e villaggi di tutto il mondo, dalla marcia di Ramallah organizzata da Samidoun Palestina a migliaia di persone nelle strade di Parigi e New York, alle piccole attività nelle città locali dove la gente si sente costretta ad uscire per resistere a quest'ultima ingiustizia. Abbiamo visto una partecipazione massiccia a Gaza, abbiamo visto carovane di auto, gente che camminava e ogni tipo di azione. Cosa pensi che significhi questo? I palestinesi si stanno svegliando dal grande inganno del cosiddetto "processo di pace" e degli accordi di Oslo. Si tratta infatti di un percorso di tradimento guidato da Mahmoud Abbas. I palestinesi si sono resi conto fin dagli accordi di Oslo, negli ultimi 30 anni, che non c'è speranza che questo percorso permetta loro di far valere i propri diritti.
Recentemente, il Tribunale nazionale spagnolo ha accusato me e due compagni del reato di finanziamento al terrorismo. Gli eventi si sono svolti nel 2014 e 2015 quando, in occasione delle brutali invasioni di Gaza da parte dell'esercito israeliano, con terribili conseguenze di morte e distruzione, l'organizzazione politica Red Roja ha deciso di chiedere contributi finanziari per aiutare il popolo palestinese attraverso un conto corrente sul proprio sito web. I fatti sono gli stessi descritti nel documentario "Gaza", che ha ricevuto il premio Goya per il miglior cortometraggio dello scorso gennaio. Lo scorso giugno, il 6° tribunale istruttorio della Corte nazionale ha respinto l'archiviazione del nostro caso e la citazione ordinaria a comparire è stata emessa, presumibilmente per aver trovato "indici sufficienti di criminalità". La sua dichiarazione è arrivata dopo che la nostra difesa ha presentato un documento che accredita la destinazione finale dei fondi: la ricostruzione delle strutture sanitarie distrutte negli attacchi.
Come si spiega la contraddittoria politica estera del Canada nei confronti della Palestina e di Israele? Il 4 dicembre, il Segretario Generale dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Saeb Erekat, ha elogiato l'impegno del Canada nel non seguire le orme dell'amministrazione statunitense di Donald Trump trasferendo la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma non vale la pena elogiare su questo punto. Rispettare lo status riconosciuto a livello internazionale di Gerusalemme è un impegno legalmente vincolante per il diritto internazionale. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano scelto di violare la legge difficilmente rende l'atto opposto eroico in sé.
Solo cinque giorni prima, il 30 novembre, il Canada si è unito a una piccola minoranza di stati, tra cui Israele, Stati Uniti, Australia e Isole Marshall per votare "no" contro una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) intitolata "Peaceful Settlement on the Question of Palestine”.
Quando mi sono recato per la prima volta in Israele-Palestina nel 1994, durante gli inebrianti primi giorni del processo di pace di Oslo, mi aspettavo di vedere altri dei gioiosi festeggiamenti che avevo visto in televisione in patria. L’emozionante accoglienza al presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat, di ritorno in Palestina. Le grandi dimostrazioni a favore della pace nelle strade di Tel Aviv. Il momento spontaneo nel quale palestinesi hanno infilato garofani nelle canne dei fucili dei soldati israeliani in partenza. E anche se l’iniziale euforia aveva cominciato a tramontare, c’era chiaramente ancora speranza. Era l’età del dialogo. Molti palestinesi assistevano a testimonianze del trauma israeliano radicato nell’Olocausto. Gruppi di israeliani cominciavano a comprendere la Nakba, o Catastrofe, quando 750.000 palestinesi abbandonarono le loro case, o ne furono cacciati, durante la creazione di Israele nel 1948. Dopo la Dichiarazione di Principi di Oslo, firmata il 13 settembre 1993 – un quarto di secolo fa oggi – i sondaggi mostravano che grandi maggioranze di israeliani e di palestinesi appoggiavano l’accordo. Israele, esausto dopo sei anni di intifada palestinese, voleva che Oslo portasse a una pace duratura. I palestinesi credevano che il risultato sarebbe stato la creazione di una loro nazione libera, fianco a fianco a Israele.
Lo scorso dicembre, le truppe israeliane hanno sparato a Mohammed alla testa, fratturandogli il cranio.È improbabile che il giovane, che è in attesa di un intervento di chirurgia ricostruttiva, riceva cure mediche adeguate all'interno delle prigioni israeliane.
Il crimine di Ahed è stato quello di schiaffeggiare un soldato israeliano; l'ha colpito mentre tutto è stato registrato e il video è diventato virale.Tutto è successo poco dopo che suo cugino è stato colpito. In seguito, è stato indotto coma farmacologico.
Il soldato israeliano che ha sparato a Mohammed non è stato nemmeno rimproverato per aver sparato a un ragazzo disarmato.
Per anni, molti – prontamente bollati come complottisti – hanno ipotizzato che quando si tratta di raggiungere obiettivi illegali, come, ma non solo, creare false flag ed omicidi politici, pochi sono abili ed operosi come CIA e Mossad. Soprattutto il secondo.
Solo che, come spesso accade, la maggior parte (se non tutte) tali “teorie della cospirazione” risultano veritiere. In questo caso sono venute a galla grazie al lavoro di Ronen Bergman, giornalista investigativo israeliano. Il suo libro appena pubblicato, “Rise and Kill First: la storia segreta delle uccisioni mirate di Israele”, riporta in dettaglio alcuni di questi piani israeliani, come l’assassinio del leader palestinese Yasser Arafat, che includeva un complotto per far esplodere aerei passeggeri e stadi di calcio.
Gli investigatori della Commissione d'inchiesta hanno individuato uno stabile in zona Balduina, proprio vicino via Mario Fani. Pubblicata la seconda relazione: trattativa aperta grazie all’Olp di Yasser Arafat, con l’intermediazione del famoso colonnello Giovannone, ma ai primi di maggio qualcuno la fa saltare. Occhi puntati su via Massimi, zona Balduina, proprio vicino via Mario Fani. Lì c’è una elegante palazzina, nel ’78 proprietà delloIor, la Banca vaticana, dove gli investigatori della Commissione Moro hanno individuato uncovo delle Bre dove assai probabilmente fu organizzata la prigione di Moro. E’ su quest’ultima ipotesi che si allungano le ricerche. Le novità più ‘pesanti’, da quel che si apprende, non sono state pubblicate nella II Relazione sull’attività della Commissione d’inchiesta: tutta roba che resta secretata per tutelare il lavoro istruttorio ma che è già sul tavolo dellaProcura di Roma.
I punti di partenza delle indagini sono stati tre: una nota della Guardia di Finanza che nell’immediatezza dei fatti parlava di una sede ‘extraterritoriale’, vicina al luogo dell’agguato, come possibile punto di primo riparo; alcuni accertamenti compiuti a suo tempo dalla polizia anche in seguito alla pubblicazione di un noto articolo di Pietro Di Donato pubblicato sul numero di dicembre 1978 della rivista statunitense Penthouse, nel quale venivano forniti precisi e inediti particolari; la ricostruzione delle modalità con cui sono state abbandonate le auto usate per l’agguato: i brigatisti le hanno parcheggiate tutte lì, in via Licinio Calvo, tornando su luogo del delitto, ma non dopo pochi minuti, come vuole la loro versione, ma in varie tappe nelle successive 48 ore.
La divisione all'interno della società palestinese ha raggiunto livelli senza precedenti, diventando uno dei principali ostacoli sulla strada verso una strategia unitaria per porre fine all'occupazione violenta di Israele o per unire i palestinesi dietro un unico obiettivo. Avigdor Lieberman, l'ultranazionalista israeliano nuovamente nominato ministro della Difesa, lo ha compreso molto bene. La sua tattica fin dalla sua ascesa al potere nello scorso maggio, si concentra sul desiderio di sfruttare queste divisioni per spaccare definitivamente la società palestinese. Lieberman è un "estremista", anche rispetto agli standard dell'esercito israeliano. Il suo passato è costellato di affermazioni violente e razziste. Le sue imprese più recenti si sono spinte fino all'insulto contro Mahmoud Darwish, il poeta più famoso della Palestina. Ha continuato a confrontare la poesia di Darwish - che sostiene la libertà del suo popolo - con l'autobiografia di Adolf Hitler "Mein Kampf". Ma, naturalmente, questa non è la dichiarazione più scandalosa di Lieberman.
Nonostante i tentavi dei mass media italiani – soprattutto quelli legati a certi ambienti che possiamo definire patriottardi – d’imbellettarlo, il regime egiziano del generale El Sisi, giorno dopo giorno, mostra il suo vero volto. Inutile girarci attorno sventolando lo spauracchio dell’Islam politico: siamo i fronte ad una dittatura al servizio di Israele e di Casa Saud.
Sabato scorso, Egitto ed Arabia Saudita hanno firmato diversi accordi di cooperazione incluso un patto relativo alla creazione di un fondo d’investimenti che ammonta a ben 16 milioni di dollari 1. La notizia è stata diffusa dalla televisione pubblica egiziana e subito ripresa criticamente dal giornale online hispantv: ‘’(Acordaron) poner en marcha un fondo de inversión egipcio-saudí con un capital de 60.000 millones de riales saudíes (16.000 millones de dólares)’’.