“Il primo ad avermi deportato è stato Obama. Poi anche Trump due mesi fa. Ora aspetto il momento giusto per saltare un’altra volta. Dall’altra parte ho il mio lavoro e la mia famiglia, non mi importa nulla del muro”.
È quel che mi ha detto un uomo in un hotel per migranti a Mexicali, la capitale dello Stato messicano della Bassa California. A Mexicali siamo arrivati con un micro-bus da Tijuana. La strada è abbastanza buona anche se c’è una parte che viene considerata la più pericolosa del Messico. È il tratto che attraversa la Sierra de Juarez, 20 km di tornanti costeggiati da enormi massi.
A Mexicali la temperatura è insopportabile. Fino agli anni 80, a poche miglia dal centro, iniziava la Laguna Salada, un enorme bacino di acqua salmastra alimentato da qualche rivo perduto del fiume Colorado o dalle alte maree provenienti dal Golfo di California. Oggi la laguna è completamente secca. I messicani accusano i nordamericani di utilizzare tutta l’acqua del Colorado per irrigare i campi di barbabietole dell’Imperial Valley, la valle che inizia al di là del muro, e per dare corrente alle insegne e alle slot-machine di Las Vegas.