4 novembre 2011

IL ROMANZO DI UN DELITTO DI VERITA’ (4/4)

Gli sviluppi delle trattative con i rapitori rimarranno segreti e parte del riscatto proverrà dai conti del Banco Ambrosiano diretto dal piduista Roberto Calvi, banchiere depositario di molti “misteri” che finirà “suicidato” per impiccagione sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra nel giugno del 1982. E’ rimasto il sospetto che quei soldi provenissero da capitali illeciti e criminali. Comunque il sequestro del figlio e le successive trattative segneranno la fine della carriera politica di Francesco De Martino, costretto a rinunciare alla candidatura presidenziale. 

L’anziano leader socialista era il maggiore promotore di una linea basata sull’alleanza con il PCI avversata dagli “autonomisti” craxiani. In certo qual modo sarà proprio il rampante Craxi a beneficiare della fine politica dell’avversario interno al partito e, negli anni successivi, riuscirà ad imporre il proprio ruolo egemonico nel PSI. Non verrà mai fugato il dubbio che quel sequestro avesse precipuamente finalità politiche e fosse finalizzato proprio a colpire De Martino, costringendolo a mettersi da parte. Un altro probabile candidato alla presidenza della Repubblica, il democristiano Aldo Moro, verrà sequestrato dalle BR il 16 marzo del 1978 e assassinato dopo 55 giorni.

Circa un mese prima del rapimento di Guido De Martino viene sequestrato a Milano Arturo Arcaini detto “Rino”, il figlio di Giuseppe Arcaini, presidente dell’Italcasse, una banca pubblica utilizzata per alimentare amici e clientele soprattutto da parte della corrente andreottiana della DC. Fra i maggiori beneficiari dei generosi e immotivati finanziamenti dell’istituto, uno dei più importanti industriali del settore chimico, l’andreottiano Nino Rovelli e la sua Sir. Di quello che è certamente il più anomalo dei sequestri si occuperà il giornalista Mino Pecorelli interessato allo scandalo dei fondi Italcasse, che svelerà alcuni misteriosi retroscena di quell’operazione criminosa. I rapitori avrebbero tenuto in ostaggio il figlio del Presidente dell’Italcasse solo per alcune ore, costringendolo a scrivere tre lettere indirizzate a un certo “Paul”.

Quelle missive svelavano alcune operazioni finanziarie imbarazzanti per il padre del sequestrato. Dopo aver ordinato al sequestrato di informare dell’accaduto perché il padre si procurasse tre miliardi di lire, i malviventi lo narcotizzano e se ne vanno indisturbati. Il misterioso “Paul” verrà identificato nella persona di Florent Ravello Ley, finanziere italo svizzero socio della Sofint e di Flaminia Nuova riconducibili al cassiere della mafia Pippo Calò e alla banda della Magliana.

Pecorelli cercherà di approfondire i retroscena dello scandalo Italcasse e dei beneficiari di fondi pubblici che hanno messo in ginocchio l’istituto con l’intento, soprattutto, di inchiodare l’onorevole Giulio Andreotti, a quei tempi Presidente del Consiglio. Gli tapperanno la bocca il 20 marzo del 1979 con un’esecuzione in stile mafioso affidata sicuramente a elementi della malavita romana.
Da fenomeno meramente criminale, il sequestro di persona si trasforma anche in un formidabile strumento dei poteri più o meno occulti per il loro obiettivi inconfessabili, affidati alle sapienti mani delle bande più spietate in circolazione…

Per quanto l’epopea delinquenziale delle gang della malavita comune “organizzata” causi un numero esorbitante di lutti e altri gravissimi reati, non è comunque destinata a durare. Gli Abbruciati, i Bergamelli e i Turatello furono criminali temibili e spietati, ma il loro narcisismo e il loro protagonismo finisce anche per condannarli. Non aspirano ad essere boss mafiosi, ma si gettano direttamente nella mischia con pistola e mitra spianati e non rinunciano ai vizi più dispendiosi, al lusso, alla cocaina e alle puttane… Hanno goduto di protezioni altolocate e hanno ricevuto e reso favori a settori dei servizi segreti e alla criminalità mafiosa e organizzata rappresentata innanzitutto da Cosa Nostra italoamericana, Cosa Nostra siciliana, dalla camorra napoletana e dall’ndrangheta calabrese, ma il loro tempo sta scadendo…
Nel 1977 viene arrestato Francis Turatello e, malgrado cercherà di mobilitare protettori e amici come lo stesso Danilo Abbruciati che ha conquistato una posizione di rilievo nella banda della Magliana, finirà i suoi giorni in carcere. A quanto pare, cercherà pure di venire in possesso di documenti riferibili al caso Moro al quale, oltretutto, il bandito milanese non sembra estraneo. Nel frattempo all’interno delle carceri viene dichiarata la “guerra agli infami”, coloro che hanno deciso di fare i confidenti della polizia o di legarsi ambiguamente alle autorità.

E’ il 23 agosto del 1981 quando nel carcere nuorese di Badu’e Carros Turatello viene avvicinato da quattro tipacci: Antonio Faro, Salvatore Maltese, Vincenzo Andraous che aveva fatto parte della banda Vallanzasca e il camorrista Pasquale Barra. Mentre gli altri lo tengono fermo, quest’ultimo finisce il boss a coltellate. La sentenza di morte è stata comminata dall’ex socio d’affari Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, che non ha gradito la rottura della loro società. Analoga fine sarà riservata al boss marsigliese Bergamelli: il 31 agosto del 1982 un criminale comune avvicinatosi alle BR e politicizzatosi in carcere lo sgozzerà nella casa circondariale di Ascoli Piceno. Evidentemente le protezioni della Grande Famiglia a cui il bandito si era riferito anni prima erano venute a mancare…

A differenza dei suoi antichi amici, Abbruciati, invece, lascerà la ghirba sul campo. Senza avvertire gli altri componenti della banda della Magliana, il 27 aprile 1982 si recò a Milano per compiere un attentato ai danni di Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano e braccio destro di Roberto Calvi. Probabilmente il boss della Magliana doveva fare un favore a Pippo Calò poiché il Banco Ambrosiano, oltre ad costituire uno “sportello” a disposizione della loggia P2 e della finanza vaticana, era utilizzato per riciclare i proventi delle illecite attività della mafia. Abbruciati ferisce alle gambe Rosone, ma nel tentativo di fuggire con la moto viene colpito mortalmente da una guardia giurata.

Perisce così l’ex rapinatore assurto al rango di malavitoso di rango inserito prima nella banda dei Marsigliesi e, poi, con un ruolo di primo piano nella banda della Magliana alla quale trasmette tutto il bagaglio di esperienze e contatti. Il sodalizio apparentemente di ferro fra i malavitosi delle batterie romane che, per un certo periodo, avevano spadroneggiato nella capitale arrivando quasi a conquistare il monopolio dello spaccio di droga, dell’usura e del giro delle scommesse, si scioglie come neve al sole divorato dalle rivalità e dalle tensioni fra le varie anime della banda. Fra feroci esecuzioni, tradimenti e pentitismo i vari Giuseppucci, Abbatino, De Pedis, Selis, ecc… andranno incontro al loro ineluttabile destino.  La sorte non è stata magnanima neanche con il socio di Bergamelli: arrestato per spaccio di stupefacenti a New York nel 1980 verrà estradato in Italia e, anni dopo, verrà ucciso in Francia, nel carcere di Nizza.
Come nella migliore tradizione della narrativa e della cinematografia noir e sui gangster questa genia di uomini duri e spietati, che non si facevano alcuno scrupolo a riservare robuste dosi di piombo contro i loro concorrenti e gli “sbirri”, termina nel sangue il percorso della sua parabola, senza che nessuno li rimpianga. E sulle loro violentissime morti si staglia qualche ombra. Ingombranti per l’autentica criminalità mafiosa e disprezzati dai malavitosi “puri” e non compromessi in giochi di potere dai contorni poco chiari, sono stati anche scomodi testimoni – quindi da eliminare – dei segreti inconfessabili e delle porcherie di personaggi rispettati ed insospettabili.

Ma questo “romanzo criminale” incrocia quasi inevitabilmente la vicenda umana ed intellettuale di Pasolini, così come il romanzo mai scritto veramente sulle stragi…   

Nell’immediato Pino Pelosi si ritrova, quindi, ad essere l’unico imputato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Inizialmente la difesa del ragazzo viene assunta dagli avvocati Tommaso e Vincenzo Spaltro. Questi vengono presto sostituiti dall’avvocato Rocco Mangia, un democristiano che aveva già assunto la difesa dei giovani pariolini torturatori, massacratori e stupratori del Circeo. La nomina di quest’ultimo sarebbe stata suggerita – secondo Pelosi – da Franco Salomone, giornalista del quotidiano di destra “Tempo” che era andato ad intervistare i suoi genitori. La strategia preparata dall’avvocato Mangia è di una semplicità marchiana: Pelosi avrebbe dovuto accollarsi la responsabilità esclusiva della morte del poeta e dichiarare che quella sera all’Idroscalo non era presente nessun altro.

Il legale promise poi al ragazzo che sarebbe uscito di prigione in quaranta giorni perché l’istruttoria non sarebbe mai stata completata. L’avvocato Mangia nominò come periti di parte alcuni esimi ed illustri professori e cattedratici su cui tanto si sarebbe discusso: il professor Franco Ferracuti, psichiatra forense, il professor
Aldo Semerari, criminologo e la sua assistente dottoressa Maria Fiorella Carraro.

A posteriori, e valutando anche gli altri elementi del caso, appare chiaro che fosse in atto un tentativo di organizzare intorno a Pelosi un cordone sanitario per impedire l’emersione della verità sulla notte all’Idroscalo. Basta scorrere i nomi degli esperti per rendersene conto… Il professor Ferracuti, oltre a essere considerato un luminare nel suo campo di ricerca e di attività, è iscritto alla loggia P2  e collabora con gli americani della CIA e dell’FBI. Qualche anno più tardi verrà chiamato dal Ministro degli Interni Cossiga per far parte del Comitato degli Esperti che avrebbe dovuto occuparsi del caso Moro con l’apporto dell’esperto del Dipartimento di Stato americano Steve Pieczenick al quale Ferracuti offrirà la sua competente collaborazione.

Il contributo fondamentale dello psichiatra consiste nello sminuire la portata delle lettere scritte da Aldo Moro mettendo in dubbio la capacità di intendere e di volere dell’ostaggio delle BR. Su questa “diagnosi” funzionale a isolare definitivamente lo statista democristiano Ferracuti si ritrova in sintonia con l’esperto americano. Inoltre pare che sua fu l’idea di far rapire brigatisti nelle carceri per condizionare l’esito del sequestro e mettere sul piatto della trattativa altra merce di scambio. Un’operazione rischiosissima dagli sviluppi impossibili da prevedere… Un noto esponente romano dell’MSI Edoardo Formisano portò a Turatello l’ordine di reclutare elementi della malavita per attuare il progetto. Il gangster milanese rifiutò recisamente l’offerta…
Amico di Ferracuti, il professor Aldo Semerari è una figura altrettanto importante nel contesto della nostra storia. Collaboratore del SuperSISMI diretto da vertici piduisti e dal promettente giovane faccendiere Francesco Pazienza, massone e diplomatico del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta, Semerari è innanzitutto un convinto nazista che vuole rinnovare la strategia terroristica attraverso l’alleanza tra l’estrema destra e la malavita comune. In questo senso il criminologo romano è un personaggio centrale nella storia della banda della Magliana. Nell’estate del 1978 in seguito all’opera di convincimento di un criminale comune romano di tendenze destrorse – Alessandro D’Ortenzi detto “Zanzarone” – Semerari incontrò alcuni boss della banda della Magliana come Franco Giuseppucci nella villa di Rieti del neofascista De Felice.

Il professore voleva mettere in pratica il suo progetto terroristico coinvolgendo quel consorzio criminale che stava scalando rapidamente le gerarchie della mala romana. Giuseppucci e i suoi rifiutano: pur essendo in gran parte simpatizzanti del neofascismo sono soprattutto rapinatori, trafficanti, spacciatori e usurai. Ciò che li spinge al crimine è il volgare denaro… L’alleanza salta, ma non mancheranno le occasioni in cui la banda della Magliana e i giovani neofascisti della banda dei NAR collaboreranno, specie per ciò che riguarda le rapine a mano armata, il riciclaggio e il recupero dei “crediti”. Più che le affinità ideologiche contano i matrimoni di interesse…

Pur non essendo riuscito nell’intento di reclutare la malavita più tracotante e feroce e convertirla alla causa stragista, Semerari non fece mai mancare il suo aiuto a Cutolo, ai boss della Magliana e ai Marsigliesi. Nei suoi propositi deliranti Semerari alza il tiro e, nel luglio del 1980, periodo compreso fra la tragedia del DC9 di Ustica e la strage alla stazione di Bologna, compie due viaggi; prima nella Libia del colonnello Muhammar Gheddafi e poi negli USA per incontrare l’amico e collega Ferracuti. Cosa accade in quell’arco di tempo ? Gli inquirenti si convincono quasi subito che i responsabili della strage alla stazione di Bologna sono da ricercarsi nel frastagliato mondo della destra eversiva, fra Terza Posizione e i NAR. Quasi dal momento in cui Semerari viene incarcerato scattano i tentativi di depistaggio del SuperSISMI, di Gelli e di Pazienza. Il professore potrebbe cedere e fare rivelazioni imbarazzanti e pericolose per tutti…

Nel gennaio del 1981 alla stazione di Bologna viene ritrovato un borsone con giornali tedeschi e francesi, barattoli con esplosivo simile a quello utilizzato per la strage e un mitra Mab modificato. Quest’ultimo proviene dal deposito di armi collocato nel Ministero della Sanità e nella disponibilità della banda della Magliana e delle bande della destra neofascista. Qualche giorno prima i Centri di Controspionaggio avevano allertato sul pericolo di una “Operazione Terrore di Treni” da parte di organizzazioni terroristiche straniere. E’un altro depistaggio ideato e organizzato dal duo piduista Sansovito – Musumeci del SuperSISMI per alleggerire anche la posizione del professore. Al di là dell’effettiva responsabilità della strage italiana più sanguinosa dal immediato Dopoguerra ad oggi, la vicenda che investe anche il professor Semerari illumina una rete di rapporti fra P2, servizi segreti militari, banda della Magliana e destra eversiva.

Non essendo emerse prove a suo carico, il professore viene scarcerato e il suo nome riappare in un’altra brutta storia che coinvolge anche il solito SuperSISMI, Qualche giorno precedente alla sua morte rivendicherà la paternità di un documento falso che accusava alcuni esponenti democristiani di essere coinvolti nelle trattative per la liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo. Il documento era stato pubblicato dall’”Unità”. Costui era stato sequestrato nell’aprile del 1981 da un commando delle Brigate Rosse - . Partito Guerriglia  fondate da un ambiguo collega di Semerari, Giovanni Senzani, anche lui in odore di servizi segreti. Per la liberazione si attivano i compagni democristiani napoletani e vari settori dei servizi segreti militari. Viene chiesta la mediazione del boss in carcere della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo.

Si arriverà alla liberazione dopo una trattativa dai contorni oscuri ma inquietanti e non solo per il pagamento di un riscatto. Sul piatto gli appalti della ricostruzione del dopo terremoto. Il 1 aprile 1982 il corpo decapitato del professore verrà ritrovato ad Ottaviano, davanti all’abitazione di Cutolo. Sullo sfondo la sanguinosissima guerra di camorra che oppone la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo alla Nuova Famiglia di Ammaturo che rappresenta quelle fazioni della camorra ancora legate a Cosa Nostra siciliana. Ma veramente il professor Semerari è caduto come vittima dell’ennesima guerra di mafia, oppure si è voluto eliminare per l’ennesima volta un testimone scomodo di quegli anni di atrocità e di connubi criminali ?

Quel macabro ritrovamento fa pensare anche ad un messaggio lanciato proprio a Cutolo, invischiato nelle trattative per la liberazione dell’assessore Cirillo. Lo stesso giorno viene rinvenuto il corpo della collaboratrice e compagna Maria Fiorella Carraro presumibilmente “suicida”.
Un collegio di periti veramente sui generis, quello della difesa di Pino Pelosi che, comunque, si farà oltre nove anni di galera !  

Emerge, quindi, con una certa chiarezza come negli anni Settanta la capitale accogliesse in seno un milieu criminale dalle variegate sfaccettature in cui alta criminalità, violenza a sfondo politico e pseudopolitico e malavita comune e di basso rango convivevano e si confondevano bellamente. E come questo “circuito” criminale – che, comunque, non era certo solo capitolino, venisse utilizzato dai “poteri forti” e dalla criminalità mafiosa e organizzata per compiere i “lavori sporchi”.

Come si evince dal famoso articolo di Pasolini sul “Romanzo delle stragi”, il poeta era assolutamente convinto dell’esistenza di questo tipo di relazioni e qualche elemento ci induce a ritenere che fosse alla ricerca di quelle prove che, dalla periferie e dai bassifondi romani, conducesse direttamente al Palazzo del Potere capitolino con le sue consorterie, le sue congreghe e i suoi conflitti di potere. E’ assai probabile che tramite le sue frequentazioni di borgata avesse cercato di indagare sui malfattori siciliani e romani coinvolti nella “strategia della tensione” e su quel neofascismo capitolino che pescava e reclutava non solo fra i pariolini, ma anche tra malavitosi e borgatari. Già questa condotta, per quegli anni, era assai rischiosa ed esponeva Pasolini – già inviso per il suo credo politico e per le sue inclinazioni sessuali – al pericolo di ritorsioni.

Si aggiunga che, al contempo, pur essendo estraneo al Palazzo, si stava impegnando a individuare i reali mandanti della “strategia della tensione”, al di là delle coperture offerte dai democristiani. Sappiamo, inoltre, che si era gettato alacremente nell’impresa di congegnare ed ultimare il “romanzo delle stragi”, intitolato “Petrolio”, nella certezza che il vero potere fosse gestito nella penisola da chi in quel tempo aveva in mano la gestione della politica energetica. Sembra che il giorno stesso della morte di Pasolini la cugina Graziella Chiarcossi avesse denunciato un furto nella casa del poeta. Oltre a valori e gioielli sarebbero state rubate delle carte, a cui, evidentemente, i mandanti dei ladri erano interessati. Semplice coincidenza ?

“Petrolio” è rimasto incompiuto ed è rimasta una miriade di schemi ed appunti per il romanzo che, sorprendentemente, la casa editrice Einaudi deciderà di pubblicare solo nel 1992 dopo quasi vent’anni dalla scomparsa dell’autore, al termine dell’era della Guerra Fredda e dell’”equilibrio nucleare del terrore” e in piena Tangentopoli quando alcuni altarini – ma solo alcuni – verranno alla luce. Che cosa poteva dare tanto fastidio ? Dal “romanzo” pasoliniano, in particolare, era stato asportato l’appunto 21 “Lampi sull’ENI” dedicato alla figura di Eugenio Cefis, un potente manager del settore petrolifero, chimico ed energetico che era stato braccio destro del Presidente dell’ENI, Enrico Mattei e, dopo la morte di quest’ultimo, era succeduto nella carica qualche anno dopo e, successivamente, aveva ottenuto il controllo della Montedison nel 1971.

Spregiudicato e senza molti scrupoli, Cefis tentava di costituire in Italia un monopolio energetico e di creare un sistema di potere finanziario – industriale – politico – ma, evidentemente anche con qualche risvolto criminale non di poco conto – in competizione con quello delle storiche famiglie del capitalismo industriale italiano (Agnelli, Pirelli, Falck, ecc…). In effetti “Petrolio” sarebbe stato incentrato sul rapporto dialettico e sulla tensione fra i due personaggi che avevano retto l’ENI portandola nel firmamento delle potenze economiche internazionali che contano veramente.

Se Mattei/Bonocore, pur nella sua condotta spregiudicata, cercava di mettere la sua enorme influenza e il suo potere al servizio della collettività attraverso una visione del capitalismo che, comunque, soggiacesse agli interessi generali, Cefis/Troya mirava ad estendere il proprio potere personale attraverso quella commistione fra speculazione finanziaria ed economia e quella confusione fra pubblico e privato che sono forse i veri tratti distintivi del neocapitalismo postmoderno. Comunque i due erano antichi amici e avevano militato nella brigata partigiana “bianca” della Val d’Ossola di Alfredo di Dio, che collaborava intensamente con gli Alleati angloamericani e con il SIM, il servizio segreto militare della monarchia. Militare di carriera, Cefis aveva familiarizzato con Enrico Mattei che si era dimostrato un organizzatore efficiente ed infaticabile.

E’ assodato che, attraverso le formazioni “bianche” della Resistenza come quella di Alfredo di Dio, ebbero origine i primi nuclei di quella che diventerà la GLADIO, la sezione italiana della STAY BEHIND allestita da americani ed inglesi. Lo stesso Mattei è stato spesso indicato come uno dei fondatori della struttura paramilitare atlantica.

Tuttavia, in qualità di Presidente dell’ENI, il potente manager voleva porre le condizioni per l’indipendenza energetica ed economica dell’Italia, condizione imprescindibile per proiettare il paese nel firmamento delle grandi potenze. Il suo attivismo e la sua autonomia lo misero in contrasto con il cartello petrolifero americano, inglese, olandese e francese delle Sette Sorelle. Per contro, la figura di Cefis è avvolta da ombre che non si sono mai diradate a partire dal sospetto di un coinvolgimento nella morte del capo partigiano Alfredo di Dio e di doppiogiochismo. Sarà forse il dubbio sull’affidabilità dell’amico che convinse Mattei a chiederne le dimissioni qualche mese prima della propria morte. Sembra che Cefis avesse cercato di trafugare dei documenti riservati dell’ENI.

La fine di Mattei è nota: il 27 ottobre 1962 il suo aereo privato che, partito da Catania stava ritornando a Milano, si schiantò sul suolo di Bescapè in provincia di Pavia. Secondo una delle più eminenti personalità politiche della Prima Repubblica, il più volte Presidente del Consiglio democristiano Amintore Fanfani Bescapè è stato il primo autentico atto di terrorismo compiuto nel nostro paese e ha segnato l’inizio di un periodo fosco di attentati, stragi e altri lutti. Per anni, nonostante tutto, ha resistito la versione ufficiale dell’”incidente” e solo recentemente, grazie all’inchiesta del giudice di Pavia Calia, è stata approfondita l’ipotesi del sabotaggio affidato probabilmente o a sicari della mafia italoamericana o siciliana o a uomini dell’organizzazione terroristica OAS che, compare ancora una volta nella nostra narrazione.

Infatti Mattei sosteneva l’indipendenza algerina da Parigi e appoggiava l’FLN algerino suscitando le ire dei colonialisti dell’OAS. Ad ogni modo, come in tutti i gradi delitti, devono avere agito delle cointeressenze, e l’eliminazione fisica di Mattei era certo cosa gradita al cartello delle Sette Sorelle. Pare che, quantomeno, Cefis fosse a conoscenza del tentativo poi riuscito di eliminare Mattei… Qualche anno dopo, nel 1967, assumerà la carica di Presidente dell’ENI secondo anche gli auspici di potenti ambienti e circoli della finanza e dell’economia americana ed inglese. Con l’aiuto del Presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, riuscirà a scalare la Montedison. Al contempo, per rinsaldare il proprio potere e la propria influenza, darà l’assalto ai mass media e alla carta stampata. Contribuisce alla fondazione del “Giornale Nuovo” da parte del più importante ed autorevole giornalista italiano, Indro Montanelli che si era allontanato dal “Corriere della Sera” diretto da Piero Ottone perché troppo spostato a “sinistra”.

L’interesse di Pasolini per Cefis e il suo sistema di potere era nato dalla lettura del pamphlet “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato Presidente” da cui gran parte delle notizie riportate in “Petrolio” sono tratte. L’autore del pamphlet era un tal Giorgio Steimetz, pseudonimo del giornalista Corrado Ragozzino, direttore dell’AMI (Agenzia Milano Informazioni). Quest’ultima era finanziata da Graziano Verzotto, un altro discusso personaggio, già collaboratore di Mattei e Presidente dell’EMS (Ente Minerario Siciliano). Quel libro finisce nelle mani di Pasolini grazie allo psicanalista Elvio Facchinelli. Grazie a “Questo è Cefis”, il poeta friulano riesce a ricostruire il complesso network finanziario allestito da Cefis e i suoi alleati.

Non solo… Individua un sistema complesso e trasversale di Potere che riesce a manovrare a strumentalizzare tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra e a utilizzare elementi della criminalità organizzata e comune. E’ chiaro che, per Pasolini, l’origine di tale network risale alla Guerra e a quel gruppo di resistenti anticomunisti e antifascisti che hanno collaborato con gli angloamericani. In questo modo suddivide il periodo della “strategia della tensione” in due fasi ben distinte: la prima – che culmina con la strage di piazza Fontana – aveva una finalità anticomunista, poiché doveva promuovere la repressione delle sinistre italiane a partire dagli anarchici – l’anello più debole della catena; la seconda, risalente al 1973 – 1974, si prefigge, al contrario, di scaricare i fascisti per “rifarsi una verginità antifascista” dopo il fallimento della crociata anticomunista.

Un’analisi lucida, condita da gravi accuse mosse a personalità come Cefis, che, forse, era pure supportata da indizi di una certa consistenza. La tesi pasoliniana pare essere stata apparentemente avvalorata da un misterioso testimone di destra in un’intervista del giornalista Paolo Cucchiarelli riportata nella monumentale “Il segreto di Piazza Fontana” (Ponte alle Grazie 2009). L’ex sedicente militante neofascista che afferma di essere a conoscenza di molti segreti sulla madre di tutte le stragi, asserì che i capitali del petrolio di Cefis – assieme a quelli americani – servivano a finanziare la “strategia della tensione” attraverso i traffici di armi.
Non è dato sapere quanto retroscena fossero a conoscenza di Pasolini, ma è certo che il suo omicidio venne accuratamente pianificato e che subì il furto di alcune carte. Quanto a Cefis, apparentemente il suo potere declinò e nel 1977 fu costretto a lasciare il paese per la Svizzera ed il Canada quando sembrò che il suo nome dovesse essere associato ai tentativi di golpe come quello del principe “nero” Junio Valerio Borghese.

Secondo una nota riservata del SISMI emersa durante le indagini sulla morte di Mattei condotte dal PM Calia, Eugenio Cefis era il vero capo della loggia P2. Avrebbe affidato la loggia coperta alle sapienti ed esperte mani di Licio Gelli e di Umberto Ortolani che sarebbero stati suoi sodali. In effetti, con la fuga di Cefis, l’influenza della loggia aumenterà a dismisura penetrando nelle istituzioni, negli organismi dei servizi segreti, nelle banche, nei giornali, ecc…

Tutto in attuazione del Piano di Rinascita Democratica che non è un progetto semplicemente golpista, ma il tentativo penetrante di svuotare l’assetto costituzionale per mutare la natura parlamentare della Repubblica. Si è visto come Cefis attribuisse grande importanza ai mass media e ai giornali nel plasmare l’opinione pubblica e orientarla secondo gli indirizzi voluti. Infatti il Piano piduista assegna un ruolo fondamentale al controllo di stampa e televisione. Attraverso il Banco Ambrosiano del “fratello” Roberto Calvi e coinvolgendo i “fratelli” Rizzoli e Tassan Din, la P2 riuscirà ad ottenere per qualche anno il controllo del “Corriere della Sera”, il più importante quotidiano italiano che faceva gola a Cefis.

La direzione verrà affidata al “fratello” Di Bella e verranno assunti altri “fratelli” come Costanzo, Gervaso e Mosca. Ma veramente si può inferire che il “sistema Cefis” e la loggia P2 di Gelli e Ortolani – più volte incontrata nel corso della narrazione – erano una cosa sola. Molti fatti ci inducono a sostenerlo… Nel 1973, nel corso del processo di unificazione massonica fra la comunione del Grande Oriente e quella di Piazza Gesù, i “fratelli” della loggia coperta di Piazza del Gesù “Giustizia e Libertà” confluirono direttamente nella loggia Propaganda 2 del Grande Oriente. Fra le personalità più eminenti ed influenti della “Giustizia e Libertà” era presente proprio Eugenio Cefis. L’intero processo rientrava nel tentativo di dare alla massoneria italiana un indirizzo saldamente conservatore e creare una sorta di “partito occulto” capace di incidere profondamente nella società e nelle istituzioni.

Nella sua scalata ai massimi vertici del potere finanziario, industriale ed economico Cefis contò fra i suoi alleati proprio il finanziere piduista Ortolani – che, a quanto pare, avrebbe “simulato” il rapimento del figlio Amedeo con la complicità dei Marsigliesi – oltre che il petroliere Attilio Monti proprietario di quotidiani come “La Nazione” e “Il Resto del Carlino” e Carlo Pesenti. La continuità si evince anche da altri interessanti riscontri. Innanzitutto negli anni Settanta la BNL, la Banca Nazionale del Lavoro di cui è Presidente il “fratello” piduista Alberto Ferrari, si  presentava come una generosa cassaforte a disposizione sia di Cefis, che della loggia P2 e del PSI.

Fra gli altri facoltosi “clienti” dell’istituto spiccavano anche il finanziere piduista e mafioso Michele Sindona, un personaggio che fino agli inizi degli anni Settanta era tenuto in gran conto da più potenti ambienti e circoli finanziari e politici americani ed italiani e un certo Silvio Berlusconi, anche lui piduista e costruttore edile. Le transazioni venivano effettuate grazie alla holding della BNL Servizio Italia diretta dal piduista Graziano Graziadei. Come sappiamo, fra gli obiettivi più impellenti perseguiti dalla P2 c’era l’istituzione di una sorta di monopolio mediatico tramite il controllo della stampa e dell’editoria e la dissoluzione della televisione pubblica da rimpiazzare con un network privato.

Non è difficile rintracciare nell’impero mediatico berlusconiano la concretizzazione dei propositi piduisti. Durante la sua inchiesta, il PM Calia acquisisce un rapporto della Guardia di Finanza secondo cui una delle società accomandanti della Edilnord Centri residenziali dell’avvocato Umberto Previti, padre del noto Cesare e riconducibile a Berlusconi, già Edilnord SAS di Silvio Berlusconi & C., con sede a Lugano, ha preso il nome di Cefinvest, che, ovviamente richiama il solito Eugenio Cefis.
In conclusione sembra che il “sistema Cefis” sia stato ereditato dal network raccolto intorno alla loggia coperta P2 e fondato sull’asse Gelli – Craxi – Berlusconi.

Sono questi i fili mortali che Pier Paolo Pasolini avrebbe anche solo sfiorato ?   

Una ricostruzione

Ammettiamo allora, che Pasolini sia riuscito non solo a comprendere le logiche di quel “Potere Invisibile” dalle tentacolari e capillari diramazioni economiche, finanziarie, politiche e criminali, ma anche a ricostruirne in parte i gangli e le cellule.
Ammettiamo che, attraverso, confidenze e testimonianze raccolte nelle borgate, sia riuscito a scovare quei luoghi di incontro per la malavita romana e l’estremismo neofascista.
Ammettiamo che, intuitivamente, avesse compreso che nella capitale era presente un milieu criminale e mercenario che offriva i propri servizi ai “poteri forti”.
Ammettiamo che sia riuscito a ricomporre pezzi importanti della biografia di Cefis e di quel sistema di potere che verrà ereditato dalla P2…
Allora non è poi così assurdo ipotizzare che venne pianificato il suo omicidio; che, con la scusa del recupero delle pizze di “Salò” venne attirato in una trappola; che Pelosi venne utilizzato come esca e che venne ucciso all’Idroscalo, posto bazzicato da prostitute e marchettari, per sviare le indagini verso la pista del delitto maturato nell’ambiente del commercio sessuale omosessuale; che la presenza di “pischelli” e ladruncoli sul posto poteva, di conserva, attirare l’attenzione sul “tentativo di furto finito male”; che al contempo, mentre Pasolini veniva massacrato da un gruppo di picchiatori professionisti reclutati probabilmente nell’ambiente dello squadrismo neofascista o fra gli elementi più decisi e pericolosi della delinquenza romana, altri si occupavano di rintracciare e trafugare i documenti più compromettenti del poeta nella sua abitazione.
Bastava solo che si diffondesse il timore che Pasolini sapesse molto di più di quello che aveva scritto sul “Corriere della Sera” e che stesse per pubblicare le prove che incastravano i poteri citati nei giochi di potere più sporchi e nella “strategia della tensione”.
Non sapremo mai tutta la verità, ma certo oggi siamo consapevoli che quel che ci è stato raccontato dalle televisioni e dei giornali non è che una gigantesca montatura e che qualcosa di inconfessabile circonda la tremenda morte di Pasolini. Troppi particolari e troppe tracce indicano la strada per una versione dei fatti che, ancor oggi, si teme possa essere pienamente svelata.
Non ci rimane che onorare la vita e la morte di Pier Paolo Pasolini rievocandone questo sofferto e generoso impegno e la sua lucida coscienza critica in attesa dei risultati della nuova inchiesta e, comunque, di tempi migliori.

Conclusioni

Due sono le vie per poter vivere e sopravvivere degnamente e da uomini alla miseria dei tempi postmoderni: una risiede nella ricerca della Contemplazione e della Bellezza attraverso la creatività e la creazione artistica che trascendono il reale e si immergono nell’Invisibile, l’altra consiste nell’immersione profonda nelle tempestose acque che soffocano l’uomo, incastrato negli ingranaggi pervasivi del Potere per poter individuare gli strumenti – intellettuali e pratici – per smontate la macchina e ricomporla a misura dell’Umano. Pasolini ha sintetizzato efficacemente questi due aspetti e anche per questo è stato probabilmente ucciso.

Mi si rimprovera spesso di scrivere fiumi di inchiostro su quello che, per certi aspetti, considero un mio maestro – per quanto discusso e discutibile -.

Vorrei, allora, porvi una semplice domanda…

Come potrei scordarlo ?

Di HS

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