Se credevate che dopo il Trattato di Maastricht, il Fiscal Compact e l'Output Gap l'Entità Europoide avesse esaurito il suo già ricchissimo arsenale di proiettili da utilizzare contro l'Italia vi sbagliate di grosso. Andiamo con ordine: la Cassa Depositi e Prestiti è una fondamentale istituzione finanziaria italiana che dall'unità d'Italia amministra il risparmio postale generalmente finanziando gli Enti Locali ma anche acquistando quote di assets nazionali considerati strategici. Ormai si tratta di uno dei pochi polmoni finanziari in mano allo stato per indirizzare e coordinare l'attività economica della nazione. Altra cosa da aggiungere è che la sua proprietà è in buona parte in mano al Ministero del Tesoro ma ci sono anche delle piccole partecipazioni in pano alle fondazioni bancarie italiane.
Davvero si sta superando il limite della decenza ed avanza il degrado della democrazia. Della ex Manovra del Popolo in realtà non sappiamo ancora niente.
Come cantavano Cochi e Renato ci sarà un TOT, ma quanto sarà, a chi andrà, chi lo pagherà, tutto questo non lo sappiamo. Non lo sa neppure il Parlamento ridotto ad ente inutile, che alla fine dovrà votare la fiducia alla manovra senza neppure poterla discutere.
Tutto questo perché è in corso il mercato delle vacche tra la UE ed il governo. Sì, proprio il governo che era nato nel nome della sovranità, che voleva spezzare le reni a Bruxelles, ora sta scrivendo la legge di bilancio assieme ai burocrati di Bruxelles. Una sporca trattativa tra due poteri in malafede entrambi, con il primo scopo di salvarsi reciprocamente la faccia. Il governo perché si prepara a varare la manovra meno in deficit, più austera e liberista degli ultimi anni, dove privatizzazioni e tagli sociali la faranno da padrone.
Intervista de l'AntiDiplomatico al direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB in vista della manifestazione del 20 ottobre a Roma per le nazionalizzazioni
Finalmente in Italia si torna a discutere di nazionalizzazioni. A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento cruciale per l’economia di una nazione hanno sicuramente contribuito le polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che ha palesato il fallimento totale della privatizzazione delle autostrade italiane. Assurte a simbolo del fallimento di una strategia politica ultra-ventennale.
È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato, l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una siffatta teoria economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena devastazione economica e sociale.
Le colorate manifestazioni a sostegno delle "unioni civili" hanno posto in secondo piano la furia di una tempesta abbattutasi per pochi giorni sulla società italiana. Nulla a che vedere con le tormente di neve americane. Si parla di elementi ben più violenti e non naturali: una tempesta finanziaria. Il crollo dei titoli bancari degli scorsi giorni ha rivelato importanti dettagli sulla direzione presa dalle società capitaliste nei deboli paesi del sud europa, tutti quanti interessati - guarda caso - da un insolito attivismo riformatore in materia di cosiddetti "diritti civili". E' come se si fosse aperto per un attimo il cofano motore di un veicolo complesso e straordinario consentendo ai più curiosi ed attenti di carpire importanti informazioni. Come spesso succede, molti avevano la testa girata da un'altra parte.
Cominciamo dal titolo bancario che ha subito la perdita più consistente: il Monte dei Paschi di Siena. Sulla chiacchierata banca, persino i fogli di regime come La Stampa (1) riportano come il consistente ribasso sarebbe stato dovuto ad un'abile manovra da parte di alcuni fondi speculativi (hedge funds) americani.
Non è più l'Europa a
chiedercelo. Sono le organizzazioni finanziarie internazionali e
l'Europa e gli Stati accettano di essere “delegittimati”. Lidia Undiemi, studiosa di diritto e economia, editorialista di Wallstreet Italia. La
prima e principale accusatrice in Italia di MES e Fiscal Compact. Le sue
tesi saranno sintetizzate in un volume di prossima pubblicazione.
- Sono passati ormai tre anni da quando ha iniziato la sua
battaglia per impedire che l'Italia si legasse a trattati
intergovernativi come il MES – Meccanismo europeo di stabilità – ed il
Fiscal Compact. La sua azione di divulgazione continua oggi per cercare
di trasmettere nell'opinione pubblica la consapevolezza delle tremende
conseguenze pratiche sulla società di questi trattati. Ci può spiegare
cosa rappresenta il MES e perché i paesi per salvare l'euro hanno avuto
la necessità di scavalcare il diritto comunitario?
Il MES è un trattato di diritto internazionale che ha
come base giuridica il “meccanismo di stabilità da attivare ove
indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo
insieme”, introdotto con la modifica dell'art. 136 del Trattato sul
Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE). In parole più semplici, per
far fronte alla crisi della zona euro si è deciso di ricorrere ad un
accordo di diritto internazionale, con regole proprie che fuoriescono
dal sistema normativo comunitario. Qual è il risvolto politico di una simile scelta? Basti pensare al
sistema di votazione: nel processo decisionale dell'organizzazione MES,
il peso di ciascun paese aderente dell'Eurozona è proporzionato al
potere finanziario che esso riesce ad esprimere mediante il versamento
delle quote di partecipazione; la Germania, guarda caso, possiede la
quota maggiore.
In molti si rincorrono oggi a criticare un Trattato internazionale, il
cosiddetto Fiscal compact, che avrà i suoi effetti dirompenti e
drammatici per il nostro paese dal prossimo anno. A chiedere la
rinegoziazione di un accordo che prevede per il nostro paese l'obbligo
del perseguimento del pareggio di bilancio per Costituzione, quello del
non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5%
del Pil e una significativa riduzione del debito pubblico al ritmo di un
ventesimo (5%) all'anno, fino al rapporto del 60% sul PIL nell'arco di
un ventennio, sono, in modo sorprendente e tragicomico, anche quei
partiti che l'hanno ratificato in Parlamento nel luglio del 2012 dietro
le direttive dell'allora premier Mario Monti. La campagna elettorale per le elezioni europee di maggio, del resto, è iniziata
e il regime del partito unico che governa il paese dall'ex Commissario
dell'Unione Europea, Monti, a Renzi, passando per Letta, continua nella
sua opera di mistificazione verso una popolazione, della quale non
interessa nemmeno più il voto.
Troppo poco, a torto, si sa di un altro Trattato internazionale, quello istitutivo il Meccanismo europeo di stabilità (MES),
che, in modo complementare al Fiscal Compact, ha istituito una nuova
governance europea per la gestione della crisi. Il MES ha già prodotto
risultati pratici tangibili e enormi. L'Italia, considerando anche il
vecchio Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) di cui il Mes è
stato l'erede, ha già versato 46 miliardi di euro dei 125 miliardi
previsti fino al 2017. Soldi che chiaramente potevano essere utilizzati
per rilanciare la nostra economia attraverso quei progetti eternamente
sospesi per la mancanza di coperture.
Il
Fiscal compact obbliga l'Italia a ridurre di un ventesimo l'anno la
distanza che separa il rapporto debito/Pil, visto nel 2014 sopra il
133%, dalla soglia di riferimento del 60%. In linea di
principio il Fiscal compact non è così rigido come lo descrivono certi
opinionisti. E non comporta una manovra correttiva di 45-50 miliardi in
ciascun anno. In teoria, per
ridurre il rapporto debito/Pil di un ventesimo all'anno è sufficiente
mantenere il pareggio di bilancio in termini strutturali -- cioè al
netto del ciclo e delle una tantum -- e avere una crescita nominale
(compresa l'inflazione) vicina al 3%. Il problema è
che l'Italia è lontana da queste condizioni. Commissione europea, Fondo
monetario internazionale e Ocse stimano che il Pil di quest'anno
crescerà in termini reali dello 0,6%. E dallo scorso ottobre
l'inflazione è scesa al di sotto dell'1%. Il deficit strutturale per
Bruxelles è oltre lo 0,5% che delimita il pareggio di bilancio. D'altro canto, la decisione finale sul rispetto delle regole ha margini di discrezionalità politica.