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"LA TERRA CI NUTRE LA TECNOLOGIA CI GUIDA: COLTIVIAMO INSIEME IL FUTURO"
8 agosto 2014
IL GENOCIDIO COMPIUTO DA ISRAELE NELLO SCACCHIERE INTERNAZIONALE
A Gaza continua l’offensiva di Israele
per schiacciare la resistenza palestinese, ultimo diaframma che si
frappone all’egemonia economico/militare dei sionisti sulla Striscia.
Insieme all’embargo, che dopo la vittoria di Hamas ha schiacciato i
territori arabi, i ripetuti attacchi di Israele rappresentano una
tessera del mosaico di conflitti, che negli ultimi anni hanno
insanguinato il Medio Oriente.
I pretesti di questa nuova invasione non
sono altro che l’ennesima ricerca fittizia del “casus belli” per
proseguire il genocidio palestinese, per impossessarsi di tutta la terra
di Palestina eliminando ogni limitato insediamento palestinese,
concentrato ormai solo in due isole di Gaza e Cisgiordania circondate
dal muro e presidiate dall’esercito israeliano. Per i sionisti, i
palestinesi sono il motore della loro economia, costituendo un grande
esercito di riserva utilizzati nella produzione sionista, nelle grandi
fabbriche israeliane e nelle multinazionali che investono in Israele,
impiegati come schiavi, sottopagati e senza diritti.
Nell’ottica
sionista, i palestinesi crescono però a livello demografico molto più
velocemente di quanto serve ai loro interessi, per questo è costante il
genocidio sionista per ridurre al minimo indispensabile la popolazione
palestinese, boicottando allo stesso tempo ogni possibilità di
organizzazione della Palestina, impedendo la pesca, sabotando le
centrali che producono energia a Gaza e Cisgiordania, versando negli
acquedotti di Gaza e Cisgiordania acque reflue sull’acqua potabile,
l’insabbiamento dei pozzi ecc… Pertanto si tratta di una operazione
sistematica per ridurre al minimo la popolazione palestinese da
conservare in stato di schiavitù secondo le necessità della borghesia
israeliana e internazionale.
In questo senso, allo Stato sionista fa
gola il “Gaza Marine”, giacimento di gas naturale al largo delle coste
palestinesi controllato per il 60% da British Gas Group, mentre il 30% è
nelle mani di Consolidated Contractors (compagnia privata palestinese) e
il 10% è gestito da ANP. Su questa area, dal 1999 vige un accordo –
siglato dal presidente Arafat e dalle due compagnie – mai decollato a
causa delle pressioni di Israele. Entrò a suo tempo in gioco Tony Blayr,
al vertice del “Quartetto per il Medio Oriente”, con un accordo che
scippava ai palestinesi i tre quarti degli introiti e stabiliva che la
loro spettanza sarebbe arrivata su un conto gestito da Washington e
Londra. Quando Hamas prese il potere chiese una rinegoziazione
dell’accordo, concessa nel 2012 dall’ANP senza però che Hamas ne facesse
parte. Nel gennaio 2014 Abu Mazen e Vladimir Putin hanno discusso sulla
possibilità di far sfruttare il giacimento alla russa Gazprom, ma
l’operazione si è interrotta.
Il conflitto in corso va quindi
inquadrato in quest’ottica e nell’insieme del quadro internazionale.
Alla Palestina non ha sicuramente giovato il conflitto nell’area degli
ultimi mesi, su tutti la “guerra civile” in Siria, che ha colpito
duramente il governo Baathista e laico di Assad, storico sostenitore
della causa palestinese e delle formazioni politiche/militari
palestinesi più radicali. In Palestina negli ultimi anni sono ormai
prevalse le forze religiose islamiche, che hanno realizzato una
sostanziale islamizzazione in particolare della Striscia di Gaza. Gran
parte dei dirigenti politici laici e progressisti negli anni sono stati
uccisi o si trovano in carcere, con conseguente indebolimento di queste
organizzazioni, mentre Hamas ha sviluppato progressivamente un ampio
consenso grazie alla situazione concreta in cui si trova la popolazione
di Gaza, che vive in un fazzoletto di terra con una elevatissima densità
di popolazione, senza servizi di base e con pochissimi spazi di
commercio con l’esterno; in queste spaventose condizioni di vita, negli
anni, l’unica formazione politica che è riuscita a garantire un qualche
tipo di welfare è stata proprio Hamas, grazie anche al sostegno
economico proveniente dall’esterno unendo un forte discorso legato alla
religione. L’islamizzazione della Palestina è sostanzialmente una
operazione gradita ad Israele stessa.
Non è un caso infatti che Hamas si sia
legata al Qatar ed abbia sostenuto apertamente l’opposizione religiosa
sunnita in Siria, che oggi avanza in Iraq dove le milizie dello Stato
Islamico dell’Iraq e del Levante, hanno occupato importanti città come
Mosul. In questo scenario è stato determinante anche l’ingresso della
Turchia, guidata dall’islamico-conservatore Erdogan, che minacciando
l’intervento armato e con il finanziamento dell’opposizione religiosa ad
Assad, si è rivelata come un attore importante nell’aggressione della
Siria, mirando ad assumere un ruolo imperialistico da protagonista a
livello regionale. Sempre con lo stesso scopo, Erdogan mantiene una
posizione più dura contro Israele, accusandola fortemente dopo il
criminale attacco alla Freedom Flottiglia e a seguito degli attacchi a
Gaza, anche in questi giorni, dove a dominare è però la retorica
finalizzata soprattutto alle prossime elezioni del 10 Agosto. L’Iran del
presidente Hassan Rouhani, rispetto al governo di Ahmadinejad, ha
assunto un tono più moderato nel sostegno alla resistenza palestinese.
Sostanzialmente possiamo dire che il
conflitto israelo-palestinese è al centro del conflitto tra le grandi
potenze a livello globale e regionale. USA e Israele, proseguono la
strategia imperialistica che vuole creare il più possibile zone di
“caos” nel Medio Oriente, come successo in Libia, in cui si animano
conflitti tra diversi clan e fazioni religiose. Ma nei fatti, anche i
paesi arabi non vogliono uno stato di Palestina, in quanto anche per
loro l’area va destabilizzata, per giocare un continuo equilibrio di
confini e risorse, in particolare per il rialzo del prezzo del petrolio.
Il territorio in conflitto, infatti, è un corridoio fondamentale, via
terra e mare, per portare le risorse mediorientali, parliamo di Iran,
Iraq, Emirati Arabi, Kuwait, Qatar ecc…, verso l’Occidente. L’Europa
stessa sostanzialmente si rifornisce di risorse energetiche da Est per
quanto riguarda il gas e dal Medioriente per quanto riguarda il
petrolio, in gran parte via mare, dallo Stretto di Hormuz, e in parte
via terra.
Destabilizzare costantemente l’area, vuol dire la
militarizzazione del territorio e il controllo delle rotte e la
pressione verso alcuni paesi come l’Iran, per non parlare dell’Iraq e
della Libia in preda al caos e alla distruzione per creare le condizioni
migliori di appropriazione delle risorse. A questo si aggiungono anche
gli enormi profitti nel mercato delle armi, che interessa le potenze
nell’area, in particolare gli USA che finanzia letteralmente lo Stato
israeliano e a cui serve un punto costante di conflitto nell’area.
La stessa Russia e Cina, rispetto al
caso Gaza hanno assunto una posizione più morbida di quella presa
durante l’attacco alla Siria, nonostante in Commissione Diritti Umani
dell’ONU hanno votato favorevolmente all’istituzione di una commissione
d’inchiesta sull’attacco israeliano. La posizione della Russia
probabilmente è condizionata anche dalla presenza di una forte comunità
ebraica all’interno della Federazione, che ovviamente può danneggiare il
presidente Putin.
Il popolo e la causa palestinese si
trova in mezzo agli interessi imperialistici e gli scontri conseguenti,
dove a tutti fa comodo questo “punto di conflitto”. Lo stesso
riconoscimento da parte dell’ONU dello Stato di Palestina, ha di fatto
garantito ben poco alla causa palestinese, e la stessa ONU si è
apertamente e sfacciatamente schierata con Israele mistificando e
stravolgendo la realtà del conflitto e delle forze in campo.
Le forze politiche palestinesi si
ritrovano monopolizzate dal dualismo di potere Hamas-Fatah. Pur
limitate, continuano eroicamente a lottare le formazioni progressiste e
laiche, in particolare il Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina (FPLP), la principale organizzazione politica/militare
marxista palestinese (un tempo seconda a Fatah) che cerca in ogni modo
di imporsi nella politica palestinese, spingendo per una vera unità di
tutte le fazioni politiche e per inquadrare il conflitto nazionale in un
conflitto di classe e anti-imperialista. In una recente dichiarazione
alla tv Al-Mayadeen, Abu Ahmad Fouad, Vice-Segretario dell’FPLP, ha
affermato il proprio rifiuto alla tregua proposta dall’Egitto che
metterebbe sullo stesso piano palestinesi ed israeliani, aggressori ed
aggrediti. Inoltre ha criticato fortemente l’ANP che in alcuni villaggi
sotto il proprio controllo, come Jenin e Nablus, ha bloccato le
insurrezioni popolari. Ad Hamas e Jihad islamica ha rimproverato il
fatto di non aver lavorato per una unità delle fazioni palestinesi,
tenendo divise le posizioni anche tra i diversi gruppi palestinesi
sparsi nel Medio Oriente (Siria, Libano, Gaza e Cisgiordania). Ai paesi
arabi, Fouad, rimprovera la propria assenza nel sostegno della
Resistenza ed individua come unica condizione per un cessate il fuoco,
lo stop alle operazioni israeliane e l’applicazione immediata di tutte
le risoluzioni ONU sulla Palestina.
A sostegno del popolo palestinese, a
livello internazionale, sono stati lanciati diversi appelli delle
organizzazioni comuniste e anti-imperialiste: oltre una settantina di partiti comunisti ed operai del mondo hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta, così come le organizzazioni giovanili,
tra cui il Fronte della Gioventù Comunista (unica organizzazione per
l’Italia), nel quale si evidenzia proprio come la terra di Palestina e
il popolo palestinese si trova “nel punto cruciale dell’aggressione
imperialista, nel mezzo dei piani imperialistici generali che esistono e
vengono promossi nella regione del Medio Oriente e del Mediterraneo
Orientale”, chiedendo la fine dell’aggressione d’Israele e il ritiro dai
territori palestinesi dell’esercito israeliano e dei coloni; il
diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi alle loro case e
l’istituzione dello Stato palestinese nei confini del 1967, con
Gerusalemme Est come capitale, e la cancellazione di ogni rapporto di
cooperazione militare con Israele. La Federazione Mondiale della
Gioventù Democratica, invece, ha espresso nei mesi scorsi la solidarietà ai prigionieri politici
che lo scorso 24 aprile hanno iniziato uno sciopero della fame per la
libertà e la dignità. Centinaia di prigionieri sono da anni arrestati
dalle autorità israeliane, senza processo né accuse di reato. La
Federazione invita tutte le organizzazioni aderenti a mobilitarsi in
solidarietà con i prigionieri politici e la Resistenza palestinese.
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