3 novembre 2011

IL ROMANZO DI UN DELITTO DI VERITA’ (3/4)

Nel 2010 uno dei leader del PD, Walter Veltroni, scrive al Ministro della Giustizia Angelino Alfano per sollecitare la riapertura delle indagini sulla morte di Pasolini. Stanno, infatti, emergendo novità di un certo rilievo. Nella puntata del programma di RaiTre “Chi l’ha visto” del 19 aprile 2010, la giornalista e presentatrice Federica Sciarelli si occupò della scomparsa di un personaggio legato alla malavita romana, tale Antonio Pinna, che aveva fatto perdere di sé le tracce nel lontano 13 febbraio 1976. 
Di HS
La sua Alfa GT, simile a quella di Pasolini, era stata ritrovata nell’aeroporto di Fiumicino. Chi non ha mai smesso di cercare quell’uomo è il figlio nato una relazione prematrimoniale il quale si rivolge a Silvio Parrello, amico di Pasolini e noto al secolo come Er Pecetto del celebre romanzo “Ragazzi di vita”. Parrello è un noto e stimato pittore e conosceva bene Pinna, meccanico e asso del volante del quartiere Donna Olimpia. Non solo… Secondo Parrello, Pasolini e Pinna si conoscevano bene dagli anni Cinquanta quando lo scrittore viveva a Monteverde.
Nulla di così strano e scandaloso: a quell’epoca a Donna Olimpia i palazzoni ex IACP si affacciavano sulla Monteverde bene. Da una parte gli uomini del clan malavitoso dei Proietti – la banda che affrontò in una sanguinosa guerra l’emergente banda della Magliana – e dall’altra gli scrittori “monte verdini” come Pasolini, Gadda, Caproni, i Bertolucci, ecc…

D’altronde molti attori e collaboratori di Pasolini - come i due Citti e Ninetto Davoli – provenivano dalle borgate e, senza quell’amicizia, sarebbero stati destinati a ben altra carriera. Da buoni osservatori e fotografi della realtà delle borgate e delle periferie questi artisti ed intellettuali non trascuravano di relazionarsi con gli abitanti, anche con coloro che vivono di espedienti e alla giornata. Non sarebbe altrimenti stato possibile scrivere certi romanzi riproducendo in maniera assolutamente fedele linguaggi, comportamenti ed inflessioni dialettali. Ancora prima di morire Pasolini frequentava il Pinna e sarebbero diventati amici…

Da quel lontano 1976 più nessuna notizia a parte un episodio che risale a tre anni dopo quando Pinna venne fermato per guida senza patente. Stranamente il documento del fermo è pieno di omissis e in parte secretato. Per quale motivo ? E come potrebbe c’entrare Pinna con la morte di Pasolini ? I misteri che circondano il caso ne hanno causato la scomparsa ?
Parrello raccolse la testimonianza di un carrozziere – Marcello S. – che si vide portare a riparare un’Alfa GT che era stata “urtata” simile a quella di Pasolini dai colleghi Luciano C. e Antonio Pinna. La vettura – dirà il meccanico – era anche sporca di fango. Corrisponde alla descrizione dell’auto che aveva arrotato il corpo di Pasolini. In seguito ci avrebbe pensato lo stesso Pinna a riparare l’Alfa… Il rapporto fra il caso dell’omicidio Pasolini e la scomparsa di Antonio Pinna si fa sempre più stretto e stringente: il 13 febbraio 1976 – data della sparizione – è iniziato da pochi giorni il processo e da un paio di giorni l’appuntato Sansone aveva effettuato l’arresto dei fratelli Borsellino che avevano confessato di aver ucciso Pasolini con il concorso di Johnny lo Zingaro.

Per un’altra strana coincidenza Pinna conosceva bene Giovanni, il padre dei due Borsellino, che si era suicidato nel luglio del 1975. L’amicizia era stata stretta in carcere.
Dunque, essendo stato fermato per guida senza patente nel 1979, Pinna ha potuto godere di protezioni nella sua fuga ? Chi ne ha coperto le tracce ? Oppure dopo qualche tempo è stato deciso di eliminare anche lui ?
Parrello non ha dubbi in proposito: la vettura portata da Pinna da Marcello S. è quella che era presente all’Idroscalo. Probabilmente lo stesso Pinna era presente e, comunque, sarebbe stato a conoscenza di molti particolari riguardo all’evento criminoso. Il pittore rievoca il filmato in 8 mm girato dal compianto Sergio Citti: vi si possono scorgere una cancellata sfondata e un paletto di cemento piegato. Ma secondo la perizia di parte civile voluta dalla famiglia di Pasolini ed effettuata dal professor Faustino Durante, l’auto dello scrittore non presentava segni d’urto o strisciature sulla coppa dell’olio e sulla marmitta, mentre il frontale non mostrava tracce ematiche o di cuore capelluto.

A dimostrazione che non poteva essere la GT dello scrittore ad aver provocato i danni alla cancellata e al paletto. Per non parlare delle buche che potevano causare dei danni all’auto… Inoltre Citti raccolse la testimonianza di un pescatore – oggi ormai deceduto - che vide quanto accadde e che avrebbe confermato sostanzialmente la ricostruzione di Parrello sulla dinamica dell’omicidio. Allora è proprio la GT di Pinna quella che investì Pasolini e che poi sfondò la cancellata ?

Allo stato attuale l’inchiesta è stata riaperta e affidata al PM Minisci e ne attendiamo con trepidazione l’esito, ma ora ci arroghiamo la presunzione di avanzare qualche riflessione e di presentare un abbozzo di ricostruzione…

Girandoci intorno è agevole notare come in questa storia ricorrono sempre gli stessi nomi e che pare che tutti costoro si conoscano bene… Antonio Pinna, Giuseppe Mastini detto Johnny lo Zingaro, i fratelli Borsellino, Sergio Placidi e, infine, naturalmente Pino Pelosi. Un milieu dove troviamo un po’ di tutto a livello delinquenziale: dallo spaccio di droga allo sfruttamento della prostituzione, dalla rapina al pestaggio, dallo scippo al piccolo furto, ecc… I mondi dell’estremismo di destra, della criminalità comune e della piccola malavita giovanile di quartiere si sovrappongono e si fondono. Tutto ciò contribuisce a confondere le idee sulle ragioni per cui può essere stato ucciso Pier Paolo Pasolini.

L’ennesimo delitto consumato sullo sfondo dello scontro fra le bande “rosse” e quelle “nere”, il crimine maturato nell’ambiente della prostituzione omosessuale e giovanile, la difesa estrema da un tentativo di violenza, una rapina finita male e degenerata in violenza, la “lezione” di un gruppo di balordi o di giovani teppisti, il tentativo di ricatto con il furto delle bobine di “Salò”. Se ci si riflette bene, ognuna di queste piste porta a fattacci di malavita e cronaca nera che fanno felici tanti giornali, ma che, certo, nulla hanno a che vedere con qualsiasi risvolto politico. Perfino la tesi della spedizione di un gruppo di picchiatori fascisti organizzata per colpire un intellettuale comunista e omosessuale è riduttiva, quasi pseudopolitica.     

Proviamo a percorrere la strada del delitto perpetrato dal Potere a partire dal dato che quell’Antonio Pinna, scomparso nel nulla, era stato coinvolto nel sequestro di un farmacista e aveva legami con la discussa banda dei marsigliesi che, prima della Magliana, spadroneggiò a Roma.

Allora si tratta innanzitutto di fornire la sintesi di un altro “romanzo criminale”…

Agli inizi degli anni Settanta la piazza romana della delinquenza è ancora modesta permeata da una microcriminalità che sopravvive con rapine, furti, truffe e scippi. Il panorama verrà rivoluzionato da elementi stranieri, banditi e rapinatori venuti dalla fiorente Marsiglia, gente particolarmente decisa che non si fa scrupolo di usare, se occorre, pistole e mitraglie. Perlopiù italofrancesi, è gente che ha vissuto ai margini della criminalità marsigliese che conta, quella coinvolta nei grandi traffici di stupefacenti che sfruttano i canali della cosiddetta French Connection per approdare nel territorio statunitense. Esclusa dai traffici illeciti dei caid, i padrini marsigliesi e corsi, costoro hanno trovato la propria vocazione nella rapina a mano armata mettendo a segno una serie di colpi veramente spettacolari che attirano l’attenzione della stampa e dei media.

Proprio al principio del decennio il già notissimo e famigerato bandito italofrancese Albert Bergamelli contatta a Roma un altro spietato criminale marsigliese, già accusato di omicidio, Jacques Berenguer. Ai due si unisce il bresciano Maffeo “Lino Bellicini, appena evaso da un carcere portoghese. Sono tutti ricercati dalle polizie di mezzo mondo e si stabiliscono a Roma per mettere in piedi una banda spregiudicata ed efficiente, la banda delle “tre B.” o, appunto, la banda dei Marsigliesi accogliendo gli elementi più promettenti della malavita locale. Oltre alla specialità della rapina a mano armata il gruppo si dedica al traffico e allo spaccio di eroina e di cocaina e, come vedremo, al sequestro di persona che sta diventando un ‘autentica industria del crimine.

I Marsigliesi fanno ovviamente scuola, facendo fare un notevole salto di professionalità ed efficienza alla piccola delinquenza di borgata e, quando il gruppo italofrancese verrà sgominato dalle forze dell’ordine, saranno proprio i criminali autoctoni delle batterie che vanno a formare la banda della Magliana a raccoglierne per un certo periodo l’eredità. Attenzione ! Non è certo ancora mafia, criminalità dai pericolosi tratti settari, ma neanche criminalità organizzata e strutturata. Siamo piuttosto nei dintorni di una criminalità comune di alto livello, quella delle bande capaci di accumulare lauti profitti da attività delinquenziali che comportano un certo rischio. La criminalità romana ha cambiato pelle: il fenomeno rappresentato dai Marsigliesi è di difficile e complessa definizione del punto di vista criminologico. Essi coniugano il senso degli affari e del business di un boss come il leggendario Al Capone con l’audacia e la ferocia delle gang americane di rapinatori come quelle di John Dillinger, di Bonnie & Clyde e della famiglia Barker.

Come sempre gli americani anticipano tendenze e fenomeni globali anche relativamente al campo della criminalità. A ciò si aggiunga che questi nuovi gangster si organizzano e si muovono come terroristi, dimorando in appartamenti – covo acquistati o affittati per proteggerne la latitanza. Sicuramente le innumerevoli rapine e i sequestri di persona compiute dalla banda hanno qualcosa di terroristico, spargendo un senso di insicurezza e di terrore diffusi nella popolazione romana. Il 22 febbraio 1975 la famosa rapina in piazza Caprettari frutta un magro bottino e l’assassinio dell’agente Domenico Marchisella accorso sul posto.

Non è il primo e non sarà l’ultima vittima dell’azione di banditi a mano armata disposti a fare fuoco sia sugli agenti di polizia che su innocenti passanti se costretti dalla necessità. D’altronde i Marsigliesi aggregano attorno a loro i delinquenti più decisi della capitale fra cui Laudavino De Sanctis detto “Lallo lo Zoppo” che metterà insieme una banda dedita ai sequestri di persona e famosa anche per aver assassinato alcuni ostaggi. Certamente più noto alle cronache e alla storia è Danilo Abbruciati, un ex pugile che ha scoperto la propria vocazione nella rapina. Abbruciati si distinguerà come uno dei boss dei testaccini della banda della Magliana e, probabilmente, rafforzerà la sua posizione all’interno della mala romana grazie alle potenti protezioni accordate. La banda della Magliana dominerà la piazza romana a partire dalla fine degli anni Settanta – e per circa quindici anni – grazie alla conquista del monopolio della distribuzione e dello spaccio degli stupefacenti.

Questa posizione consentirà al gruppo di malavitosi romani di trattare da pari a pari con la mafia siciliana, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e la ndrangheta calabrese. Sul piano strettamente operativo non mancherà la collaborazione da parte dei giovani neofascisti romani anche, se, almeno sembra, alcuni elementi della banda intratterranno rapporti anche con gli estremisti di sinistra dell’Autonomia. La rete di rapporti dei boss della banda della Magliana conduce alle stanze del potere: Vaticano, i servizi segreti egemonizzati dalla loggia P2, i palazzi romani della politica che conta, settori della magistratura e delle forze dell’ordine. E naturalmente i compiacenti canali del riciclaggio sostenute da personaggi più o meno rispettabili come l’usuraio Domenico Balducci e il costruttore Rosario Nicoletti.

L’accesso a questi canali finanziari è favorito dal boss mafioso Pippo Calò, padrino della cosca palermitana di Porta nuova, ambasciatore e cassiere dell’organizzazione con il compito di tenere i rapporti e i collegamenti con gli ambienti romani del potere e di riciclare i proventi delle attività di Cosa Nostra. Secondo alcuni è proprio Calò la mente direttiva della banda della Magliana e fra i componenti del sodalizio criminale stringerà un rapporto di amicizia soprattutto con Danilo Abbruciati. Secondo alcune testimonianze lo stesso Abbruciati sarebbe stato affiliato a Cosa Nostra.

Fra le altre amicizie interessanti dell’astro della criminalità romana v’è da annoverare un certo Antonio “Toni” Chicchiarelli, il falsario romano che fabbricò il falso comunicato brigatista del Lago della Duchessa in cui era annunciata l’eliminazione dell’onorevole Moro. Questa operazione era stata ideata in seno ai Comitati di Crisi del Ministero degli Interni infarciti da affiliati alla loggia P2 e sotto gli auspici dell’esperto americano del Dipartimento di Stato USA Steve Pieczenick. Chicchiarelli è un altro malavitoso comune di difficile decifrazione per le sue frequentazioni e le strane amicizie.

Pare coinvolto in un discreto giro di traffici di armi e vicino sia ad elementi dell’Arma dei Carabinieri che del servizio segreto civile. In rapporti con alcuni boss della banda della Magliana e con i giovani neofascisti dei NAR, non ha disdegnato frequentazioni di “autonomi” romani. Oltre che nell’operazione del falso comunicato brigatista numero 7, il suo nome ricorre nel delitto del giornalista Pecorelli e nella rapina alla Brink’s Securmark. I tanti messaggi ricattatori di cui sono impregnate le sue imprese criminali mercenarie porteranno alla sua esecuzione per mano di ignoti killer nel novembre del 1984.

Nel 1975 i Marsigliesi troveranno un nuovo alleato e socio nelle loro imprese criminali soprattutto per quel che riguarda la condivisione dei contatti turchi e boliviani per l’acquisto delle partite di droga e l’organizzazione dei sequestri di persona. Si tratta di un bandito altrettanto spietato, dalla carriera molto simile a quella dei criminali italofrancesi. Dopo essersi accreditato anche all’estero con qualche rapina, il gangster Francis Turatello è riuscito a farsi una posizione nella metropoli milanese attraverso la gestione di lucrose attività come il traffico e lo spaccio di droga, le bische clandestine e la prostituzione. Questo giovane malavitoso milanese è riuscito a creare un gruppo in grado di tenere testa al boss mafioso di Corleone Luciano Leggio che, resosi latitante, aveva dato vita a un pericoloso racket di sequestri di persona nel capoluogo lombardo.

Ma Turatello è anche figlio naturale e nato fuori dal matrimonio di un potente boss della mafia italoamericana, un nome che faceva tremare vene e polsi, Frank “Tre Dita” Coppola. Il vecchio padrino faceva parte del gruppo di boss di Cosa Nostra del calibro di Lucky Luciano, Joe Adonis e Frank Costello che erano stati “esiliati” dagli americani e trasferiti nel loro paese d’origine dopo i servigi resi al paese durante la guerra. Dotati di un incontestabile senso per gli affari, questi boss introdurranno in Italia i traffici di stupefacenti e fra costoro si distinguerà proprio il padre di Turatello che gestirà la redditizia attività dalla sua villa sul litorale laziale.

Sicuramente il gangster milanese potrà condurre i suoi affari potendo beneficiare della prestigiosa parentela criminale e della conseguente protezione dei padrini italoamericani, ma gli screzi con Cosa Nostra siciliana non mancheranno, tensioni dovute inevitabilmente alla competizione sui mercati criminali. Proprio a Roma verrà inviato un killer, tale Toni Riccobene per assassinare Turatello, ma questi saprà come anticiparlo. Dovendosi coprire le spalle e stringere nuove alleanze, oltre ai Marsigliesi, Turatello si legherà anche al potente boss della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo che, a Napoli, sta sfidando la camorra ancora subordinata alle decisioni di Cosa Nostra siciliana. Com’era prevedibile l’accordo fra Cutolo e Turatello riguarda il traffico di droga oltre alla vendita della merce rapinata dai Tir. Come quelle dei Marsigliesi, anche le fortune del bandito milanese Turatello e della sua banda non sono destinate a durare a lungo e, come loro, legherà il suo nome anche ad alcuni “misteri d’Italia.

Questo è un romanzo criminale ancora da scrivere… Bergamelli, Turatello e Abbruciati… Dai Marsigliesi alla parabola della banda della Magliana… L’epopea di un gangsterismo agile e spietato, capace di esercitare un certo controllo sul territorio, di lanciare un’arrogante sfida ad autorità che sembrano impotenti di fronte al dilagare della criminalità, ma che, nel contempo e ambiguamente, ricerca protezioni e rapporti con il Potere…

Si può veramente considerare comune e “pura” questa nuova criminalità che si diffonde nei contesti urbani e metropolitani ? Oppure, già al suo apparire, accoglie connotati che trascendono il semplice ambito criminale. In Italia il nome di Albert Bergamelli era già salito alla ribalta delle cronache nel lontano 1964 quando, con una banda composta da elementi italofrancesi e francesi, aveva messo a segno una spettacolare rapina alla gioielleria Colombo della celeberrima ed elegante via Montenapoleone a Milano a pochi passi dalla questura. In Italia non era mai accaduto niente di simile e solo la banda Casaroli aveva avuto l’ardire di usare armi da fuoco.

La banda capeggiata da Bergamelli fa uso di tecniche che sembrano appartenere all’armamentario militare più che a quello delinquenziale: si mettono a sparare apparentemente all’impazzata seminando il panico fra la folla e due vetture vengono utilizzate per chiudere il traffico all’altezza di via Verri. Tutti i membri della banda verranno comunque catturati dalla polizia italiana forse grazie anche alla collaborazione dei servizi di informazione d’Oltralpe. Tradotto in carcere ad Alessandria, Bergamelli usufruirà del soggiorno obbligato nel modenese. Ciò gli consentirà di fuggire e di proseguire la sua carriera criminale in un’alternanza di spettacolari rapine ed evasioni. Prima di tornare in Italia il suo nome salirà al primo posto della lista dei ricercati d’Europa, con la sua banda del MEC, facendosi conoscere in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna.

Secondo Arrigo Molinari, all’epoca funzionario della questura di Milano, poi questore di Genova affiliato alla solita loggia P2, la rapina in via Montenapoleone è stata la prima vera azione terroristica in Italia, primo atto della “strategia della tensione”. Quella rapina così spettacolare da essere percepita come una sfida alle autorità e alle forze dell’ordine, doveva servire a silurare il capo della polizia italiana dott. Angelo Vicari. E’ il 1964, l’anno del Piano SOLO del comandante generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, già direttore del SIFAR che sottoscrisse l’accordo con la CIA per la formalizzazione della STAY BEHIND e di GLADIO.

Il ridimensionamento della polizia per quel che riguardava la gestione dell’ordine pubblico avrebbe rafforzato il ruolo dell’Arma che, all’epoca, doveva supportare il piano golpista di De Lorenzo. Rapinatori e criminali o mercenari votati alla provocazione ? In effetti con l’indipendenza algerina dalla Francia e lo scioglimenti dell’organizzazione terroristica e colonialista OAS, molti ex legionari ed ex militanti si offrono sul mercato della “guerra non ortodossa” o a “bassa intensità” in funzione prettamente anticomunista e antisovietica. In Portogallo, a Lisbona, era sorta nel 1962 una centrale terroristica sotto la copertura dell’agenzia di stampa Aginter Press su iniziativa di ex militari dell’OAS. Oltre ad essere in collegamento con l’estrema destra europea ed internazionale, la centrale offriva i suoi servigi alla CIA, all’organizzazione Gehlen e ad altri servizi segreti del Patto NATO oltre che a quelli dei paesi colonialisti e fascisti. Secondo Cristiano Armati lo stesso Bergamelli doveva le sue rocambolesche e fortunose evasioni agli ex camerati dell’OAS che, fra l’altro, si finanziavano anche attraverso le rapine.

Insomma la nuova generazione di criminali pesca nel mare magnum degli ex legionari, mercenari e malavitosi esclusi dai giri “grossi” della mala francese. Forse alcune delle nuove bande, fra cui quella di Bergamelli, hanno finalità politiche. La collocazione ideologica dei nuovi gangsters con una propensione alla violenza sconosciuta alla vecchia malavita, pare certa e univoca. Albert Bergamelli dichiarò di essere un nazista, mentre il suo amico milanese Turatello girava con una catena d’oro a forma di svastica appesa al collo. Fascista e ammiratore di Mussolini è stato Franco Giuseppucci, il boss che ha mantenuto la coesione della banda della Magliana, così come fascista e amico di neofascisti era l’altro boss del gruppo Danilo Abbruciati.

Ci si può chiedere se non sia stato proprio l’influsso dei gangsters Marsigliesi, le cui gesta erano presumibilmente ispirate dall’OAS, a determinare gli orientamenti “politico – ideologici” delle bande che hanno imperversato a Roma e a Milano. Bisogna riconoscere che, nonostante tutto, la documentazione giudiziaria e le testimonianze ci dicono che i vari Bergamelli, Berenguer, Turatello, Giuseppucci, Abbruciati, ecc… appartenevano alla razza dei malavitosi “comuni” che si sono associati con i “politici” per perseguire finalità soprattutto patrimoniali. Si chiarisce, tuttavia, come possa essersi insediato a Roma quel fluido milieu in cui neofascismo, criminalità comune di alto livello e piccola malavita entravano in contatto, si cercavano e si sostenevano.

E’ nota l’ammirazione dei neofascisti romani, pariolini e sottoproletari, per i Marsigliesi. Uno dei giovani massacratori pariolini del Circeo, Andrea Ghira, disse alle vittime delle sevizie che lui era Berenguer. Il culto e l’esaltazione della violenza spesso gratuita si trasformava in adorazione ed emulazione delle gesta degli spietati gangsters italofrancesi. Siamo, comunque, ancora nel territorio ai confini fra eversione e criminalità anche con risvolti teppistici.

Con il fiorire della lucrosa industria dei sequestri di persona viene meglio alla luce la contiguità fra il Potere e bande come quelle dei Marsigliesi, di Turatello e della Magliana che al servizio di quelle potenti consorterie misero a disposizione le loro particolari professionalità…

A rileggere le cronache di quegli anni la sequenza dei sequestri di persona impressiona enormemente. A questo crimine di estrema gravità si dedicarono negli anni Settanta, oltre ai Marsigliesi, i mafiosi corleonesi del boss Leggio, frange della camorra, i calabresi dell’ndrangheta, i malavitosi romani che si consorzieranno nella banda della Magliana, la banda Turatello,  i banditi sardi, bande della criminalità comune come quelle di Vallanzasca e di “Lallo lo Zoppo”. Perfino bande “politicizzate” di estrema destra e di estrema sinistra effettueranno sequestri di persona a scopo dimostrativo o di autofinanziamento. Eppure il semplice movente pecuniario, così come l’azione politica a carattere dimostrativo, non spiegano in toto la diffusione di questo fenomeno criminale. Per effettuare e gestire i rapimenti è necessario disporre di un’organizzazione sufficientemente strutturata con una divisione di compiti ben precisa.

Non devono mancare anche i soldi per poter acquistare gli appartamenti o i rifugi di allestire come prigioni. La verità è che il sequestro di persona serve anche per spargere il terrore tra i ceti abbienti sostituendo in un certo senso la paura dell’estremismo comunista e del terrorismo di estrema sinistra, alimentando in altro modo la “strategia della tensione”. Serve a colpire gli avversari politici o nel campo degli affari e a esercitare pressioni indebite. Serve anche a riciclare capitali illeciti di altra provenienza. Non stupisce, allora, che la banda dei Marsigliesi a un certo punto abbandoni le troppo rischiose rapine a mano armata a favore del nuovo tipo di attività criminale. Nell’arco di un anno, fra il 1975 e il 1976, la banda porta a termine ben cinque sequestri con riscatto.

E’ il PM romano Vittorio Occorsio a occuparsi dell’inchiesta sull’Anonima Sequestri che si concluderà con lo smantellamento della banda dei Marsigliesi. Occorsio è un solerte e scrupoloso magistrato che, pur avendo coltivato la pista anarchica relativamente alla strage di piazza Fontana e agli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma, si era poi fatto notare come persecutore delle organizzazioni neofasciste a tinte terroristiche come Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1975. Albert Bergamelli viene arrestato in un appartamento nel residence Aurelio, ma con tono minaccioso evocherà la sua protezione da parte di una Grande Famiglia che, evidentemente, nonostante i tradimenti, gli consentirà di farla franca. Inizialmente si era pensato a una protezione dei Marsigliesi da parte della mafia, ma forse le cose stanno diversamente. Occorsio individua un collegamento criminale fra la massoneria deviata, il neofascismo romano e i Marsigliesi.

Verrà assassinato il 10 luglio 1976 dal capo militare di Ordine Nuovo, Pierluigi Concutelli, ma prima di morire farà alcune importanti confidenze al giornalista dell’”Unità” Franco Scottoni: il sospetto che una parte consistente dei riscatti dei sequestri fosse stata destinata all’acquisto della sede dell’ONPAM (l’Organizzazione Nazionale Per l’Assistenza Massonica) promossa dal potente massone Licio Gelli. In effetti la storia dei sequestri compiuti dai Marsigliesi è piuttosto singolare e semina tracce di Propaganda 2 ovunque: l’avvocato Gian Antonio Minghelli, segretario della loggia è sospettato di aver riciclato i proventi dei rapimenti e anche suo padre Osvaldo Minghelli è affiliato alla P2.

Il responsabile dell’operazione che porta all’arresto di Bergamelli è il funzionario di PS Elio Cioppa che verrà trasferito al SISDE, il servizio segreto civile. Perfino alcuni dei sequestrati appartengono alla loggia gelliana: Amedeo Ortolani è figlio di Umberto Ortolani, il braccio destro di Licio Gelli con entrature in Vaticano. Iscritto alla P2 è anche Alfredo Danesi il re del caffè, mentre il negozio del gioielliere Giovanni Bulgari si trova sotto  sede del “Centro studi di storia contemporanea”copertura della loggia di Gelli e Ortolani. Non è mai stato fugato il dubbio che, in realtà alcuni di quei sequestri fossero in realtà simulati per celare altre manovre criminogene. Ad esempio la società di cui era presidente Amedeo Ortolani, la Voxon, navigava in cattive acque e rischiava il fallimento. Dopo il rapimento nelle casse della Voxon affluiranno consistenti finanziamenti pubblici da consentire all’azienda di perseguire il pareggio di bilancio.

Ai tempi l’esistenza della loggia Propaganda 2, il suo potere e le sue diramazioni non erano ancora venute alla luce, ma l’attivismo di Gelli era già sotto la lente degli inquirenti e di efficienti funzionari di polizia. Era noto il passato di collaborazionista del nazismo di Gelli il quale secondo più fonti investigative, durante gli anni Settanta avrebbe intrattenuto rapporti con il neofascismo. L’astro nascente della banda della Magliana Danilo Abbruciati avrebbe in seguito rivelato a un altro esponente del consorzio criminale romano e poi collaboratore di giustizia Antonio Mancini che Bergamelli godeva di potenti appoggi perché  - il 6 ottobre 1975 - aveva partecipato all’attentato alla vita dell’ex vicepresidente democristiano del Cile Bernardo Leighton e di sua moglie. Nell’attentato che, comunque, fallì il suo obiettivo, sarebbero stati coinvolti sicari della DINA, la polizia politica del dittatore cileno Pinochet e neofascisti italiani come il noto Stefano Delle Chiaie. Qualche anno dopo emergeranno i saldi legami fra la loggia P2 e le dittature latinoamericane fra cui, innanzitutto, quella dei militari argentini.
Pur non coinvolgendo direttamente i Marsigliesi non mancano altri casi di sequestri sui generis…

Il più citato e ricordato fra i sequestri anomali è stato sicuramente quello di Guido De Martino, figlio di Francesco De Martino, già segretario del PSI e probabile candidato alla presidenza della Repubblica, rapito a Napoli il 5 aprile del 1997 da ignoti. Alcuni comunicati tentano di addossare la responsabilità sui NAP, un gruppuscolo terroristico di estrema sinistra molto attivo in Campania, ma emergerà un’altra realtà. L’uomo è stato prelevato da alcuni “pesci piccoli”, delinquenti comuni di piccolo cabotaggio ma legati in qualche modo al sodalizio fra Turatello e la camorra. Pur facoltosa, la famiglia De Martino non possiede le ricchezze dei grandi industriali e dei finanzieri di un certo calibro per cui si decide di raccogliere una “colletta” promossa da amici e compagni di partito.
(continua...)

3 commenti:

  1. ora su Terra stanno dicendo quello che tutti sanno da sempre..
    ossia l'insabbiamento di stato dell'omicidio Pasolini (figuriamoci oggi abbiamo quello di Cucchi dato morto per disidratazione,dimenticando che è stato massacrato di botte,questo è lo stato militare stile cileno!)

    ossia la storia del libro Petrolio a cui manca un capitolo..ora pare ritrovato poi riscomparso.. i cui personaggi principali erano Cefis(alias Troya altro nome evocativo appunto il cavallo di troia che era la P2 in Italia da parte degli USA) e Mattei..
    non dimentichiamo che Pasolini era anche un giornalista di inchiesta di acume unico..

    appunto Pasolini ucciso perchè sapeva chi aveva ucciso Mattei(da cui il nome Petrolio)
    coinvolto Cefis successore di Mattei all'Eni e fondatore vero della P2 braccio italiano dei servizi segreti USA.
    Solo dopo passo a Gelli,almeno la facciata.

    Queste notizie era disponibili da tempo su wikipedia e le ho riprese anche io e portate qui a cdc,ma i magistrati solo oggi si sono decisi a riaprirlo proprio su quegli elementi ,domani verrà sentito un senatore dell'utri che ha detto di aver letto il dattiloscritto
    di Petrolio


    Secondo autori recenti e secondo alcune ipotesi giudiziarie suffragate da vari elementi, fu proprio per questa indagine che Pasolini fu ucciso : per esempio il volume di Gianni D'Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, Milano 2006.
    Fondatore della loggia massonica P2

    In base a un appunto del Sismi rintracciato dal pm Vincenzo Calia nella sua inchiesta sulla morte di Mattei, la Loggia P2 sarebbe stata fondata in realtà da Cefis, che l'avrebbe diretta sino a quando fu presidente della Montedison; poi sarebbe subentrato il duo Umberto Ortolani-Licio Gelli.

    Cefis avrebbe agito come rappresentante di poteri che volevano ricondurre la politica energetica italiana in orbita atlantica, con un comportamento coerente con i dettami delle multinazionali angloamericane del petrolio.

    Godette dell’appoggio di Amintore Fanfani e dei leader DC del Triveneto. In campo finanziario, seppe come ottenere la fiducia di Enrico Cuccia, il banchiere al vertice di Mediobanca. L’istituto di via Filodrammatici vantava dei crediti di difficile riscossione nei confronti della Montedison, il colosso chimico nato nel 1966 dalla fusione della Montecatini con l'ex azienda elettrica Edison.

    Cefis trovò il modo di togliere le castagne dal fuoco a Cuccia. Iniziò segretamente a comprare azioni della Montedison con i soldi dell’Eni e i dovuti appoggi politici a Roma. Cominciò così la sua scalata al gigante chimico, che si concluse nel 1971, quando Cefis abbandonò l'Eni e divenne presidente della stessa Montedison. Questa mossa sollevò molte polemiche: egli infatti aveva utilizzato il denaro dell'Eni (cioè denaro pubblico) per diventare presidente di una società privata.

    Cefis progettò di fare della chimica un settore competitivo a livello internazionale sulla base di due considerazioni: a) le enormi potenzialità legate alla petrolchimica; b) la precisa convinzione dell’esistenza in Italia dello spazio per un solo grande operatore. Ma si rese ben presto conto che il governo, tramite le Partecipazioni statali, voleva entrare anche nella chimica e non gli avrebbe lasciato le mani libere.
    Dopo aver respinto una scalata alla Montedison condotta dalla “sua” Eni e da Nino Rovelli, appoggiati da Giulio Andreotti, decise che era il momento di attuare quella strategia che egli rivelerà alcuni anni più tardi in una delle sua rare interviste: “Non si può fare industria senza l’aiuto della politica e un giornale può servire da moneta di scambio”.

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  2. ora su Terra stanno dicendo quello che tutti sanno da sempre..
    ossia l'insabbiamento di stato dell'omicidio Pasolini (figuriamoci oggi abbiamo quello di Cucchi dato morto per disidratazione,dimenticando che è stato massacrato di botte,questo è lo stato militare stile cileno!)

    ossia la storia del libro Petrolio a cui manca un capitolo..ora pare ritrovato poi riscomparso.. i cui personaggi principali erano Cefis(alias Troya altro nome evocativo appunto il cavallo di troia che era la P2 in Italia da parte degli USA) e Mattei..
    non dimentichiamo che Pasolini era anche un giornalista di inchiesta di acume unico..

    appunto Pasolini ucciso perchè sapeva chi aveva ucciso Mattei(da cui il nome Petrolio)
    coinvolto Cefis successore di Mattei all'Eni e fondatore vero della P2 braccio italiano dei servizi segreti USA.
    Solo dopo passo a Gelli,almeno la facciata.

    Queste notizie era disponibili da tempo su wikipedia e le ho riprese anche io e portate qui a cdc,ma i magistrati solo oggi si sono decisi a riaprirlo proprio su quegli elementi ,domani verrà sentito un senatore dell'utri che ha detto di aver letto il dattiloscritto
    di Petrolio


    Secondo autori recenti e secondo alcune ipotesi giudiziarie suffragate da vari elementi, fu proprio per questa indagine che Pasolini fu ucciso : per esempio il volume di Gianni D'Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, Milano 2006.
    Fondatore della loggia massonica P2

    In base a un appunto del Sismi rintracciato dal pm Vincenzo Calia nella sua inchiesta sulla morte di Mattei, la Loggia P2 sarebbe stata fondata in realtà da Cefis, che l'avrebbe diretta sino a quando fu presidente della Montedison; poi sarebbe subentrato il duo Umberto Ortolani-Licio Gelli.

    Cefis avrebbe agito come rappresentante di poteri che volevano ricondurre la politica energetica italiana in orbita atlantica, con un comportamento coerente con i dettami delle multinazionali angloamericane del petrolio.

    Godette dell’appoggio di Amintore Fanfani e dei leader DC del Triveneto. In campo finanziario, seppe come ottenere la fiducia di Enrico Cuccia, il banchiere al vertice di Mediobanca. L’istituto di via Filodrammatici vantava dei crediti di difficile riscossione nei confronti della Montedison, il colosso chimico nato nel 1966 dalla fusione della Montecatini con l'ex azienda elettrica Edison.

    Cefis trovò il modo di togliere le castagne dal fuoco a Cuccia. Iniziò segretamente a comprare azioni della Montedison con i soldi dell’Eni e i dovuti appoggi politici a Roma. Cominciò così la sua scalata al gigante chimico, che si concluse nel 1971, quando Cefis abbandonò l'Eni e divenne presidente della stessa Montedison. Questa mossa sollevò molte polemiche: egli infatti aveva utilizzato il denaro dell'Eni (cioè denaro pubblico) per diventare presidente di una società privata.

    ......

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  3. Cefis progettò di fare della chimica un settore competitivo a livello internazionale sulla base di due considerazioni: a) le enormi potenzialità legate alla petrolchimica; b) la precisa convinzione dell’esistenza in Italia dello spazio per un solo grande operatore. Ma si rese ben presto conto che il governo, tramite le Partecipazioni statali, voleva entrare anche nella chimica e non gli avrebbe lasciato le mani libere.
    Dopo aver respinto una scalata alla Montedison condotta dalla “sua” Eni e da Nino Rovelli, appoggiati da Giulio Andreotti, decise che era il momento di attuare quella strategia che egli rivelerà alcuni anni più tardi in una delle sua rare interviste: “Non si può fare industria senza l’aiuto della politica e un giornale può servire da moneta di scambio”.

    Cefis instaurò così un braccio di ferro con Gianni Agnelli, che non aveva nessun tipo di feeling con Fanfani ed era padrone de La Stampa di Torino, oltre ad essere nella proprietà del Corriere della Sera. Nel 1974 lo scontro ebbe come teatro la presidenza di Confindustria. L’Avvocato fece il nome del repubblicano Bruno Visentini, Cefis replicò con quello di Ernesto Cianci. Dopo un gioco di veti incrociati, alla fine si arrivò a un compromesso: Agnelli presidente e Cefis vicepresidente.

    L’intesa riguardò anche i giornali: Cefis ebbe via libera per Il Messaggero (il quotidiano più venduto di Roma), Agnelli ottenne che La Gazzetta del Popolo non desse più fastidio alla Stampa (infatti verrà chiusa nel giro di pochi anni) e in cambio acconsentì che la Rizzoli acquistasse il Corriere. A metà degli anni Settanta il suo potere era enorme.

    Nel 1977 Eugenio Cefis lasciò improvvisamene la scena pubblica per ritirarsi a vita privata in Svizzera e gestire il suo patrimonio, stimato allora in cento miliardi di lire.

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