La pubblicazione del rapporto annuale dell'ISTAT 2017 ha consentito ai giornali di formulare i consueti titoli da scandalo sulla "fine della classe operaia". I maggiori telegiornali hanno parlato di "classe operaia spazzata via dalla crisi". Al netto di qualche critica ad alcune delle scelte operate dall'ISTAT sulle categorie statistiche – dalla scelta delle categorie spesso dipende anche il risultato politico dell'analisi – i dati che si ricavano dal rapporto spingono ad un ragionamento più articolato, che non mette in discussione l'esistenza numerica dei lavoratori salariati, ma punta dritto alla questione della percezione che i lavoratori hanno di sé stessi.
In termini marxisti si potrebbe esprimere questa situazione con la differenza tra il concetto di classe in sé, storicamente determinato sulla base dei rapporti sociali di produzione, e quello di classe per sé, ossia di classe cosciente del proprio ruolo e della propria funzione storica. Andiamo con ordine, in attesa di un'analisi più accurata del dossier, che condurremo nei prossimi giorni.
Contro UE e NATO per il socialismo democratico e l’indipendenza nazionale
Le prossime elezioni presidenziali francesi del 23 aprile (primo turno) e del 7 maggio (ballottaggio), potrebbero rappresentare il punto di non ritorno per le traballanti e screditate istituzioni dell’Unione Europea. Dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la Francia si accinge a sferrare un colpo decisivo al concetto di Europa a trazione tedesca.
Se quasi tutti gli analisti politici europei prevedono per la corsa all’Eliseo una contesa tutta a destra tra il “thatcheriano” Fillon e la “gollista” Le Pen, con un Partito Socialista dilaniato e in caduta libera dopo la fallimentare gestione di Hollande, e con l’europeista Macron nel ruolo di ago della bilancia, un quarto incomodo potrebbe scombinare il quadro politico transalpino: il socialista di sinistra, nonché leader carismatico e indiscusso del Front de Gauche, Jean-Luc Mélenchon.
L’Italia, ha certificato l’Istat, torna in deflazione per la prima volta dal 1959. Non è un incidente di percorso ma un obiettivo che è stato perseguito con lucidità e coerenza. L’ISTAT ha recentemente certificato che il 2016 è stato per l’Italia il primo anno di deflazione dal 1959. Nell’anno appena terminato, i prezzi hanno registrato una variazione negativa dello 0,1 per cento rispetto al 2015. Era dal 1959, quando la flessione fu dello 0,4 per cento, che non accadeva. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come una manna dal cielo in tempo di crisi – beni e servizi a prezzi più accessibili, ottimo no? – è invece la cartina di tornasole della crisi profondissima in cui versa il nostro paese, quella che il governatore della Banca d’Italia ha recentemente definito
«la recessione più profonda e duratura nella storia d’Italia».
La deflazione – con la quale s’intende una caduta generalizzata dei prezzi – è causata dal crollo della domanda aggregata e in particolar modo dei consumi, che infatti in Italia sono tornati ai livelli di trent’anni fa. A questo le imprese reagiscono riducendo il personale e tagliando i salari nonché, appunto, i prezzi. Il che, ovviamente, non fa che deprimere ulteriormente la domanda. E così via, in una spirale distruttiva da cui, una volta entrati, è molto difficile uscire.
“Si può uscire dal baratro senza l’Europa che alimenta la turbofinanza”
Nino Galloni
Negli anni Ottanta, da funzionario, fu isolato per le sue posizioni ostili ai trattati e critiche su euro, sistema finanziario e banche. Oggi le sue teorie vengono prese a prestito anche da chi lo avversava. "Bisogna ribaltare i paradigmi senza venire a patti con le istituzioni: sono parte del problema e non hanno soluzioni", è la sua ricetta. Ai Cinque Stelle che attingono alle sue tesi dice: "Sono disponibile, ma per un progetto senza compromessi" Alle cronache dell’epoca era passato come “l’oscuro funzionario che fece paura a Helmut Kohl”. Da una posizione di vertice al ministero del Bilancio dell’Italia anni Ottanta aveva osato avversare apertamente i trattati europei. Profetico, a tratti perfino eversivo nelle sue teorie macroeconomiche, metteva già in discussione le politiche neoliberiste, il futuro della moneta unica, il dogma degli investimenti senza debito. E ora, a distanza di trent’anni e di molti libri e conferenze, anche chi governa nei consessi internazionali, perfino chi manovra la nave dell’eurozona alla deriva, inizia a parlare la sua strana lingua.
In seguito ai primi dati utilizzati da Matteo Renzi per sostenere la bontà delle sue norme sulla efficacia sul mondo del lavoro, ora arrivano quelli di inizio 2016: un disastro. Come volevasi dimostrare. Già all’epoca si era sorvolato nello specificare come la parola “indeterminato”, essendoci un’ampia libertà di licenziamento, non avesse più un gran significato e su quanto i dati fossero parziali. Come dimostrato in altra sede (qui), l'andamento annuale si è mantenuto stabile, e la crescita di fine anno poteva essere facilmente ascrivibile alla scadenza degli sgravi contributivi, vero asse portante dell’intera legge.
Ebbene, ora sono passati altri due mesi, e dunque cominciano a trapelare i dati dell’occupazione riferibili al primo trimestre 2016. A oggi gli incentivi rimangono ma sono molto meno generosi: per il 2016 gli anni di sgravio sono solo 2 e non 3, l’agevolazione dal 100% passa al 40% della contribuzione e il massimale da 8.060 a 3.250 euro. Non bastano, a quanto pare, nemmeno a mantenere stabile il livello occupazionale. Il contratto più vantaggioso per le aziende a questo punto è quello di apprendistato, dove la retribuzione è più bassa e i contributi fermi al 13%.
Millantando come una grande conquista la stabilizzazione a 24 mesi della Nuova Assicurazione Sociale per la perdita dell'Impiego (NASpI) in cambio del dimezzamento della possibilità di usufruire della Cassa Integrazione (da 48 a 24 mesi nei cinque anni), il commensale degli attori di "mafia capitale", il ministro Poletti, ha dato notizia della costituzione dell'Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro e del riordino di queste politiche.
Premesso che due anni di conservazione del posto di lavoro e con un sussidio costante sono ben altra cosa rispetto all'aggiunta di sei mesi di un assegno (quello della NASpI) che, decurtandosi del 3% al mese a partire dal quarto mese di disoccupazione, si riduce in briciole, andando a "vedere" il testo del decreto licenziato dal consiglio dei ministri e trasmesso – per il più inutile degli esami – alle commissioni parlamentari, non si può non riconoscere al governo la ferrea coerenza con cui, dopo aver fatto strame del diritto del lavoro, dà alla merce lavoro ed al lavoro in quanto tale la più consona allocazione commerciale: il discount.
Ho già scritto tantissimo sul crimine di questo Secolo, ossia la svalutazione del lavoro allo scopo di salvare l’Euro, una moneta sbagliata che ciascuno Stato dell’Eurozona è costretto ad andare a prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) o ad estorcerla ai cittadini.
E pensare che avevamo sovranità monetaria e potevamo creare moneta dal nulla, tendendo alla piena occupazione e comprandoci il nostro debito pubblico senza che questo costituisse un problema… che crimine questa moneta unica!
Per non ripetermi nuovamente, coloro che volessero approfondire il tema della svalutazione del lavoro al fine di salvare l’Euro potranno leggere questo mio articolo.
Oggi cercherò, invece, di farvi comprendere nel modo più semplice possibile la riforma del lavoro (in materia di licenziamenti) posta in essere dal Governo Renzi ed attuata a seguito di una Legge delega che il Parlamento, sordo e schiavo, ha votato subordinando per l’ennesima volta l’esercizio del potere legislativo a quello esecutivo (sto parlando del Jobs Act, vale a dire la Legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, più i decreti attuativi del 2015).
La mia analisi odierna si concentra quindi sul tema dei LICENZIAMENTI a seguito del cosiddetto Jobs Act.
Non c'è voluto poco
per rendere il mondo del lavoro italiano un lento dinosauro di fronte
alla veloce, temibile e tecnologicamente avanzata lotta di classe del
capitale. Il disarmo ideologico e politico dei lavoratori è stato un
percorso lungo, ma costantemente e pervicacemente portato avanti in modo
efficace all'interno delle loro stesse rappresentanze politiche. Lo
sfratto della contraddizione tra capitale e lavoro nella discussione
politica è stato un passo importante e grande per le classi borghesi
dominanti. Il "merito" deve essere ascritto sicuramente alle forze
socialdemocratiche revisioniste, le quali hanno fatto il grosso del
lavoro.
Tuttavia, altrettanto "merito" deve essere riconosciuto alle ultime
opposizioni italiane del re, le quali, beneficate da un suffragio
elettorale cospicuo (anche se modesto, tarata l'astensione), hanno
costruito un'alternativa politica completamente aliena dalle reali
contraddizioni di classe, fondata sul complottismo della corruttela
politica e degli sprechi, sulla mistica della legalità e della necessità
di abolire le distinzioni persino tra destra e sinistra, figuriamoci
tra capitale e lavoro. Un vero sogno per la classe dominante abbarbicata
ai monopoli finanziari ed industriali: il nemico non ha occhi per
rendersi conto dei colpi mortali che si vanno preparando.
Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo
18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro
e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi
supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente
accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo
sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto
di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle
regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo
principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e
sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in
testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa,
la “seniority list”.