3 novembre 2011

IL ROMANZO DI UN DELITTO DI VERITA’ (2/4)

L’assassinio di Pasolini è stato caratterizzato da una ferocia e da una brutalità con pochi precedenti nella storia criminale italiana, anche se le modalità con cui si svolsero i fatti fanno pensare ad una premeditazione e ad una pianificazione che solo in rari casi è possibile riscontrare. E per un delitto del genere, accuratamente preparato e congegnato, il movente non può che essere “forte”. 
Di HS
A distanza di molti anni si è saputo che il poeta lavorava a una sorta di romanzo – compendio che avrebbe riassunto il significato della sua intera opera e della sua poetica. “Petrolio” contiene le tematiche scandalose care allo scrittore friulano, ma anche precisi riferimenti a quei poteri forti che stavano devastando l’Italia, quei poteri invisibili che stavano profondamente mutando il paesaggio fisico, morale e culturale della società. Poteri coinvolti nella terribile stagione delle stragi e degli attentati. 

E’ la dimostrazione che Pasolini non era interessato a formulare accuse generiche e semplicistiche contro impersonali macchine criminali del potere, ma che cercava di dare un volto, u nome e un cognome ai detentori delle sorti progressive della società e dell’economia, cercando di acquisire documenti, di affrontare determinate letture, di investigare. 

Già dal titolo è facile costatare come egli fosse interessato ai giochi di potere condotti per l’accaparramento e il controllo del petrolio, la principale risorsa mondiale in quanto motore dello sviluppo, dell’industria e del capitalismo. Vedremo quanto la sua attenzione si fosse posata sull’ENI, l’ente energetico pubblico nazionale e sull’uomo che ne aveva assunto la presidenza. Come è noto, “Petrolio” rimase il romanzo incompiuto ed inedito, rimasto allo stato embrionale e di progetto e anticipato dal famoso articolo sul “Corriere della Sera” passato alla storia come “Il romanzo delle stragi”, perché la penna di Pasolini venne messa a tacere. 

Il giorno stesso in cui si seppe che quel povero corpo straziato e martoriato nei pressi dell’Idroscalo di Ostia gli apparteneva, venne denunciato un furto nella sua abitazione. Curiosa coincidenza… Che cosa hanno sottratto i ladri ? Inspiegabilmente la casa editrice Einaudi pubblicherà “Petrolio” solo nel 1992, quando ormai da tempo la vicenda giudiziaria del delitto Pasolini si è conclusa da tempo… Solo recentemente alcuni particolari e dettagli trascurati dagli inquirenti aggiungono elementi per riaprire il caso abbandonando definitivamente la versione comoda e costruita del delitto maturato in un ambiente di “froci”.

Con l’aiuto dell’avvocato Alessandro Bruno e del regista Federico Bruno, il maggiore testimone di quei tragici e terribili fatti, Giuseppe “Pino” Pelosi ha fornito quella che dovrebbe costituire la sua versione definitiva delle modalità con cui venne ucciso Pasolini. Già dal titolo “Io so… Come hanno ucciso Pasolini” (Vertigo, 2011) si percepisce l’intenzione di Pelosi di chiudere definitivamente con il passato e di scaricarsi la coscienza. Chi ha seguito gli sviluppi delle indagini, delle ricerche e delle inchieste sul delitto sa perfettamente che l’attendibilità dell’uomo che, per lungo tempo, si è accollato la completa responsabilità di quel fatto criminoso, non può non rimanere perplesso e valutare con cautela e prudenza le nuove rivelazioni contenute nel libro. Pelosi – appartenendo alla categoria dei reietti e degli emarginati della società – sottolinea la sua condizione di vittima e ribadisce di non aver potuto parlare prima per salvaguardare la sua vita e quella dei propri cari. E’ tristemente risaputo, infatti, che lo spietato codice della malavita – che certo ebbe un ruolo nel crimine – prevede la condanna a morte per chi “sgarra” o per chi parla infrangendo la regola del silenzio e dell’omertà.

A propria discolpa, Pelosi punta l’indice sui potenti, su coloro che, sapendo, potevano tranquillamente parlare ma non lo hanno fatto. Politici, imprenditori, forze dell’ordine, intellettuali e perfino gli amici di Pasolini… Probabilmente c’è molto di vero in questo sfogo e, come vedremo, il delitto Pasolini è quasi sicuramente un crimine commesso per il Potere e ad uso e consumo del Potere. Rimane il fatto che l’attendibilità di Pino Pelosi è stata messa a dura prova in tutti questi anni. Per circa trent’anni ha più e più volte ha ripetuto di avere da solo ucciso e orribilmente straziato il corpo di Pasolini senza l’aiuto di nessun complice. La scintilla di una violenza incontrollata sarebbe scattata perché il poeta avrebbe tentato di violentarlo con un bastone.

Musica per le orecchie proprio di quei potenti che volevano zittire la voce di Pasolini: non solo questi sarebbe stato un cliente abituale del mercato della prostituzione omosessuale e minorile, ma, in aggiunta, sarebbe stato anche dominato da pulsioni violente e sadiche. Un chiaro tentativo di screditare una personalità unica nel panorama intellettuale ed artistico italiano seminando il sospetto che egli fosse un soggetto non solo disturbato ma anche dalle tendenze manifestamente criminali. Come vedremo, Pelosi ha corretto e riveduto la sua versione solo dopo che erano emerse importanti novità rispetto alla menzognera storia del delitto di “froci” che è stata raccontata per decenni e, così via, centellinando e modificando la sua testimonianza adattandola alle scoperte più recenti. Bisogna ammettere, tuttavia, che il libro - una sorta di diario degli ultimi mesi che precedettero l’assassinio di Pasolini dal punto di vista del giovanissimo Pelosi – parte dall’onesta premessa posta dallo stesso autore che “nulla fa per caso, e tutto è calcolato”.

Evidentemente la rete di consorterie criminali operanti sul territorio romano è ancora salda e forte, capace di far paura e di lanciare precise minacce. Alla fine del libro viene raccontata la cronaca di un incidente automobilistico occorso nel luglio dello scorso anno a Pelosi e a un suo amico, tale Olimpio Marocchi che tragicamente perì. Qual è il reale motivo per cui è stato citato questo episodio ? E’ collegato al caso Pasolini ? Incidente o il solito sabotaggio per eliminare un testimone ancora scomodo ? E a distanza di tanti anni chi può avere interesse a occultare la verità sulla morte del poeta ? Chi può essere ancora danneggiato nei suoi interessi ?

Certamente ogni singola parola di Pelosi va soppesata e valutata, ma altrettanto sicuramente merita di essere letta. La sua narrazione presenta almeno tre novità, altrettante rettifiche rispetto alle sue rivelazioni precedenti che, comunque, smontano definitivamente la versione ufficiale e certificata per decenni. Vediamole…

1)  In totale contraddizione rispetto a quanto precedentemente ammesso, Pelosi racconta di aver coltivato un rapporto di intensa amicizia con Pasolini per alcuni mesi, prima che venisse ucciso. Sarebbe stato “abbordato” dal poeta in Piazza dei Cinquecento, ma poi tra i due sarebbe sbocciata una sincera amicizia, una sorta di “amore platonico”. Per convincere sulla veridicità di quanto asserito, Pelosi afferma che questa frequentazione piuttosto assidua era di pubblico dominio nel quartiere e che, quindi, sarebbe convalidata da eventuali testimoni – amici o conoscenti – ancora in vita. Come giudicare questa clamorosa novità di cui gli amici più affezionati di Pasolini dovevano essere a conoscenza ?

Certo le perplessità non mancano, tuttavia qualcosa depone a favore di Pelosi. La sua somiglianza con Ninetto Davoli che intrecciò una relazione con Pasolini è piuttosto impressionante e rende credibile l’affetto che lo scrittore friulano può aver riservato nei confronti del giovane borgataro. Pasolini non ha mai fatto mistero di frequentare gli ambienti dei “ragazzi di vita”, i giovani di borgata che vivono di espedienti, che magari campano alla giornata commettendo truffe e furtarelli. Il ritratto che Pelosi offre dell’amico – che tuttavia può aver tratto da migliaia e migliaia di racconti e testimonianze – è tutt’altro che compatibile con il cliente di “prostituti” e “marchettari” e al bruto che sfrutta i ragazzini per soddisfare i propri vizi. Insomma, volendosi presumibilmente scaricare la coscienza, il “ragazzo di vita” smonta definitivamente quel profilo inquietante del poeta che egli stesso aveva notevolmente contribuito a diffondere.

Peraltro era invece noto come Pasolini fosse attento e guardingo nella scelta delle amicizie e come fosse diffidente nei confronti di ragazzi che, ormai, cercavano soprattutto di spillare soldi. Anche queste esperienze gli hanno permesso di scrivere pagine lucide e acute sulla trasformazione delle nuove generazioni allevate del neocapitalismo. Rimangono però le domande… Risponde realmente al vero che Pelosi allacciò una profonda e amichevole relazione con Pasolini ? E’ vero che è durata alcuni mesi ? Oppure si vuole nascondere ancora una volta che per Pasolini venne preparata l’esca tempo prima del suo orribile delitto ? E in tal caso, non emergerebbe una meticolosa e accurata pianificazione criminale per quel che sarebbe corretto definire un complotto ?

2)      Invero piuttosto tardivamente l’amico fraterno di una vita, regista, sceneggiatore e collaboratore stretto di Pasolini, Sergio Citti rivelò alcuni retroscena inediti sull’assassinio dell’amico. Ormai malato e alla fine dei suoi giorni in quel 2005, Citti voleva finalmente chiudere con i conti in sospeso con la sua vita. In un’intervista al giornalista del “Corriere della Sera” Dino Martirano, dichiarò che aveva seguito passo per passo le ultime ore dell’amico conducendo una sua personale investigazione. Come vedremo, Citti aveva anche girato un filmino in Super 8 sul luogo in cui venne rinvenuto il cadavere di Pasolini a pochi giorni dall’identificazione. Come vedremo più avanti, il documento filmato, depositato agli atti giudiziari ma mai realmente visionato dagli inquirenti così come nessuno ha voluto ascoltare la testimonianza dell’autore, non solo dimostrava l’incuria e il pressapochismo con cui si stavano effettuando i rilievi – e basti pensare che dopo poche ore  un gruppo di ragazzini giocava a pallone sul posto – ma che la versione ufficiale certificata dagli inquirenti, dalle autorità e dal pubblico, non corrispondeva assolutamente ai fatti. Citti tirò fuori una storia assolutamente inedita, la cronaca di un’imboscata preparata con il pretesto della restituzione delle bobine dell’ultimo film di Pasolini “Salò”.

In quell’estate del 1975 a Cinecittà erano state rubate le bobine di alcuni film di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e di Damiano Damiani. Citti racconta di essere stato contattato da un malavitoso di quartiere, tale Sergio Placidi, il quale disse di avere per le mani le bobine di “Salò” e di essere disponibile a restituirle in cambio di due miliardi di lire. L’offerta del ricattatore venne comunicata al produttore Alberto Grimaldi – noto anche per aver finanziato il celebre “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci – che, però, era disponibile a pagare fino a cinquanta milioni di lire. Secondo Citti, il ricattatore, Placidi, era ben conosciuto da Pelosi, poiché frequentavano lo stesso bar in via Lanciani. Successivamente i ricattatori si sarebbero messi in contatto con lo stesso Pasolini, il quale, pur potendo monitorare alcuni spezzoni di pellicola, era interessato agli originali, riferendogli che avrebbero restituito la refurtiva gratuitamente.

E’ l’esca della trappola: la sera del 2 novembre – come Pasolini disse all’amico – avrebbe dovuto incontrare questi ragazzi per la restituzione della pellicola originale. Citti si diceva convinto che Pelosi avesse fatto da esca perché era il tipo di ragazzo che piaceva a Pasolini e, sicuramente, lo avrebbe condotto nelle braccia degli assassini. Con qualche variante e novità, Pelosi ora conferma la versione di Citti, ma certo non sul suo ruolo di “esca consapevole”, negando ogni addebito diretto. In effetti un gruppo di ragazzi che Pelosi conosceva, soddisfacendo le richieste di Placidi e di un misterioso personaggio che lavorava nel cinema, aveva rubato le bobine. Fra costoro anche i fratelli Borsellino – Giuseppe e Franco – due grandi amici di Pelosi che, come lui abitavano in appartamenti dell’INA Casa. Qualche anno fa lo stesso Pelosi aveva accusato i due ex amici di aver partecipato alla spedizione che massacrò Pasolini, sicuro che questi non potessero ribattere essendo morti per AIDS. I fratelli Borsellino – di origini siciliane – più giovani di Pelosi, sono due soggetti difficili…

Impasticcati e tossicodipendenti, sognano probabilmente di fare il grande salto nel mondo della “mala”. Uno dei due, Franco, avrebbe raccontato a Pelosi che, a un certo punto, la richiesta di riscatto delle bobine rivolta al produttore Grimaldi salta, perché intervengono personaggi che gravitano intorno all’ambiente neofascista della sezione dell’MSI di via Subiaco. E’ probabilmente da quel momento che le bobine di “Salò” vengono utilizzate per allestire la trappola per il poeta. Secondo Pelosi i due fratelli Borsellino frequentavano quella sezione dell’MSI ed erano imbevuti di slogan e parole d’ordine dell’estrema destra. Nei vari contesti urbani non era certo infrequente che partiti e associazioni neofasciste pescassero nel mare della delinquenza e della piccola malavita di quartiere. Pur non essendo convinto della pista basata sul furto delle “pizze” di “Salò” e sul conseguente pretesto del ricatto e, da sempre, persuaso che il delitto del cugino fosse maturato nell’ambiente della prostituzione omosessuale, lo scrittore Nico Naldini – che all’epoca lavorava per la società di produzione cinematografica PEA – disse che, a un certo punto, le bobine vennero ritrovate in un sottoscala di Cinecittà. Dunque nessun riscatto sarebbe stato pagato alla malavita romana, ma ciò corroborerebbe la tesi che, in realtà, quel furto è stato usato per ben altri scopi.
Pelosi ammette di aver conosciuto Sergio Placidi tramite i fratelli Borsellino e lo dipinge come un piccolo ma ricco e intraprendente boss di quartiere attivo sulla Tiburtina nei giri della prostituzione e dello spaccio di droga. Questo elegante malavitoso organizzava festini a base di orge, sesso e droga a volontà, a cui partecipavano importanti e noti personaggi della televisione e del cinema. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi, quando oggi si parla degli scandalosi festini offerti da Lele Mora e soci al sempreverde Berlusconi con la partecipazione di escort, veline e donnine aspiranti a una carriera politica o nel mondo dello spettacolo. D’altronde il vizio nel mondo dei vip non è mai stato l’eccezione, ma piuttosto, una regola… Ricchi personaggi avvezzi alla mondanità, modelle, deejay radiofonici, presentatori televisivi, cantatorucoli, attorucoli di cinema e fiction televisive, calciatori e altri sportivi, subrettine e veline, ecc…

Un mondo che brilla all’esterno, suscitando emozione ed ammirazione nel pubblico, ma che cela gelosamente le sue miserie morali, intellettuali e culturali. Non è un certo un caso se, per le mafie e la delinquenza più o meno organizzata, i settori dell’industria dell’immagine, dello spettacolo, del divertimento, dell’intrattenimento e ludica costituiscano altrettante cospicue fonti di ricchezza. Naturalmente prostituzione e droga hanno un effetto moltiplicatore degli affari…
Non va dimenticato che forse questo clima da basso e decadente impero si accompagna all’irreversibile crisi della nostra maggiore industria culturale, quella cinematografica che, fino agli anni Sessanta, era seconda solo a Hollywood. Tale declino – di qualità e di pubblico – coincide con il rinnovamento del sistema televisivo “a colori” aprendo il mercato delle frequenze locali ai privati e con lo strapotere dell’onnipotente industria cinematografica hollywoodiana sempre più ricca e mastodontica con la muova ondata dei blockbuster e con l’apertura delle multisale. La televisione – egemonizzata dal modello “casareccio” e berlusconiano – prenderà il posto del cinema nell’immaginario italiano. Secondo il pioniere dei moderni produttori cinematografici italiani Dino De Laurentiis – molto attento ai meccanismi spettacolari di cui gli americani sono maestri – la crisi del cinema italiano inizia con la legge promossa dal Ministro socialista della Cultura Corona (1972) che negava i finanziamenti statali alle coproduzioni con gli altri paesi.

A quell’epoca la nostra industria cinematografica doveva i suoi introiti maggiori proprio ai film realizzati in coproduzione con gli americani, i tedeschi, i francesi e gli spagnoli. Da un giorno all’altro la situazione mutò e i capitali per alimentare l’industria di celluloide vennero a scarseggiare. I produttori si trovarono nell’impossibilità di lavorare anche per una situazione divenuta insostenibile per la sicurezza personale. E’ iniziata l’epoca dei sequestri di persona – di cui tratteremo più avanti – e un produttore del calibro di Alberto Grimaldi comincia a temere seriamente per la propria incolumità. A partire proprio dal 1975 – 1976 i maggiori produttori del paese – De Laurentiis, Ponti, Grimaldi – si vedranno costretti a lasciare il paese per poter realizzare i loro progetti e la meta preferita sono proprio gli States.

Gran parte di queste vicende – sconosciute al grande pubblico – verranno riportate nell’ottimo documentario di Valerio Jalongo “Di me cosa ne sai”. Beneficiari della stagione del cinema italiano, oltre ai concorrenti e “monopolisti” americani, i finanziatori dei canali televisivi berlusconiani sicuramente riconducibili anche alla solita loggia P2. Per quel che riguarda il cinema italiano, gran parte dello spazio lasciato libero dai grandi produttori viene occupati dai dilettanti allo sbaraglio, da modesti personaggi che si improvvisano esperti di celluloide e, come è intuibile, da mafiosi e delinquenti. E’ chiaro che in questo contesto anche la qualità estetica dei film va a farsi benedire. Probabilmente non solo i festini a luci rosse ma anche episodi come il furto di bobine sono all’ordine del giorno e richiedono la complicità di chi ci lavora nel cinema.

Per Pelosi l’idea sarebbe stata suggerita a Placidi da… Citti stesso ! Quest’ultimo sarebbe stato un assiduo frequentatore dei festini a base di sesso e di droga messi in piedi da Placidi e, coltivando tali eccessi, si sarebbe indebitato. Per questo motivo avrebbe proposto al malavitoso di organizzare un furto di pellicole per ricattare i produttori di Cinecittà. Probabilmente la gestione di questo giro di prostituzione e di droga offerte abbondantemente alle stelle della televisione e del cinema alimentava anche un mercato dell’usura e del ricatto nel quale lo stesso Citti può essere rimasto intrappolato, costringendolo a trovare un sistema per poter pagare i debiti contratti a causa dei suoi vizi. Ma è veramente credibile Pelosi quando accusa Citti, ormai deceduto ?

Non dimentichiamo che questi è stato un amico molto intimo di Pasolini, oltre che il migliore dei suoi collaboratori. E poi c’è molta malizia nel modo in cui si allude al suo ruolo nel furto della pellicola di “Salò” – del quale peraltro lo stesso Citti aveva girato diverse scene -. Inoltre, anche se a distanza di molti anni, è stato proprio l’aiuto regista di Pasolini a fornire elementi per rileggere e riaprire il caso e a mettere in discussione quanto era passato al pubblico italiano. Ammesso il ruolo del Placidi nel tentativo di ricatto poi utilizzato per uccidere il poeta, non è forse più probabile che il complice o i complici che lavoravano a Cinecittà e alla Technicolor fossero altri ? E se Citti era veramente estraneo alla vicenda delle “pizze”, perché Pelosi si ostina a “depistare” ?

3)      Pelosi ammette per la prima volta un ruolo “inconsapevole” da esca per condurre Pasolini sul luogo voluto dai suoi carnefici. Sarebbe stato convinto dai suoi amici – già coinvolti nel furto delle bobine – ad accompagnare sul luogo dell’appuntamento senza però essere messo a conoscenza delle loro intenzioni. All’Idroscalo di Ostia Pasolini e Pelosi sarebbero stati raggiunti da una FIAT 1500, dai soliti Borsellino a bordo di una moto Gilera e.. da un’Alfa GT identica a quella del poeta. Dalla FIAT sarebbero scesi tre uomini che poi avrebbero commesso la mattanza. Sulla vettura identica a quella di Pasolini torneremo più avanti, perché recentemente sono emerse novità che potrebbero portare la nuova inchiesta a sviluppi interessanti. Nel corso di questi decenni Pelosi ha sempre ripetuto di aver investito involontariamente Pasolini nel tentativo di fuga con la sua stessa vettura.

La presenza di un’auto “gemella” mette in discussione tutta questa ricostruzione fatta passare come l’unica possibile. Per finire Pelosi ritratta quel che disse qualche anno fa sull’identità degli aggressori di Pasolini e sul loro accento siciliano e la FIAT non sarebbe stata targata Catania. Ciò aveva fatto pensare alla presenza di sicari mandati probabilmente dalla stessa mafia, ma questa rettifica riaccende l’attenzione sulla malavita romana. In questo modo Pelosi conferma di avere fatto delle rivelazioni depistanti, ma, in questo modo, non riesce a convincere il lettore sulla sua credibilità. In definitiva, Pelosi è finalmente testimone attendibile ? Tutto quello che scrive costituisce la fedele trascrizione della realtà dei fatti o lo è in maniera ancora solo parziale ?  

Facciamo qualche passo indietro nel tempo e torniamo a quel 2005, anno in cui si riaprì uno spiraglio per poter fare luce su quanto accadde nei pressi dell’Idroscalo di Ostia. Sergio Citti concesse la citata intervista a Martirano l’8 maggio 2005 a poche ore dalla trasmissione della famosa puntata del programma di RaiTre “Ombre sul giallo”condotta dalla giornalista Franca Leosini, nella quale per la prima volta Pino Pelosi rettificò la sua originaria versione del delitto Pasolini – quella che lo portò a scontare come unico responsabile nove anni di galera – sostenendo che il poeta era stato aggredito, picchiato e massacrato da alcuni siciliani sbucati quasi dal nulla. La trasmissione fece ovviamente scalpore e - come spesso accade – “oscurò” l’intervista di Citti. D’altronde nella contesa fra televisione e stampa non c‘è storia…

A distanza di molti anni dai fattacci dell’Idroscalo, la coincidenza delle testimonianze è quantomeno singolare e fa supporre che l’una sia stata “sollecitata” dall’altra… Ma è stato Citti a parlare sapendo delle rivelazioni che Pelosi avrebbe fatto o viceversa ? Al lettore viene lasciato il giudizio… Basti sapere che, in seguito alla trasmissione della puntata citata di “Ombre sul giallo” venne aperta la terza inchiesta sul delitto Pasolini affidata ai PM romani Italo Ormanni e Diana De Martino per “omicidio volontario commesso con l’aggravante della premeditazione”. Non sembrano emergere nuovi elementi probanti e l’11 ottobre 2005 il GIP archivia l’inchiesta su sollecitazione degli stessi PM. Nella richiesta si conferma il movente di un delitto commesso unicamente dal Pelosi nell’ambito della prostituzione giovanile. L’esito non soddisfa certo chi, in tutti questi anni, ha sempre manifestato dubbi e perplessità, ma sono trascorsi troppi anni e, forse, di quel delitto non si vuole più parlare.
Nello stesso giorno dell’archiviazione si spegne anche Sergio Citti, uno dei pochi testimoni ancora in grado di accendere un po’ di luce su determinati aspetti del caso Pasolini.
Tre anni dopo Pino Pelosi viene intervistato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, due giornalisti che stanno lavorando a un libro “Profondo nero” (Chiarelettere, 2009) sui collegamenti fra i delitti del manager dell’ENI Mattei, del giornalista dell’”Ora” Mauro De Mauro e di Pasolini e per la prima volta fa i nomi dei fratelli Borsellino coinvolgendoli nella morte del poeta. Si riafferma la sussistenza di una sorta di pista “politica” poiché i due amici di Pelosi si sarebbero convertiti al fascismo frequentando la sezione dell’MSI al Tiburtino. L’ormai ex “ragazzo di vita” nega invece che vi fosse coinvolto un altro amico, Giuseppe Mastini soprannominato Johnny lo Zingaro.

Questo nome era già uscito anni prima, qualche mese dalla morte di Pasolini. Un appuntato dei carabinieri- Renzo Sansone – si era infiltrato nel giro della piccola malavita del Tiburtino spacciandosi per ricettatore e aveva agganciato i fratelli Borsellino. Riuscendone a carpire la fiducia, questi gli confidarono di aver ucciso Pasolini insieme a Johnny lo Zingaro. La confidenza venne raccolta dopo la confessione di Pelosi e avrebbe dovuto riaprire il caso, ma i due fratelli ritrattarono davanti al magistrato. Secondo l’appuntato, intervistato ad anni di distanza, si trattava di un modesto giro delinquenziale di ladruncoli, scippatori e rapinatori. Il gruppo avrebbe tentato di derubare il poeta, ma il tentativo sarebbe degenerato nella violenza. Al di là delle valutazioni da fare su questa ipotesi che ogni tanto è riemersa fra le varie interpretazioni avanzate, Pino Pelosi ha puntato il dito su Franco e Giuseppe Borsellino che ormai erano deceduti, scagionando da ogni accusa il Mastini che invece è ancora in vita.

Scorrendo il curriculum criminale di questo soggetto, non sorprende che Pelosi eviti di coinvolgerlo… I quattro – Pelosi, Mastini e i due Borsellino – abitano tutti in appartamenti della INA Case e fanno tutti parte del giro dei balordi e dei piccoli delinquenti del Tiburtino. Il padre dei Giuseppe Mastini faceva il giostraio e aveva precedenti penali per cui è possibile che il figlio ne avesse seguito le orme, tuttavia la propensione al crimine di quest’ultimo raramente si riscontra in una carriera malavitosa. Il gruppo pare fosse una piccola banda dedita a furti, scippi, rapine, truffe e pestaggi, ma l’”anima nera” della combriccola è proprio Johnny lo Zingaro. Ha solo quindici anni, eppure nel dicembre del 1975 commette il suo primo omicidio per rapina, uccidendo un autista dell’ATAC. Fra galera ed evasioni ottiene un permesso premio nel febbraio del 1987 e in poco tempo sequestra una donna, uccide un poliziotto e ne ferisce un altro. Viene catturato e successivamente gli viene comminato il primo ergastolo, ma nel 1990 evade dal carcere e uccide un uomo nel corso di una rapina in una villetta di Sacrofano. Riacciuffato ancora una volta gli viene inflitto il secondo ergastolo. Non un delinquente comune e, comunque, un uomo in grado di uccidere a sangue freddo e senza problemi. Un sicario a cui può essere commissionato un omicidio come quello di Pasolini anche se tuttora l’interessato nega qualsiasi coinvolgimento.

Al di là di qualsiasi congettura su una sua eventuale responsabilità diretta, Johnny Lo Zingaro pare qualcosa di differente dalla figura del malavitoso romano di borgata a cui siamo abituati. Fa il giro delle carceri speciali ed entra in contatto con i detenuti “politici”, con mafiosi e camorristi. Nei siti Internet da loro curati due ex detenuti della sinistra extraparlamentare – Franco Bellotto e Paolo Dorigo – lo accusano di essere amico dei fascisti – in particolare di Gilberto Cavallini, esponente dei NAR, la feroce banda neofascista guidata da Giusva Fioravanti – e vicino alla Banda della Magliana. Dunque, rammentando le frequentazioni fasciste dei Borsellino, emergono ancora una volta la commistione e i legami fra l’estrema destra e la malavita romana.
Neofascismo, criminalità comune organizzata e piccola malavita di quartiere sembrano incontrarsi, allearsi e confondersi…
(continua...)

1 commento:

  1. Petrolio era un grande progetto d’opera, previsto in duemila pagine, di cui ci restano 522 cartelle; mettiamoci altri due o tre anni di lavoro, che uscisse nel 1978, dopo la tragedia patita da Aldo Moro. Lo apriamo, leggiamo: “La bomba è fatta scoppiare: un centinaio di persone muoiono, i loro cadaveri restano sparsi e ammucchiati in un mare di sangue, che inonda, tra brandelli di carne, banchine e binari. (...) La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una ‘Visione’”. Da pagina 542 a pagina 546, edizione Einaudi 1992, saltiamo all’indietro, alle pagine 117-18, dove si parla della guerra del petrolio tra Cefis (Fanfani, fisicamente) e Monti (Andreotti, fisicamente). Pubblico, privato, potere, economia politica delle stragi. E Cefis, Eugenio Cefis, viene ribattezzato nella finzione romanzesca Aldo Troya, che “sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)”.

    Cosa sarebbe successo nell’Italia (e nel mondo, date le immancabili traduzioni all’estero) del 1978, alla lettura di queste pagine? E perché, ancora, tanta sordità storica? Quelle prove e quegli indizi che, nel famoso articolo poi ripreso negli Scritti corsari (1975), Pasolini dice di non possedere, li sta raccogliendo nel romanzo: Io so. Da quel 14 novembre 1974, quando esce Il romanzo delle stragi (che il Corriere pubblica col titolo Che cos’è questo golpe?), una settimana dopo l’incriminazione dei vertici del Sismi, il servizio segreto militare, per il fallito golpe Borghese dell’8 dicembre 1970, Pasolini viene lasciato solo come un cane, in attesa che si chiudano i conti col suo dire.

    Come in un’orazione di Cicerone o nel teatro di Shakespeare, ecco l’anafora di denuncia del sapere poetico-politico che inchioda i responsabili, gli esecutori materiali, i vertici dei potenti, del Palazzo e del Cane a sei zampe, i fascisti e i neofascisti, che hanno prodotto e gestito le varie fasi di azione e di depistaggio delle stragi in Italia, da Milano a Brescia a Bologna, dal 1969 al 1974, con la complicità dei servizi segreti italiani e stranieri e della mafia. Il testimone-giornalista si affianca all’intellettuale-detective e allo scrittore-romanziere; la sintesi tra il testimone e il romanziere è operata dall’intellettuale, che riflette sul “blocco politico economico” dello stragismo, e che agisce come un investigatore dei delitti collettivi, attestando la continuità del reato di strage: il delitto Mattei, le due fasi stragiste, anticomunista e antifascista, da addossare agli opposti estremismi, prima agli anarchici e poi ai fascisti, per disfarsene dopo averli usati. Pasolini sta continuando da solo la controinchiesta collettiva sulla “Strage di Stato” (edita da Samonà e Savelli, 1970-71).

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