Quando mi sono recato per la prima volta in Israele-Palestina nel 1994, durante gli inebrianti primi giorni del processo di pace di Oslo, mi aspettavo di vedere altri dei gioiosi festeggiamenti che avevo visto in televisione in patria. L’emozionante accoglienza al presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat, di ritorno in Palestina. Le grandi dimostrazioni a favore della pace nelle strade di Tel Aviv. Il momento spontaneo nel quale palestinesi hanno infilato garofani nelle canne dei fucili dei soldati israeliani in partenza. E anche se l’iniziale euforia aveva cominciato a tramontare, c’era chiaramente ancora speranza. Era l’età del dialogo. Molti palestinesi assistevano a testimonianze del trauma israeliano radicato nell’Olocausto. Gruppi di israeliani cominciavano a comprendere la Nakba, o Catastrofe, quando 750.000 palestinesi abbandonarono le loro case, o ne furono cacciati, durante la creazione di Israele nel 1948. Dopo la Dichiarazione di Principi di Oslo, firmata il 13 settembre 1993 – un quarto di secolo fa oggi – i sondaggi mostravano che grandi maggioranze di israeliani e di palestinesi appoggiavano l’accordo. Israele, esausto dopo sei anni di intifada palestinese, voleva che Oslo portasse a una pace duratura. I palestinesi credevano che il risultato sarebbe stato la creazione di una loro nazione libera, fianco a fianco a Israele.
“La gente pensava che fosse l’inizio di una nuova era”, dice Salim Tamari, sociologo palestinese e curatore del Jerusalem Quarterly. “Era miracoloso”, ricorda Gershon Baskin, fondatore del Centro Israelo-Palestinese per la Ricerca e l’Informazione, “una vetta di ottimismo e di speranza”. Baskin, uno statunitense emigrati in Israele quasi quarant’anni fa, ricorda la forza emotiva di “quelle due parti che rifiutavano di riconoscere il diritto di esistere dell’una e dell’altra e che si incontravano in una stanza e che rompevano con tutto ciò e stilavano una formula che, all’epoca, appariva ragionevole”.
L’euforia non è mai duratura
Anche allora, tuttavia, c’erano segnali inquietanti. Durante quel primo viaggio, ancora nell’aura di Oslo, mi sono trovato nel cuore della West Bank, a guidare, nel mio percorso da Betlemme a Hebron, lungo “tangenziali” nuove, lisce come il vetro, costruite per coloni e VIP israeliani. Ero confuso. Non era questo il territorio destinato al futuro stato palestinese indipendente? Perché, allora, era autorizzato qualcosa di simile? Analogamente, l’anno successivo, quando gli israeliani intrapresero il loro tanto proclamato “ritiro” da Ramallah, perché si erano ri-dispiegati ai margini di quella cittadina, mantenendo il pieno controllo militare del 72% della West Bank? Tali ostinati fatti sul terreno si frapponevano all’ottimismo apparentemente soverchiante generato da quella “pace dei coraggiosi”, simbolizzata dalla stretta di mano tra Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin di fronte al presidente Clinton sul prato della Casa Bianca. Era possibile che stessimo assistendo all’inizio della fine di generazioni di bagni di sangue e traumi? C’erano comunque già dei dissenzienti. Mourid Barghouti, il poeta palestinese che, come migliaia dei suoi fratelli, era tornato dall’esilio nei primi giorni di Oslo, era sconvolto nel trovare ex combattenti per la libertà dell’OLP ridotti alla condizione di gretti burocrati a signoreggiare sui cittadini comuni. Israele, scrisse nelle sue memorie, I Saw Ramallah [Ho visto Ramallah], era “riuscito a fare a pezzi l’aspetto sacro della causa palestinese, trasformandolo il quella che è oggi: una serie di ‘procedure’ e di ‘calendari’ che solitamente sono rispettati solo dalla parte più debole nel conflitto… gli altri rimangono i padroni del campo”. Un altro critico di Oslo, Edward Said, l’intellettuale palestinese e docente di letterature comparate presso la Columbia, rifiutò l’invito della Casa Bianca a presenziare alla cerimonia della firma tra Arafat e Rabin. Oslo, scrisse, doveva essere considerata “uno strumento della resa palestinese… un regno di illusioni, con Israele fermamente al comando. Chiaramente l’OLP si è trasformata da movimento di liberazione nazionale a una specie di amministrazione cittadina… Quello che Israele ha ottenuto è il consenso palestinese ufficiale alla continua occupazione”. All’epoca molti palestinesi consideravano Said uno intento a ostacolare un progresso reale, anche se graduale. Lo stesso Arafat disse che vivendo negli Stati Uniti il famoso professore “non avverte la sofferenza del suo popolo”.
O forse sì. Nei miei quasi venti viaggi in Terrasanta nel quarto di secolo dopo Oslo, ho visto quadruplicare la popolazione dei coloni nella West Bank, nuovi insediamenti circondare Gerusalemme e Israele in pieno controllo militare di più del 60 per cento della West Bank (invece del precedente 72 per cento). Tutte quelle “tangenziali” per i coloni e il limitato nuovo dispiegamento di truppe sono risultati indicare non solo ostacoli sulla via verso il culmine del “processo di pace”, ma difetti fatali incorporati in Oslo fin dall’inizio. In effetti la Dichiarazione di Principi di Oslo, che citava la sicurezza 12 volte, ma nemmeno una volta indipendenza, sovranità, autodeterminazione, libertà o Palestina, non era semplicemente costruita per fermare tale espansione. In realtà gli accordi sono parsi semplicemente agevolarla.
“Era costruita per assicurare che non ci sarebbe stato mai uno stato palestinese”, dice Diana Buttu, analista palestinese e già consulente legale dell’OLP. “Chiarirono che non avrebbero inserito le espressioni ‘soluzione a due stati’, ‘stato palestinese’ o ‘indipendenza’. Era del tutto mirata a garantire che i palestinesi non avrebbero avuto la loro libertà”.
Il fallimento di Oslo
La domanda che merita di essere posta in questo venticinquesimo anniversario di quegli accordi che essenzialmente hanno guidato la politica di USA, Israele, territori palestinesi occupati e capitali europee per un quarto di secolo, è la seguente: erano condannati fin dall’inizio? Miliardi di dollari e infinite tornate di negoziati poi falliti; Oslo ha mai avuto realmente una possibilità di successo?
“Penso sia sbagliato dire a posteriori che fu tutto un inganno” dice Salim Tamari dagli uffici editoriali del Jerusalem Quarterly, un tempo situati nella città santa e oggi a Ramallah. L’accordo iniziale era privo di specifiche, lasciando i problemi maggiori – insediamenti, Gerusalemme, controllo dell’acqua, profughi e loro diritto al ritorno – a “negoziati sullo status finale”. Israele, ritiene Tamari, diversamente dai palestinesi, conseguì un obiettivo importante fin dall’inizio. “Gli israeliani volevano soprattutto avere un accordo sulla sicurezza”.
In “Oslo II”, messo in atto nel 1995, Israele ottenne la sua preziosa collaborazione alla sicurezza, il che significava che la polizia palestinese avrebbe controllato i dimostranti palestinesi e avrebbe così impedito loro di scontrarsi direttamente con le forze israeliane. Quelli erano, ovviamente, gli stessi scontri che avevano contribuito ad alimentare il successo della Prima Intifada, creando le condizioni per Oslo. Oggi è un’amara ironia per i palestinesi che sacrificarono membri delle famiglie o arti per quello che risultò un accordo così debole. Ma all’epoca, per molti, sembrò valere il prezzo pagato. Per i palestinesi Oslo è rimasta una specie di tabula rasa di speranze e sogni basati sulla formula di concludere prima un accordo e di elaborare i dettagli in seguito. “Arafat pensava che se fosse stato in grado di entrare nei territori palestinesi, avrebbe gestito i suoi rapporti con gli israeliani”, dice Ghassan Khatib, ex ministro del lavoro e della pianificazione dell’Autorità Palestinese (PA) e analista e sondaggista di spicco. “E non prestò attenzione ai dettagli dei documenti scritti”. Più importante per Arafat era semplicemente tornare dall’esilio in Tunisia e poi convincere Israele a por fine alle sue politiche di insediamento, dare Gerusalemme Est ai palestinesi, condividere le risorse idriche della regione e arrivare a un accordo equo sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi espropriati nel 1948. Tuttavia Arafat e la sua squadra di dirigenti dell’OLP dalla diaspora, sostiene Khatib, “non avevano alcuna comprensione o esperienza del modo israeliano di fare le cose, della mentalità israeliana, eccetera”. Altrettanto grave, dice Omar Shaban del gruppo di esperti di Gaza Pal-Think, fu l’inettitudine delle istituzioni palestinesi nel convincere gli israeliani che erano in grado governare con competenza. “Non abbiamo fatto un gran buon lavoro… Non abbiamo costruito buone istituzioni. Non abbiamo costruito democrazia reale. E non abbiamo parlato abbastanza al pubblico israeliano … [per] convincerlo che siamo qui per lavorare insieme, per costruire insieme” e che “la pace è un bene per il popolo israeliano”. Per Gershon Baskin, tuttavia, il fallimento di Oslo ha avuto meno a che fare con incomprensioni culturali e cattiva amministrazione burocratica e molto di più con un atto di violenza politica: l’assassinio di Rabin per mano di estremista israeliano di destra nel 1995. La sua morte fu “il principale evento che cambiò il corso di Oslo”. Come ricorda Baskin, che lavorava da consulente della squadra d’intelligence di Rabin per i negoziati israelo-palestinesi: “So in quale direzione si stava muovendo Rabin quando accettò Oslo.” Nei primi anni di Oslo, i vice del primo ministro erano al lavoro in negoziati segreti con i palestinesi – gli Accordi di Ginevra e l’accordo Beilin-Abu Mazen – che avrebbero fatto importanti concessioni territoriali e richiesto che Gerusalemme Est fosse la futura capitale palestinese. Alcuni palestinesi non si fecero impressionare; notarono che approvando gli accodi di Oslo avevano già accettato di cedere il 78 per cento della Palestina storica, accettando il 22 per cento che restava: la West Bank e Gaza. E segnalarono che alcuni insediamenti permanevano in entrambi tali accordi ufficiosi e che nessuno dei due includeva un qualche genere di diritto palestinese al ritorno, considerato dagli israeliani un potenziale colpo mortale al loro stato e considerato un tema non negoziabile da innumerevoli palestinesi sradicati nel 1948. “C’è un mucchio di storia revisionista”, dice Diana Buttu. Lei segnala che quando il colono statunitense Baruch Goldstein assassinò 29 palestinesi in preghiera in una moschea di Hebron nel 1994, Rabin avrebbe potuto cogliere il momento per mettere fine agli insediamenti. Invece, lei segnala, egli “trincerò l’esercito, trincerò gli insediamenti. E’ molto astuto per loro dire che tutto è stato collegato all’assassinio di Rabin. Ma in realtà è collegato innanzitutto a quello che lui intendeva fare.” I soldati assumono il controllo Tuttavia Baskin ritiene che quando Rabin, avendo appena parlato a 100.000 israeliani in una manifestazione per la pace a Tel Aviv, fu abbattuto, le priorità israeliane cambiarono in misura impressionante. “Fu un processo di pace assunto dall’esercito e dalla gente della sicurezza che avevano un’idea molto diversa di come condurlo”. Questo “cambiamento di mentalità”, egli aggiunge, passò “dalla cooperazione e dalla costruzione di ponti alla costruzione di muri e recinti, creando un sistema di separazione, di permessi, di restrizioni al movimento”. La divisione della West Bank nelle aree A, B, e C, cioè ad apparente pieno controllo palestinese (18%), controllo congiunto (22%) e pieno controllo militare israeliano (60 per cento) doveva essere temporanea, ma è rimasta lo status quo per un quarto di secolo. Indipendentemente dai motivi e dalle intenzioni degli architetti israeliani di Oslo, essi furono presto sostituiti da israeliani che consideravano la rivendicazione di Eretz Israel – tutta la terra dal Mediterraneo al fiume Giordano – un principale obiettivo territoriale. In conseguenza, l’interminabile espansione degli insediamenti (e la creazione di nuovi) nonché il sequestro di terre palestinesi nella West Bank e persino di singole case palestinesi nei quartieri di Gerusalemme Est, sono divenuti la partita finale di successivi governi israeliani, favoriti dalle loro controparti statunitensi. “Il fatto fondamentale è che Israele ha la sua torta e se la mangia”, dice Tamari. “Ha i territori. Non si ritira. E’ felice della sicurezza di A, B e C. Non subisce pressioni dagli statunitensi. Al contrario.” Nell’era di Oslo, presidenti e segretari di stato statunitensi, al massimo, hanno formulato tenui rimproveri diplomatici per la costruzione degli insediamenti, non minacciando mai di sospendere gli aiuti statunitensi se Israele non avesse smesso di minare il “processo di pace”. L’ultima volta è successo quando il Segretario di Stato James Baker ha minacciato di sospendere 10 miliardi di dollari di garanzie di prestiti a Israele durante la presidenza di George H.W. Bush nel 1992. E così, costantemente, ad ogni nuova visita in Terrasanta assistevo alle prove più recenti in un’occupazione dilagante: insediamenti e basi militari nuovi o più vasti, più pattugliamenti su jeep e blindati, nuove torri di sorveglianza, altre barriere terrestri, giganteschi cartelli di avvertimento rossi e bianchi e soprattutto centinaia di posti di controllo militari, sempre più onnipresenti, virtualmente a ogni miglio della West Bank. Meno visibili erano le irruzioni notturne in campi profughi palestinesi e quasi il 40 per cento dei maschi palestinesi adulti che ha subito il carcere in Israele, dove la percentuale di condanna dei tribunali militari per loro è il 99,74 per cento. Anche in aumento era la “cooperazione alla sicurezza” con Israele dell’Autorità Palestinese. Ciò, a sua volta, metteva palestinesi gli uni contro gli altri, incattivendo gli abitanti di città e paesi contro la PA al governo. Col crescere del sistema di controllo, non hanno fatto che aumentare restrizioni draconiane ai movimenti. Adulti e bambini erano costretti ad attendere ore per tornare a casa dalla scuola o dal lavoro o da una visita in ospedale o da parenti in Giordania. Contemporaneamente la Palestina occupata era lentamente convertita in un arcipelago di controlli militari israeliani. Chiaramente il “processo di pace” aveva reso le cose molto peggiori per i palestinesi.
“Ricordo i bei tempi quando c’era pace senza accordi”, dice Shaban di Pal-Think, solo parzialmente con ironia. “Oggi abbiamo accordi senza pace”. Quando “pace” è una parolaccia
E così, nei decenni post Oslo, persino “pace” è divenuta una parolaccia per molti palestinesi. “Pensavano che quell’accordo avrebbe condotto a uno stato palestinese indipendente”, dice Ghassan Khatib, il cui sondaggio iniziale, subito dopo l’iconica stretta di mano sul prato della Casa Bianca, mostrò il 70 per cento di sostegno palestinese a Oslo. Ma quando, aggiunge, “il pubblico si rese conto che l’accordo non era sufficiente a fermare l’espansione degli insediamenti, si è reso conto che non serviva a nulla. Poiché il processo di pace per i palestinesi riguarda la fine dell’occupazione. E l’espansione degli insediamenti è di fatto l’essenza dell’occupazione”. Venticinque anni dopo il suo sondaggio rileva che il sostegno al “processo di pace” tra i palestinesi è circa del 24 per cento.
Sul terreno, quello che oggi esiste non sono due stati, ma essenzialmente un solo stato che lascia Israele con il controllo de facto di terra, acqua, confini e libertà di movimento. Quali che fossero i collegamenti esistenti tra West Bank, Gaza e Gerusalemme, sono stati frantumati, con scarse prospettive di qualche genere di riunificazione in un futuro prossimo. Oggi, quando ci si reca nella West Bank e si guida attraverso quello che doveva essere il paesaggio di una Palestina libera e indipendente, ci si trova circondati da un regime coloniale d’insediamento militarizzato. Viene in mente inevitabilmente il termine “apartheid”, nonostante la sua impopolarità presso la lobby filoisraeliana e le sue denunce al Congresso. Mi chiedo se “Jim Crow” non descriva meglio la nuova realtà palestinese.
A me ogni viaggio successivo ha rivelato una situazione politica più fosca e meno ottimista della volta precedente. Il perseguimento israeliano della terra piuttosto che della pace e la complicità del governo statunitense hanno essenzialmente ucciso la “soluzione a due stati”. Il colpo finale è arrivato lo scorso maggio quando l’amministrazione Trump ha trasferito l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Nel processo è divenuto chiaro che la politica mediorientale degli Stati Uniti oggi è in larga misura diretta non solo dal triumvirato favorevole ai coloni del genero di Trump, Jared Kushner, dell’ambasciatore in Israele David Friedman e dal consigliere per il Medio Oriente Jason Greenblatt, ma anche dalla lobby dell’Armagheddon. Quei cristiani evangelici sono capeggiati da Christians United for Israel[Cristiani Uniti per Israele] di John Hagee che ha superato l’America Israel Public Affairs Committee come più vasto gruppo filoisraeliano negli Stati Uniti.
Credono che Israele debba mantenere il controllo della Terrasanta in modo che Gesù possa tornare e somministrare la giustizia ai peccatori, dopo di che i credenti saliranno in cielo in estasi. Hagee, che descritto in dettaglio quel momento dal suo pulpito, è uno dei maggiori donatori all’insediamento israeliano di Ariel (popolazione 20.000). Non è stato un caso che sia stato lui il religioso che ha dato la benedizione alla cerimonia di consacrazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme a maggio, mentre le forze israeliane abbattevano a colpi d’arma da fuoco dimostranti disarmati a Gaza. Ora, in un tentativo di por fine al problema di vecchia data del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, l’amministrazione Trump sta cancellando finanziamenti all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i profughi che ha fornito per quasi sette decenni cibo, riparo, istruzione e alloggi nei campi profughi palestinesi. La mossa, guidata da Kushner, fa parte di un più vasto “accordo del secolo” per spingere i palestinesi a un accordo di pace a condizioni statunitensi e israeliane. Chiaramente un cattivo accordo per i palestinesi, è certo che accrescerà fortemente la povertà e la fame nei campi profughi, specialmente a Gaza. Strategicamente risulta essere un tentativo di forzare gli abitanti di Gaza a rinunciare ai loro diritti nazionali di lungo corso, aumentando la loro dipendenza da aiuti umanitari. C’è un’altra soluzione, dice Butto. Invece di affrontare questo come principalmente un problema umanitario, la comunità internazionale potrebbe “esercitare pressioni su Israele perché termini l’assedio [economico] e ci consenta di vivere in libertà. Se fossimo in grado di avere un porto, un aeroporto”, di importare, esportare e viaggiare liberamente, “non avremmo bisogno di sussidi”. Tuttavia la maggior parte del mondo, dice, è “troppo terrorizzato per affrontare Israele”. Pace fallita, speranze infrante, fame, apartheid, Armagheddon. Non molto da festeggiare, vero? E può non esserci per un bel po’. “Il sogno c’è ancora”, insiste Tamari, ma aggiunge che, nel prevedibile futuro “penso che continueremo ad avere lo status quo. Stato di repressione, colonizzazione per molti, molti anni a venire. Fino a quando non cambierà la scena globale”. Diciamo un grande declino dell’influenza statunitense (qualcosa non così difficile da immaginare ora) o qualche altro meno prevedibile insieme di eventi. “O fino a quando i palestinesi non intraprenderanno una grande insurrezione civile. Quello può spostare l’ago della bilancia.”
Inno alla gioia
Molti palestinesi considerano la recente Marcia del Ritorno di Gaza e il movimento nonviolento del boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS) che promuove boicottaggi culturali ed economici di Israele, come esempi di tali insurrezioni civili. I sostenitori del BDS hanno recentemente celebrato una vera vittoria, con gli annunci del ritiro di Lana del Rey e di 15 altri artisti dal Festival Meteor in Israele. Tuttavia, presi insieme, il BDS e la Marcia del Ritorno non si avvicinano alla Prima Intifada, sei anni di rivolta che coinvolsero virtualmente ogni settore della società palestinese, e che portò Israele al tavolo dei negoziati, ironicamente per il fallito Accordo di Oslo. Tuttavia sono pochi i palestinesi che verosimilmente vi diranno che il sogno nazionale è morto. A fine luglio, ad esempio, ho parlato con Laila Salah, una violoncellista palestinese ventunenne che stava facendo le prove dell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven a Gerusalemme in un’orchestra diretta dal violista palestinese Ramzi Aburedwan, il fondatore della scuola di musica Al Kamandiati. Molti dei musicisti palestinesi compagni di Laila, rischiando l’arresto, si sono intrufolati nella città santa in parte per suonare Beethoven ma anche per affermare il loro diritto di stare nella loro amata Gerusalemme, che continuano a sognare come loro capitale. Quando ho chiesto a Laila se pensava che la Palestina avrà un giorno un proprio stato, lei ha paragonato la libertà del suo popolo al quarto movimento, o Inno alla gioia, della Nona Sinfonia. “Il quarto movimento incarna la nostra libertà”, mi ha detto. “O almeno essere in grado di muoversi liberamente in Palestina. E’ un desiderio che si avvererà. Non so quando. Potremmo non essere vivi per vedere il nostro quarto movimento”. Con la marcia interminabile degli insediamenti, la continua impunità di Israele, una Palestina spaccata, divisa tra la West Bank e Gaza e un’amministrazione Trump che dà potere a persone che credono che l’Armagheddon sia prossimo, una soluzione dell’incubo israelo-palestinese può sembrare impossibile. Ma forse, Laila, una pace giusta sta arrivando prima di quanto pensi. Dopotutto, chi aveva previsto la caduta del Muro di Berlino o la fine dell’apartheid in Sudafrica?
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