29 novembre 2009

LE VERITA' DI UN PONTE INUTILE

di Italo Romano

Ho visto che in questi giorni molti hanno parlato del Ponte sullo Stretto per cui voglio dirvi anche io la mia sulla grande opere che dovrebbe unire l’Italia.


Tra poco partiranno i lavori per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Oltre 6 miliardi di euro come costo iniziale: di cui 2,5 mld arriveranno dalla società Stretto di Messina (i cui soci maggioritari sono Anas e Trenitalia), i restanti 3,5 mld si dovranno ricercare tra gli investitori privati. Il ponte verrà costruito sul debito. La Stretto di Messina emetterà delle obbligazioni che lo Stato italiano dovrà ripianare nei prossimi 30 anni. Questi 6 mld di euro la società Stretto di Messina conta di recuperali con i padaggi. Si, perchè tutto il progetto ponte è basato su uno strampalato piano di rientro economico che starà in piedi solo dinanzi ad un traffico di mezzi e di uomini imponente. Ma negli ultimi anni i traffici risultano drasticamente diminuiti. Vuoi la crisi, vuoi l’indecenza delle più basilari vie di comunicazione di Sicilia e Calabria, i dati parlano chiaro.

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Secondo le stime il ponte dovrà smistare circa 100mila autovetture al giorno. Oggi “solo” 15mila vetture transitano da un parte all’altra dello stretto, da dove viene tutta questa necessità di costruire questa opera inutile? Senza contare che i 10 km circa (tratto in nero nella figura) percorribili in pochi minuti con i traghetti saranno, causa ponte, quintuplicati. Difatti per raggiungere il ponte, per esempio per andare da Messina a Reggio Calabria, bisognerà uscire dall città e prendere la nuova tangenziale (tratto in rosso in figura), poi attraversare il ponte (tratto in giallo in figura) e prendere l’autostrada A3 (tratto in viola in figura) fino a Reggio Calabria per una distanza pari a circa 56 km!!! Ingenti perdite di tempo e di denaro. Per cui al maggiorparte dei pendolari che attraversano giornalmente lo stretto non useranno il ponte!!!


Inoltre secondo i dati forniti dalle Autorità portuali (aggiornati al 2008) il traffico lungo lo stretto è in nette diminuzione. Il traffico Camion è diminuito del 7%, quello dei passeggeri -20%, quello delle auto -30%, quello dei treni passeggeri -33%, quello dei treni merci -11%. Dinanzi a questi numeri il piano di rientro economico del Ponte sullo Stretto è come un castello di carte pronto a cadere prima di essere costruito. Sarà lo Stato e, quindi, saremo noi cittadini a finanziare totalmente la faraonica opera. La società Stretto di Messina tra 30 anni, allo scadere della concessione, si vedrà rimborsata per metà il valore dell’opera. A quel punto chi gestirà l’abominevole cattedrale nel deserto?


Questo è quello che dovrebbe avvenire se tutto filasse liscio come l’olio. Ma, sappiamo bene che in Italia non è mai così. Il tempo stimato per l’ultimazione della grande opera è di 6 anni e mezzo. Però nessuno ad oggi, visto l’unicità della struttura, può prevedere con precisione i tempi finali. Tra ritardi di progetto, ritardi tecnici, ritardi naturali e ritardi politici la costruzione del ponte potrebbe richiedere tempi biblici. I costi col passare degli anni lieviterebbero. I meteriali, come l’acciaio (di cui il ponte è quasi totalmente composto) negli ultimi anni hanno subito e potrebbero subire aumenti decisi e inaspettati che, probabilmente, faranno gonfiare l’iniziale investimento di 6 mld di euro di un somma pari almeno alla metà.


Autostrada Salerno-Reggio Calabria docet. Così vi sguazzeranno mafiosi e costruttori italiani che in quest’opera hanno intravisto le loro ricchezze future. L’inganno sta tutto nelle Partnership Pubblico Privato. Tutte le grandi opere, dal Ponte sullo Stretto sino alle linee TAV, sono costruite con soldi pubblici o (come nel caso del Ponte che collegherà Sicilia e Calabria) garantiti dallo Stato, ma pensate per portare profitto ai privati che investono senza rischio alcuno in queste opere tanto grandi quanto inutili. In questo modo si generano debiti che si ripercuoteranno sulle generazioni a venire. Stiamo parlando di oltre 6 mld di euro, come un grossa manovra finanziaria!


In piccolo, avviene già nelle nostre città, dove i costruttori alzano palazzi e centri commerciali uno dopo l’altro, pagando le ditte fornitrici con assegni post-datati di 2 o 3 anni. Nel frattempo le ditte esterne che forniscono il materiale, non ricevendo pagamenti, falliscono e i termitai (nomignolo dispreggiativo assegnato ai costruttori) vedeno realizzarsi un doppio guadagno: costi di costruzione abbattuti e ricavi dovuti alla vendita o all’affitto degli stabili. Così si fanno i miliardi, sulle spalle di chi lavora onestamente e anche, lasciatemelo dire, grazie all’ignoranza e all’indifferenza della gente che poi affolla le decine di inaugurazioni di centri sportivi, ipermercati, multisale e grandi catene mondiali!


Se poi ci addentriamo nei dettagli tecnici riguardanti l’impatto ambientale non se ne esce più. Scriveremmo decine di manuali contro l’innalzamento del Ponte sullo Stretto. Ma dinanzi tanto guadagno la tutela del territorio passa in secondo piano. Magari manderanno Sgarbi in giro nei vari salotti a dirci che il Ponte darebbe un tocco d’arte basato sulla prossima natura morta!!!

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Il tratto che comprande la punta della Calabria e la punta nord-orientale della Sicilia è a forte rischio sismico e, come abbiamo visto di recente, soggetto a innumerevoli fenomeni franosi, anche di elevata entità. Immaginate se una frana come quella di Messina di poche settimane fa interessase la zone di ancoraggio dei piloni…Dio solo sa il disastro che ne verrebbe fuori! Il ponte, per dati di progetto, è costruito per resistere a scosse di terremoto fino al 7° della scala Richter, pari a quello che rase al suolo Reggio e Messina nel 1908, perchè si pensa che il prossimo sisma che interesserà la zona sia della medesima portata. A questi ingegneri chi gli da così tanta sicurezza? E se ci fosse un terremoto di livello superiore? Chi si prenderà la responsabilità del disastro? Questi soldi potrebbero essere ben spesi per la ristrutturazione e messa in sicurezza di Reggio e Messina dove solo un quarto delle case sono a norma anti-sismica. Cosa aspettiamo? Un’altra tragedia come quella avvenuta in Abruzzo mesi orsono? E poi? Che facciamo? Piangiamo in coro e ci disperiamo imprecando contro chissà quale dio malevolo?


Bisogna investire sul dissesto idrogeologico in cui versa la maggiorparte del territorio italiano. Bisogna investire sulle piccole opere locali, sono queste che possono generare ricchezza e posti di lavoro per tutti. Sono queste le opere che darebbero nuovo vigore all’economia e alla popolazione tutta. Se andiamo a vedere la situazione in cui versano le linee ferroviare e le “grandi” strade sicialiane e calabresi potremmo percepire l’immane inutilità del Ponte sullo Stretto. Qui esistono ancora le linee mono-rotaia, ci sono galleria vecchie 50 anni, strade continuamente interotte per eterni lavori di ammodernamento, che, una volta ultimati risultano nuovamente obsoleti. Vogliono costruire un Ponte in mezzo al nulla! Vogliono distruggere habitat naturali millenari e sgombrare migliaia di cittadini senza possibilità di scelta in nome del più malefico dei profitti.


La società appaltatrice della ciclopica opera è la Imprese Eurolink S.C.p.a. il cui la maggioranza delle quote è detenuta dalla Impregilo S.p.a.. Ricordiamo che la Impregilo è il più grande gruppo di costruzioni italiano e il primo gruppo general contractor per le grandi opere in Italia. Nonchè ditta appaltatrice delle linee TAV, del passante di Mestre, della Salerno-Reggio Calabria, dello Smaltimento rifiuti in Campania e di opere minori quali l’ospedale San Salvatore della città de L’Aquila dichiarato per il 90% inagibile dopo l’ultimo sisma e costato nove volte tanto l’iniziale stima dei costi!


Voi tutti siete a conoscenza del disastro ambientale della linee TAV specie nella tratta Firenze-Roma dove è stato riconosciuto un danno inestimabile del patrimonio naturale italiano. Voi tutti ricordate gli scandali (ancora attuali con l’ultimo caso Cosentino) dello smaltimento dei rifiuti in campania tra discariche abusive e inceneritori della morte. Voi tutti, se almeno una volta siete stati in Calabria, avete potuto ammirare lo stato in cui versa dell’inizio (oltre 30 anni!) della sua costruzione l’autostrada A3, addirittura, per lunghi tratti ad una sola corsia per senso di marcia!!! Voi tutti avete potuto vedere gli ammalati portati via in fretta a furia, tra una scossa e l’altra, lo scorso Aprile dall’ospedale abruzzese costatato quanto nove ospedali di media grandezza.


La Impregilo è sotto processo per disastro ambientale anche oltre confine! Questi anzichè impastare cemento, solidificano rapporti con mafie e uomini di Stato in modo da spartirsi senza inimicarsi nessuno il ricco piatto.


Ora voi fareste uscire vostra figlia/o e vostra sorella/fratello con un uomo sotto processo per stupro e pedofilia? Credo di no! Voi richiamereste lo stesso elettricista che ha sbagliato l’impianto di casa vostra per avere un nuovo impianto elettrico? La risposta è ancora no! Eppure noi italiani stiamo silenziosamente consentendo che la Impregilo S.p.a. metta mano a un’opera tanto delicata quanto il Ponte sullo Stretto! E’ una realtà veramente paradossale! Abbiamo raggiunto vette mai immaginate, qui siamo nel pieno di un abuso di potere grande quanto tutta la nostra Italia. Eh si, perchè per quanto ne possano dire i signorotti seduti in Parlamento, questa Italia è ancora nostra e siamo noi, in Democrazia, a decidere cosa è meglio per il nostro paese!


Sono nati così Movimenti di protesta territoriali, etichettati come egoisti e retrogradi, populisti e anti-democratici, che hanno avuto la lucida follia di comprendere il grande inganno di queste sciagurate politiche volte ad arricchire i pochi eletti. In tutta la Penisola sono sorti movimenti spontanei a difesa dei più basilari diritti di ogni cittadino, dai No Tav ai No dal Molin passando per i No Ponte. Movimenti composti da gente comune stanca delle politiche arroganti degli uomini di governo. E forse qui che deve nascere una nuova Italia, dal basso, tra noi gente comune, siamo noi il cambiamento, siamo noi il futuro…


La verità è che questo ponte non serve a nessuno tranne a chi sulle sciagure altri costruisce le propria fortune…


Il 19 Dicembre ci sarà una grande manifestazione per fermare i cantieri del ponte organizzata dalla Rete No Ponte credo che più saremo e meglio sarà! Dobbiamo abbattere il muro che la politica e i cani dell’informazione hanno messo tra noi e il Ponte sullo Stretto di Messina. Se non lottiamo noi per i nostri diritti non lo farà nessuno al nostro posto…


Vi lascio con una frase di Pericle nel suo famoso Discorso alla città di Atene che racchiude in sè tutto il senso di una democrazia: Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile“.


link e fonti:

http://www.porto.messina.it

http://www.impregilo.it

http://it.wikipedia.org/wiki/Stretto_di_Messina_S.p.A.

http://www.retenoponte.it/

Ponte sullo stretto e vacche da mungere (edito terrelibere.org)

Grandi Opere di Marco Cedolin (Arianna editrice)


Fonte: http://www.oltrelacoltre.com/


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IL PONTE DELLA MAFIA

28 novembre 2009

DUBAI SCATENA IL PANICO: ESPLODONO I MERCATI CON UNA FUGA IN MASSA VERSO IL DOLLARO



I grandi speculatori finanziari internazionali (i “giocatori in borsa”) si disfacevano velocemente di azioni a “rischio” venerdì e – seguendo la tendenza di giovedì- si rifugiavano nel dollaro statunitense, temendo che una moratoria nel debito di Dubai scatenasse una nuova versione della crisi dei subprime negli USA.

Dubai, uno dei sette emirati, che integrano gli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni ha registrato un' esplosiva “bolla” finanziaria con la speculazione immobiliare, ha scosso giovedì e venerdì i mercati mondiali annunciando che la sua azienda costruttrice e portuaria più importante, Dubai World, non potrà pagare il suo debito di 60.000 milioni di dollari.

La notizia ha fatto cadere per effetto domino le borse mondiali, dall’ Asia, Europa e America Latina, e la “ondata di vendite” di azioni ha colpito i mercati delle divise e metalli che erano oggetto, fino a quel momento, di speculazione dato che il dollaro era in ribasso.

Le azioni di Wall Street, venerdì, hanno chiuso in negativo, dopo una sessione con un basso volume di affari, dopo che gli speculatori si disfacevano di varie azioni, incluse la Cartepillar, Bank of America e Alcoa, a causa dei timori di un possibile effetto domino della crisi a Dubai.

La borsa, venerdì, ha chiuso tre ore prima dopo che il mercato era rimasto chiuso giovedì per il Giorno del Ringraziamento.
Il Dow Jones Industrial Average è calato di 154 punti, cioè l’1,48% , a 10309,92 , dopo essere sceso prima a 10231.

Il crollo di venerdì è stato il più grande che si è verificato dal 30 ottobre scorsoe si verifica dopo che, mercoledì, l’indice aveva chiuso con il massimo raggiunto in 13 mesi.

Le borse asiatiche sono crollate venerdì a causa dell’onda d' urto causata dalla crisi del debito di Dubai, che ha debilitato le azioni delle banche e ha fatto lievitare lo yen ad un nuovo record in 14 anni contro il dollaro, nel momento in cui gli investitori si allontanavano da operazioni rischiose.

A Tokio, è crollato il Nikkei. A Seul, si è sfaldato il Kospi. A Shanghai, l’indice generale è precipitato. Il mercato borsistico di Hong Kong ha chiuso con un – 4,84%. La borsa dei Valori di Bangkok è ceduta di 5,36 punti. Le piazze finanziarie di Kuala Lampur e di Singapore sono rimaste chiuse per la festa del sacrificio dell'agnello. E l’indicatore di valori tecnologici Kosdaq è affondato di un 4,67%.

Le azioni europee continuavano con le perdite della sessione precedente all’apertura di venerdì, dovuto alle preoccupazioni sui problemi del debito a Dubai che continuavano a diminuire l’interesse degli speculatori per gli “attivi a rischio”-

Alle 08:06 GMT, l’indice FTS Eurofirst 300 dei principali valori europei perdeva un 1,4 % a 974.94 punti, dopo essere crollato di un 3,3% giovedì, la sua maggiore perdita in 7 mesi.

Le azioni delle megabanche statunitensi sono crollate venerdì. Citigroup è scesa di un 2,6%, la Bank of America un 3%, Goldman Sachs 2,8% e JPMorgan un 2%.

Tuttavia, il calo più marcato è stato osservato negli ADS delle banche europee. Lloyds è calato di 49 cts, o il 7,9%, a 5,71 dollari, la Royal Bank of Scotland di 55 cts, o il 4,6% a 11,48 dollari e HSBC Holdings di 3,61 dollari, o il 5,8% a 58.46 dollari.

Gli specialisti considerano che il collasso non è stato maggiore non perché giovedì la borsa di Wall Street era chiusa per la festa del Ringraziamento, ma perché in quella giornata-presagivano- di poter vivere un “venerdì nero” comparabile a quelli che si sono vissuti durante i fallimenti bancari dell’anno scorso.

L’effetto Dubai

Le conseguenze della crisi del debito di Dubai ha avuto delle ripercussioni, venerdì, in tutto il mondo, creando il timore di un’altra ondata di agitazione finanziaria e dimostrando quanto vulnerabile continua ad essere l’economia mondiale nonostante gli incipienti segni di recupero.

La crisi è cominciata mercoledì quando Dubai, parte degli Emirati Arabi (EAU), ha detto che avrebbe chiesto ai creditori della statale Dubai World e della sua controllata principale Nakheel (NAKHD:UL) di sospendere i pagamenti di miliardi di dollari di debito come un primo passo per una ristrutturazione.

Nakheel è l’immobiliare delle tre isole con forma di palme che hanno così tanto sedotto i famosi ed i magnati, e diventare una calamita per i mega gruppi speculatori del capitalismo finanziario che operano a livello globale.

I timori che il conglomerato statale Dubai World fosse inadempiente con il pagamento del debito hanno colpito giovedì e venerdì i mercati azionari in Asia, Europa e America Latina.

L'azienda, che ha una passività totale di 60.000 milioni di dollari, ha chiesto un rinvio di sei mesi per i suoi obblighi di debito, avendo problemi nelle loro filiali di investimento e immobili Nakheel e Istihmar World.

La scossa ha causato panico e vendite di azioni di banche, costruttori e aziende con interessi in Medio Oriente e molteplici speculazioni sulle identità finanziare che sarebbero state colpite in Europa.

Dopo e stato diffuso che un buon numero di potenti banche inglesi avevano fatto dei prestiti agli Emirati Arabi, che la propria borsa di Dubai è il principale azionista della Borsa di Londra (London Stock Exchange), in modo che le azioni di questa entità e della maggior parte delle banche europee sono state tagliate.

Le azioni, dall'Asia ai principali centri finanziari in Europa e in America Latina sono stati colpiti dal timore di esposizione degli istituti di credito alle imprese che hanno costruito Dubai nelle isole del Golfo Persico, hanno pianificato città dal Pakistan all' Africa e hanno disegnato il centro finanziario della più grande regione esportatrice di petrolio, in una nuova versione dell’ “economia di carta” la cui struttura finanziaria è appena esplosa.

Negli ultimi anni, Dubai si è sviluppata in gran modo con la speranza di essere la mecca del turismo mondiale ricco ed una metropoli cosmopolita in Medio Oriente.

Ma in questo processo le aziende coperte dallo stato hanno accumulato un debito di 80.000 milioni di dollari, motivo per il quale gli emirati, forse, avranno bisogno di un altro piano di riscatto dal loro vicino Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti.

“Questo è un importante promemoria che la crisi creditizia è dimenticata ma non sparita”, ha detto in un articolo Robert Rennie, stratega del Westpac Global Markets Group citato da Reuters.

Le banche asiatiche, come i suoi pari europei, si sono affrettate a prendere distanza da Dubai, un emirato desertico che è emerso dall’oscurità per investire in in istituti di credito a livello mondiale come quelli della Standard Chartered e che ha attirato assessori di fondi con la promessa di uno stile di vita “libero da tasse”.

Dubai World, il mega gruppo finanziario che è dietro la “veloce espansione” dell’emirato aveva passivi di 59.000 milioni di dollari fino ad agosto, la maggior parte del debito di Dubai che raggiunge gli 80.000 milioni.

La notizia ha messo in panico i mercati che già fantasticano con un remake del collasso della “bolla” immobiliare statunitense che ha fatto esplodere il sistema finanziario globale nel 2008.

“Il bottone del panico è stato schiacciato nuovamente”, ha detto Francis Lun, assessore generale del Fullbright Securities a Hong Kong, citato da Reuters.

Il crollo del debito di Dubai deriva da una “bolla immobiliare” (simile ai subprime negli USA) che è implosa dopo il fallimento di convertire le faraoniche costruzioni (costruite con crediti ad alti interessi) in un affare redditizio con il turismo ad alto livello per stranieri.

Il fallimento del progetto immobiliare per convertire il Dubai in un centro egemonico regionale di attività turistiche che sarebbero andate da una catena di hotel, a centri di spettacolo, attività ricreative ed operazioni di trasporto, hanno fatto esplodere finalmente la “bolla” e scatenato la crisi, i cui risultati non sono ancora chiari.

Fuga verso il dollaro

La realtà supera sempre la finzione: La crisi finanziaria a Dubai ed il suo impatto nei mercati finanziari ha dimostrato nuovamente (così come IAR lo sostiene da tempo e lo ha dimostrato nei suoi articoli) che il dollaro USA è il rifugio del capitalismo transnazionale (statale e privato) in epoche di cataclismi.

Dopo il collasso a Dubai, gli speculatori internazionali ad alto livello si sono rifugiati nel dollaro in Europa in mezzo ai timori che possono trasformare questo comportamento in generale tendenza a livello mondiale, secondo il Wall Street Journal.

A causa di questo, il dollaro ha guadagnato nelle operazioni europee di giovedì, dopo aver registrato significative cadute in Asia, dove ha raggiunto un minimo in 14 anni contro lo yen ed ha obbligato vari governi ad investire per frenare la sua caduta.

Giovedì a Londra, l’euro si collocava a 1,5071 dollari, dopo aver raggiunto un massimo di 1,5142 dollari durante la giornata di negoziazioni dell’ Asia. Il dollaro ha toccato i 86,73 yen, dopo che era sceso a 82,26, ad un livello non visto più da luglio del 1995. La libra sterlina si è collocata a 1,6541 dollari, dopo aver raggiunto un massimo di 1,6725 durante la giornata asiatica.

La notizia sull’apprezzamento della moneta statunitense ha colto di sorpresa gli speculatori che erano più ottimisti sulle prospettive di Dubai ed ha causato una fuga verso il sicuro rifugio del dollaro. La tendenza del passaggio delle azioni al dollaro, ha causato un crollo dei mercati borsistici europei giovedì e che si è ripetuto venerdì.

A livello nazionale, e anche se il Giappone è rimasto forte, altri hanno adottato misure aggressive per comprare dollari.

Per il Journal, le Filippine, Tailandia, Singapore e Corea del Sud sembrava vendessero le loro valute giovedì. La Banca Nazionale della Svizzera è intervenuta per vendere dollari verso la metà della sua sessione in Asia, anche se la banca centrale non ha voluto rilasciare commenti.

Se l’euro e lo yen continuano a rafforzarsi, per esempio, il costo delle esportazioni europee e asiatiche nei mercati internazionali aumenteranno.

Alcuni paesi che sono già intervenuti. Corea Del Sud, Taiwan, Filippine e Tailandia hanno fatto i loro passi per frenare l’aumento delle loro monete e cercare di mantenere la competizione delle loro esportazioni di fronte alla Cina, la cui moneta, lo yuan, è legata al valore del dollaro.

L'intervento sempre più definito dei governi di acquistare dollari e buoni del Tesoro, cerca di scatenare una nuova scalata nella quotazione della moneta statunitense che renderà più competitive le sue economie nel mercato delle esportazioni “dollarizzato”.

La crisi di Dubai e la corsa in massa verso la divisa statunitense aumentando la sua quotazione può rendere più facile il compito.

Fonte:
http://www.iarnoticias.com/2009/secciones/medio_oriente/0056_dubai_desata_panico_27nov09.html

Tradotto e segnalato per Voci Dalla Strada da
VANESA

NON TROVANDONE NEMMENO UNO, AL GORE AEROGRAFA URAGANI PER IL SUO NUOVO LIBRO

di Anthony Watts


Il nuovo libro di Al Gore ha un problema – nessun grande uragano dopo Katrina da mettere sul libro per farlo sembrare minaccioso agli Stati Uniti. Qualsiasi collegamento immaginato fra gli uragani e il riscaldamento globale è evaporato.

Soluzione: l’aerografia artistica.


Ryan Maue, esperto di uragani dell’università della Florida, scrive:


Anthony,

Non ci sono molti uragani qui.


La copertina si apre e chiude una metà sull’altra, così potete vedere solo un uragano…come nella foto del comunicato stampa o in quella su Amazon. Ma questa è la reale sequenza dell’immagine dal libro che ho guardato oggi da Borders e della quale ho fatto una foto col cellulare. L’originale (prima del ritocco di qualche “artista”).

Notare tutto il ghiaccio artico e la dimensione della penisola della Florida…

Ecco il prodotto finale:

Ora con 4 terribili uragani. Hey dov’è il ghiaccio?


Un ciclone nano dell’emisfero sud è al largo della Florida, un altro uragano è seduto sull’equatore al largo delle coste del Perù – e il ghiaccio artico è andato (forse è estate) e la penisola della Florida è andata per metà.

Ci sono altre differenze che sono sicuro troverete – ma gli uragani sono sciocchezze..
Ryan


Ecco la copertina del libro:

Sciocchezze? Non più dell’allarmismo, specialmente quando è stato dimostrato ancora una volta che non c’è alcun legame tra uragano e riscaldamento globale, e ci troviamo in un trentennio con una minima presenza di uragani.


Sig. Gore, lei è un ciarlatano.


Fonte: http://wattsupwiththat.com/2009/11/19/not-finding-any-gore-airbrushes-in-hurricanes-for-his-new-book/


Tradotto e segnalato per Voci Dalla Strada da Andreaatparma

27 novembre 2009

IL NUOVO MERCATO: IL CAPITALISMO CERCA DI RENDERE "REDDITIZIA" LA POVERTA'

di Manuel Freytas

Il sistema capitalista non solo porta la fame, la marginalità, la mancanza di protezione sociale, le privazioni e le malattie, a mille milioni di essere umani nel pianeta, ma adesso, in più, i suoi esperti stanno studiando il modo di riciclare quella massa maggioritaria di rifiuti umani e sociali che lascia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in nuovi mercati con “potenzialità di sviluppo” e apici di un guadagno assicurato.


Nei parametri funzionali del sistema capitalista (stabilito come “l’unica civilizzazione”) “
il surplus di popolazione” sono le masse espulse dal circuito del consumo come emerge dalla dinamica della concentrazione della ricchezza in poche mani.

Queste masse, che si moltiplicano nelle periferie dell’ Asia, Africa e America Latina, non soddisfano gli standard del consumo basico (sopravvivenza minima) che la struttura funzionale del sistema richiede per guadagnare e creare nuovi cicli di concentrazione di attivi aziendali e fortune personali.


Inoltre, queste masse espulse dal sistema del consumo, richiedono (per dare uno schermo “compassionevole” al sistema) di una struttura “assistenzialista” composta dall' ONU e le organizzazioni internazionali che rappresentano un peso ed un “passivo indesiderabile” nei bilanci dei governi ed aziende transnazionali su scala mondiale.

Fino ad ora i poveri hanno rappresentato solo un guadagno elettorale per i politici del sistema.


Attraverso le politiche assistenziali “clientelari” i politici ottengono un mercato vincolato alla povertà. Di fatto, il sistema capitalista vigente ha industrializzato il “mercato della povertà” come strategia per ottenere voti e contenere le rivolte sociali.


Parallelamente (il Libano, Iraq, Gaza, Afghanistan, Pakistan, Sudan, Somalia, e Sri Lanka, tra gli altri) si sono diventati
teatri sperimentali dello sterminio militare in massa del “surplus di popolazione” che operano sotto la copertura operativa della “guerra contro il terrorismo”.

Fuori dall’orbita dell’ “assistenzialismo” elettorale, o di una possibile “soluzione finale” maltusiana con lo sterminio militare, la povertà, la massa mondiale della “popolazione in eccesso”, non sembra avere un luogo nei piani del capitalismo.


Per l’ ONU, con “meno dell’ 1%” dei fondi economici che i governi capitalisti centrali hanno usato per salvare il sistema finanziario globale (banche e aziende che hanno scatenato la crisi economica), si potrebbe risolvere la calamità e la sofferenza di mille di milioni di persone ( più della metà della popolazione mondiale) che sono vittime della fame su scala mondiale.


E perché non si fa? Per un motivo di fondo: I poveri, gli abbandonati, il “surplus di popolazione”, non sono un “prodotto redditizio” per il sistema capitalista.


Tuttavia, ci sono pochi esperti del sistema capitalista, che
studiano e disegnano (anche se sembra una fantasia incredibile) progetti per riciclare la povertà (la massa della “popolazione in eccesso”) in un mercato frammentato, con basso costo d'investimento.

Riciclando il “surplus di popolazione”.


In un articolo intitolato “
Il miglior modo di vendere la base della piramide”, The Wall Street Journal in spagnolo segnala che “Intorno al mondo, quattro mila milioni di persone vivono in povertà. E le compagnie occidentali stanno lottando per convertirle in clienti”.

I visionari degli affari- continua- da più di un decennio argomentano che
queste persone, conosciute come la base della piramide, conformano un immenso e poco utilizzato mercato. Alcune delle maggiori e più astute aziende hanno voluto rispondere ai bisogni primari vendendo loro dall’ acqua pulita all' elettricità.

Tuttavia, ancora una volta, gli sforzi sono scomparsi senza lasciare traccia.
Perché? Perché queste compagnie avevano una visione completamente sbagliata, afferma nel suo articolo il giornale.

Per dirlo in modo semplice, aggiunge: la base della piramide non è, in realtà, un mercato.
È vero che quei miliardi di persone a basso reddito hanno molto in comune. E non hanno adattato i loro comportamenti e risorse economiche per dare spazio ai prodotti nelle loro vite. Un mercato di consumo è nient' altro che uno stile di vita costruito intorno ad un prodotto.

Usiamo come esempio un conosciuto caso, indica l’articolo del
Journal: Negli anni 70, l’acqua in bottiglia era un’idea strana per la maggior parte degli statunitensi. Non faceva parte dello stile di vita del consumatore di quel paese. Ci sono voluti decenni perché un gran numero di consumatori accettasse l’idea di comprare qualcosa che si può ottenere gratuitamente dal rubinetto, e convertire l’acqua imbottigliata in un grande affare.

La risposta? Si chiede.
Le compagnie devono creare mercati- nuovi stili di vita- per i consumatori poveri. Devono fare in modo che l’idea di pagare per i prodotti sembri naturale, devono indurre i consumatori ad incorporare quei beni alle loro abitudini. Questo significa lavorare da vicino con le comunità locali nello sviluppo di prodotti ed aziende, per rendere l'acquisto di questi prodotti attraente per i consumatori. Le compagnie, inoltre, devono adottare una prospettiva di marketing ampia per dare ai compratori il maggior numero di motivi possibile per provare i prodotti.

Come salvare l’inerzia alla base della piramide (leggasi povertà maggioritaria)? Si chiede l’autore dell’articolo.
La tipica strategia di cercare di convincere la gente con una campagna di informazione è spesso una lotta lunga e difficile.

Invece, segnala,
le aziende dovrebbero iniziare il coinvolgimento della comunità (di "surplus di popolazione") nel processo di creare, implementare e dare forma all'affare. La sensazione di proprietà che questo comporta aiuta ad assicurare che l’interesse nel prodotto della compagnia sia ampio e sostenuto.

La tesi (incredibile e da incubo),
pubblicata nel più influente portavoce giornalistico del sionismo finanziario di Wall Street, lancia una considerazione finale: per cercare di vendere alla base della piramide, le compagnie dovrebbero inviare messaggi positivi. Invece di dire che il prodotto sarà un sollievo per le loro pene, l' azienda deve enfatizzare come il prodotto farà in modo che le loro vite saranno più piacevoli.

Ma i progetti per riciclare la povertà in merce redditizia non è solo prerogativa delle corporazioni private e dei loro “think tanks”.


Un' “opportunità per gli affari”.


In un documento pubblicato nel 2007, intitolato
“I prossimi quattro miliardi: mercato e strategia di affari alla base della piramide”, l’istituto di Risorse Mondiali e la Corporazione Internazionale delle Finanze, il ramo del Gruppo Banca Mondiale, dedicata al settore privato, avverte che il segmento della popolazione del pianeta situata alla base della piramide economica (BOP, le sue sigle in inglese) , rappresenta un potenziale mercato di circa 5000 miliardi di dollari.

Per gli esperti della Banca Mondiale il settore privato sta disattendendo la grande opportunità per gli affari che rappresentano i 4 miliardi di poveri che ci sono nel mondo.

Si tratta del primo studio di questo tipo in base a dati ottenuti attraverso le inchieste realizzate nelle famiglie di circa 110 paesi.


L’obiettivo- per i suoi autori- è di aiutare le aziende a pensare più creativamente sulla possibilità di nuovi modelli di affari che coprano le necessità dei mercati disattesi (leggasi, la massa di povertà creata dallo stesso capitalismo) e allo stesso tempo contribuire con lo sviluppo di chi ha di meno (??).


Il documento della Banca Mondiale, si occupa della massa di uomini e donne dell’ Asia, Africa, Europa dell’ Est, America Latina e i Caraibi le cui entrate sono al di sotto della linea della povertà delle società occidentali, ma che sommati rappresentano un eccellente potenziale per gli affari.


La maggior parte di quelle persone- secondo quando dice il documento- vive con meno di quattro dollari giornalieri, non hanno accesso ai servizi primari, proprietà, conti correnti o servizi finanziari.


“Riuscire a far entrare la BOP nell’economia formale deve costituire un elemento critico per qualsiasi strategia che tende a generare ricchezza e crescita “dice il documento senza arrossire”.


In tal senso, suggerisce di prestare attenzione alle necessità non soddisfatte di questo mercato come passo essenziale per aumentare il benessere, la produttività e le entrate, aiutando così le famiglie a trovare una via d’uscita dalla povertà (??).


“Considerare i poveri, che sono anche produttori e distributori di un' enorme gamma di beni, non è un atto caritatevole, ma un’opportunità di fare affari”, segnala Luis Alberto Moreno, presidente della Banca Interamericana dello Sviluppo, dando il suo granello di sabbia alla tesi del riciclaggio redditizio della povertà.


Quasi la metà della popolazione del pianeta- per l' ONU- sopravvive in uno stato di povertà o al di sotto della soglia di sopravvivenza, senza soddisfare i loro bisogni alimentari primari.


Per quell’ organismo, nel mondo ci sono più di 1.000 milioni di persone che soffre la fame, la cifra più alta della storia, ed in tutto il pianeta ci sono 3.000 milioni di mal nutriti.


Tutto indica che la “grande sfida” per i think tanks del capitalismo europeo e statunitense, consiste nel riciclare questa massa maggioritaria di rifiuto umano e sociale che lascia lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a nuovi mercati con “potenzialità di sviluppo” e apici di guadagno assicurato.


La povertà è anch’essa redditizia, sembra essere il nuovo slogan implicito nelle proposte e progetti che gli esperti del sistema capitalista (che
genera povertà e "surplus di popolazione") che cominciano a sviluppare attraverso tesi e teorie che sembrano essere tolte da un manuale di psichiatria.

Demenza decadente o realtà?
Il capitalismo sionista prosegue la sua rotta.

Fonte:
http://www.iarnoticias.com/2009/secciones/contrainformacion/0080_pobreza_rentable_06nov09.html

Tradotto per Voci Dalla Strada da
VANESA

25 novembre 2009

ATTACCHI TERRORISTICI IN ARGENTINA '92 E '94: NON FURONO DI ORIGINE ISLAMICA

Adrian Salbuchi è stato intervistato dal Dr James H. Fetzer, fondatore di Scholars per l’ 11/9 Truth e conduttore del programma radiofonico statunitense “The Real Deal”. Il Dr. Fetzer ha dato lo scorso 11 settembre una magistrale conferenza a Buenos Aires alla Biblioteca Nazionale dell’ Argentina. E’ la seconda volta che l’investigatore nordamericano visita Buenos Aires per partecipare ad un evento commemorativo sui tragici eventi dell’ 11 settembre 2001.
James Fetzer:
Il mio invitato speciale di oggi è Adrian Salbuchi dell’Argentina, conduttore del programma radiofonico di Buenos Aires “Benvenuti nella Giungla” e fondatore del movimento per la Seconda Repubblica Argentina. Autore di vari libri su geopolitica che includono “Il Cervello del Mondo: La faccia occulta della globalizzazione” e “Benvenuti nella Giungla: Dominio e Sopravvivenza nel Nuovo Ordine Mondiale”. Oggi parleremo degli ipotetici attentati terroristici a Buenos Aires nel 1992 e nel 1994. Benvenuto, Adrian a “The Real Deal”.

Adrian Salbuchi:
Grazie mille, Jim. Buona sera a tutti e grazie per avermi invitato al tuo programma.

James Fetzer:
Per orientare i nostri ascoltatori. Perché non inizia a darci una breve descrizione degli attacchi mortali che hanno avuto luogo nel centro della città di Buenos Aires, uno all’ambasciata di Israele nel 1992, e l’altro nella sede della mutua ebrea dell’ Amia, nel 1994?

Adrian Salbuchi:
Quelli sono stati i peggiori attacchi terroristici con bombe che la Repubblica dell’Argentina ha sofferto, e hanno avuto come bersagli due edifici precisi situati nel centro di Buenos Aires. Il primo ha avuto luogo a marzo del 1992 e ha demolito completamente la sede dell’ Ambasciata d’ Israele, uccidendo 29 persone. Il secondo attentato ha fatto collassare in modo simile la sede dell’ Amia a luglio del 1994, lasciando 84 morti.

23 novembre 2009

"LULA HA IMPEDITO CHE LA CRISI LA PAGHINO I POVERI!"


Intervista a Emir Sader, segretario generale del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali

Le analisi del segretario esecutivo del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali (Clacso) sono ormai diventate una lettura obbligata per avvicinarsi ai mutamenti che si stanno verificando nel continente. Brasiliano (1943) di origine libanese, Sader ha appena terminato una visita in Spagna per presentare il suo nuovo saggio politico: “El nuevo topo” (La nuova talpa)


Il Brasile ha assunto la leadership regionale. Esiste il consenso necessario per esercitarla?

Credo che quella leadershipsi sia consolidata proprio nel suo esercizio. Secondo la mia opinione, questo ruolo gli è arrivato quasi senza averlo pianificato e come conseguenza di una politica interna ed estera molto corretta.

C’è chi considera Hugo Chavez il rivale di Lula. Come sono i rapporti fra di loro?

Sono ottimi. Vi è molta reciprocità e fiducia fra i rispettivi paesi, e rispettando le diversità di modelli. Hanno le stesse priorità, cioè l’integrazione regionale al posto dei trattati di libero commercio (TLC) e lo sviluppo di una politica sociale al posto di riforme fiscali. Tanto Lula che Chavez si fanno forti di queste politiche. Sono entrambi coscienti che se si scontrano finiscono col perdere tutti e due.

Quali sono le differenze fra il modello venezuelano quello brasiliano?

Chavez ha ben chiaro che il nemico è l’imperialismo statunitense. Lula, in cambio, tratta gli USA come se fossero i cugini ricchi. Non è un tipo radicale. La sua posizione è ampliare gli spazi di potere internazionale già esistenti, come il G-20, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ecc.
Chavez è più partigiano e cerca proprie alternative in cui forgiare un altro mondo possibile.

Lula rappresenta la sinistra latinoamericana buona, come dicono negli USA e in Europa?

La demarcazione in America Latina non è tra sinistra buona e sinistra cattiva. Chi vuole questa classificazione è la destra. La divisione è tra chi lavora per una politica d’integrazione e chi lo fa per i TLC. Nel primo gruppo vi sono paesi che vogliono avanzare rapidamente, come nel caso del Venezuela.

Lula è rispettato da destra e sinistra.

Verso Lula c’è una condiscendenza che non corrisponde alla realtà di un paese con le maggiori disuguaglianze del continente in termini di ricchezza.

Qual è l’opera di Lula?

Anzitutto è il primo presidente che è riuscito a diminuire la disuguaglianza in Brasile. Ha rafforzato la fiducia nell’identità dei brasiliani. La sua politica nella crisi è stata corretta Ha aumentato il microcredito, mantenuto i salari al di sopra dell’inflazione, incentivato l’occupazione ufficiale, diversificato il commercio internazionale e potenziato quello interregionale. Altri paesi hanno fatto il contrario e ne stanno patendo le conseguenze.
Come capita al Messico, che secondo me si è suicidato. Con il TLC, il 90% del suo commercio estero è con gli USA. Ciò ha prodotto una diminuzione del 7% del PIL solo nel primo semestre dell’anno in corso, ed è stato colpito duramente dal Fondo Monetario (FMI), mentre il Brasile presta denaro a quello stesso organismo. I paesi del TLC sono quelli che si muovono peggio in questa crisi globale. Ma ciò che mi preoccupa è il Messico, l’unica frontiera tra il Primo e il Terzo mondo.

La situazione è così grave?

E’ il corridoio naturale verso il primo mercato consumatore del mondo. Ciò si combina con una gestione di corruzione gravissima dei governi del PRI e la violenza tremenda che stanno esercitando le forze di sicurezza dello Stato. Il Messico vive una situazione quasi incontrollabile di decomposizione sociale.

Lula ha ricomposto la base sociale brasiliana?

Lula ha evitato, per la prima volta, che la crisi fosse pagata dai poveri. E gli è riuscito bene. Ha ottenuto una popolarità stratosferica, quasi del 80%, nonostante la stampa sia contro di lui.

Perché non ha cercato di cambiare la Costituzione per puntare alla rielezione?

Perché Lula avanza in ambiti dove incontra poca resistenza. Questa è la sua strategia. Non vuole buttare all’aria le strutture di potere esistenti, vuole solo democratizzarle. La sua rielezione provocherebbe uno scontro con i poteri mediatici in Brasile. La sua candidata, Dilma Roussef, non ha il suo carisma.

La sconfitta in Brasile potrebbe frenare il cambiamento politico in America Latina?

In gioco vi è il consolidamento di una trasformazione continentale post-neoliberale. La mia impressione è che Roussef vincerà grazie all’appoggio di Lula, che con il suoi argomenti disarma l’opposizione. Alla destra manca un progetto proprio per l’America Latina, ma ha il potere di veto per via della sua egemonia nel capitale finanziario e per il controllo dei media. Questa stampa privata è davvero sinonimo di stampa libera? Si tratta di una questione chiave per lo sviluppo regionale.

Fonte: www.liberation.fr

Traduzione per www.resistenze.org a cura di F.R. del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

IL RUOLO CHE GLI USA HANNO DATO ALLE LORO BASI IN COLOMBIA

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di Romulo Pardo Silva


I documenti del Pentagono sono stati nascosti per diffondere solo qualche reazione. Chavez parla di guerra, il Brasile propone un monitoraggio internazionale delle frontiere, che Uribe si comprometta nel limitare in Colombia la Forza Aerea nordamericana……sono distrazioni intenzionali sul problema. Gli obiettivi che seguono gli USA in Colombia consistono in una “Strategia sud americana. Libro Bianco, Commando di Mobilità Aerea (AMC)”….che è stata pubblicata nella pagina ufficiale del Comando Sud, e in un documento che il Dipartimento della Forza Aerea ha inviato al Congresso statunitense (1). Non ci possono essere dubbi su questo.


In questo rapporto della Forza Aerea Degli Stati Uniti si afferma: La base militare in Colombia “garantisce l’opportunità di condurre operazioni…in tutta l’America del Sud”. Palanquero “ci dà un' opportunità unica per le operazioni di spettro completo in una sub-regione critica del nostro emisfero, dove la sicurezza e la stabilità sono sotto la costante minaccia di insurrezioni….(e) i governi anti-americani…”- “La sua collocazione centrale è nella portata delle aree di operatività…nella regione…L’intenzione è...migliorare la capacità degli Stati Uniti di rispondere rapidamente ad una crisi ed assicurare l’accesso regionale e la presenza statunitense…Palanquero aiuta con la missione di mobilità perché garantisce l’accesso a tutto il continente del Sud America con eccezione di Cabo de Hornos…” “…aumenterà anche la nostra capacità di condurre operazioni d’ intelligence, spionaggio e riconoscimento…e aumenterà le nostre capacità di realizzare una guerra veloce”. Questi obiettivi regionali si inquadrano nella strategia dell’Impero globale. “Il Segretario della Difesa (Donald Rumsfeld) postulò allora (2002) che gli Stati Uniti dovrebbero sostenere il loro processo di trasformazione militare a partire dalla premessa che le guerra del XXI secolo avrebbe richiesto un incremento nelle operazioni economiche, diplomatiche, finanziarie, della polizia e dell’intelligence, allo stesso modo che nelle operazioni militari palesi e segrete;…la formazione di alleanze dove la missione da fare deve essere quella che in fin dei conti determini la formazione della stessa; lo sviluppo di azioni preventive, portando la guerra fino dove si trovi il nemico; portare alla percezione del nemico che gli Stati Uniti sono disposti ad usare qualsiasi mezzo o fine per sconfiggerlo...; l’importanza che giocano le operazioni via terra e l’aumento delle campagne aeree; e finalmente, informare il paese su quello che gli USA fanno”. (2)


Seguendo questa politica informata, gli Stati Uniti realizzano le loro operazioni di spettro completo in Sud America. L’installazione di sette basi militari in Colombia; la negoziazione di basi in Panamà; la campagna di diffamazione contro il presidente Chavez; l’appoggio diplomatico, economico, militare, mediatico dei “golpisti” del Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Honduras, il finanziamento ai partiti oppositori nei paesi dell’ ALBA; il blocco o intento di destabilizzazione di Cuba; la partecipazione in colpi di Stato per biancheggiare dopo elezioni manipolate,
come previsto in Venezuela nel golpe del 2002 e come si sta preparando adesso in Honduras; l’infiltrazione di paramilitari colombiani in Venezuela; l’alleanza con politici narcoparamilitari… Questa finalità evidente è denunciata con forza da determinati governi latino americani. Il presidente Chavez è molto chiaro. Le basi rappresentano una minaccia per tutta la regione e direttamente per il Venezuela. “Quelle sono basi dell’intelligence, in primo luogo di spionaggio, dalle quali si pianificheranno invasioni, bombardamenti, si pianificheranno atti di guerra sotto il nostro naso, loro pianificheranno qui, accanto, come bombardare Caracas, come lanciare le loro bombe su punti nevralgici venezuelani, sulle raffinerie, sulle linee di trasmissione elettriche (….) sulla diga del Guri, sui posti di comando della Forza Armata, loro pianificheranno il modo con il quale aspireranno a neutralizzare i nostri aerei da combattimento”, ha avvertito chiamando militari e civili a prepararsi ad una guerra.

Il presidente Evo Morales rifiuta le basi dell’ Impero in Colombia perché dice che sono per controllare, far cadere i governi democratici e saccheggiare le risorse naturali dell' America Latina. In Bolivia le riserve per altri 150 anni di gas, di ferro per altri 85 anni e forse il litio. Di fronte al pericolo Morales ha ordinato di comprare armi in Russia.
Il presidente Daniel Ortega del Nicaragua sostiene che le basi sono enclavi di guerra che minacciano tutti i popoli del continente. Ha ricordato che la nordamericana in Palmerola, Honduras, è servita per fare la guerra al Nicaragua negli anni '80, la base che hanno usato per il sequestro del presidente Zelaya. Fidel Castro scrive che l’ accordo firmato da Uribe equivale ad annettere la Colombia agli Stati Uniti, che è una minaccia per i paesi del Centro e del Sud America e intende inviare i colombiani a lottare contro i loro fratelli boliviani e dell’ ALBA. L’Ecuador ed il Brasile invece non considerano i documenti ufficiali nordamericani. Il Parlamento dell’ Ecuador rifiuta le basi e chiede agli Stati Uniti la garanzia di non usare le sue forze contro altre nazioni della regione. Il suo ministro della Difesa, titolare del Consiglio della Difesa di Unasur, vuole che questo organismo insista nella richiesta di un summit con Obama perché spieghi la presenza del suo esercito nelle sette basi. Il presidente del Brasile chiede la garanzia che le operazioni della base sono per tutelare solo i problemi interni della Colombia. Altri governi regionali preferiscono fare silenzio. Le persone che controllano il potere negli USA sanno che la crisi strutturale del capitalismo significherà la caduta totale dell’ordine attuale e si prepara per controllare a suo favore le risorse della Terra. Le sette basi hanno questo obiettivo. Ma la storia non si ferma e ci sono governi e popoli disposti ad opporsi, come lo fanno oggi fuori dalla regione, gli iracheni, afgani, pakistani, palestinesi, iraniani, per costruire un altro mondo.

NOTE
(1)
Programma di Costruzione Militare. Anno Fiscale 2010. Finanziaria. Dati di Giustificazione consegnati al Congresso. Maggio 2009. Vedere Eva Golinger.

http://www.centrodealerta.org/documentos_desclasificados/traduccion_del_documento_de.pdf

(2)
Vedere Alejandro Torres Rivera http://www.rebelion.org/noticia.php?id=95210


Fonte:
http://www.visionesalternativas.com/index.php?option=com_content&task=view&id=45685&Itemid=1

Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di Vanesa

22 novembre 2009

IL NUOVO COLONIALISMO: RUBARE TERRE AI PAESI POVERI


Neo-colonialismi crescono...


di Andrea Intonti

Si scrive Global Land Grab, si legge colonialismo. È questo, oggi, il nuovo modo con cui i paesi del c.d. Primo Mondo si assicurano la definizione di paesi ricchi.

Rubando milioni di ettari di terre coltivabili a paesi come Etiopia, Sudan, Cambogia, Filippine per continuare a far parte dell'esclusivo club dei “grandi”. In realtà non si può parlare di un vero e proprio ladrocionio, in quanto le terre vengono spostate da un paese all'altro con atto di vendita. Esattamente come si usava fare per gli schiavi nell''800.

Funziona così: un paese considerato ricco, con terre limitate (ad esempio la Cina) in cerca di sicurezza alimentare si rivolge a qualche paese con grandi possibilità terriere – e scarso grado di ricchezza – come molti paesi africani, in cambio di investimenti del paese acquirente in forza lavoro e tecnologie in loco. O almeno così dovrebbe essere. Perché il trucco c'è. Ed è molto evidente. Hedge funds, private equity groups ed altri tipi di speculazione sono le modalità con cui queste terre vengono pagate. Con questo procedimento già 40 milioni di ettari – di cui la metà in Africa – hanno cambiato proprietario o sono lì lì per farlo. In tutto ciò, però, un miliardo e 400 milioni di persone sono tagliate fuori: sono i piccoli produttori, i contadini e coloro che a quelle terre sono legati. Ma si sa che i grandi speculatori – come le banche, i governi dei paesi ricchi, le multinazionali – di questo se ne fregano.

È più o meno questo ciò che organizzazioni come La Via Campesiña e Grain hanno denunciato davanti alla Fao riunita per decidere le prossime mosse per l'abbattimento dell'insicurezza alimentare.

Già, la Fao. Uno dei tanti carrozzoni internazionali utili solo a dare da mangiare a politici collusi con grandi potentati e lobbies varie. Insomma: il solito organismo sovranazionale completamente inutile, se non addirittura nocivo. Basta guardare al vertice tenutosi nei giorni scorsi a Roma in cui mancavano praticamente tutti i “grandi” (Stati Uniti del “salvatore della patria” Obama e Gran Bretagna su tutti...). C'erano, invece, molti leaders di paesi in via di sviluppo. Il presidente del Brasile Inácio Lula e quello libico Gheddafi sembrano averla fatta da padroni. Più che un vertice Fao somigliava più ad un contro-vertice altermondista insomma, almeno stando ai partecipanti.

44 miliardi di dollari e 2025. Erano questi i due punti fondamentali del vertice. 44 miliardi di dollari sono gli stanziamenti chiesti per l'eliminazione della fame nel mondo, 2025 la data in cui il mondo dovrà considerarla solo un problema del passato. O forse sarebbe meglio parlare di stanziamenti che il mondo “avrebbe dovuto” dare considerando il 2025 come la data in cui il mondo “avrebbe dovuto” considerare la fame solo un flebile ricordo. Perché come è consuetudine delle grandi convention sovranazionali si tratta solo di fiumi di parole e nulla più. Per usare le parole di Giorgio Gaber, in questi contesti “tutto resta come prima, e chi se ne frega!”

È evidente l'incapacità – vera o indotta – di questi grandi eventi, che altro non sono che specchietti per le allodole per chi crede ancora che le sorti del mondo si decidano nelle grandi convention sovranazionali. Anche perché oggi il risiko mondiale non si gioca più in questi grandi meeting ma nei consigli d'amministrazione delle grandi multinazionali (come la Monsa nto e la Cargill, tanto per rimanere in ambito alimentare) o in quei grandi e controversi carrozzoni sovranazionali il cui scopo è esclusivamente quello di proteggere gli interessi dei paesi ricchi come la Banca Mondiale o il WTO, che negli ultimi anni hanno permesso questa nuova forma di schiavismo terriero.

Se Gheddafi e Lula sono stati i protagonisti del vertice non risparmiando parole feroci verso gli assenti – in particolare il leader libico, che come un novello Giano mostra la faccia cattiva verso i potenti in questi casi e quella buona quando quegli stessi potenti firmano assegni pluri-miliardiari con il suo paese – le parole più infuocate, e forse disperate, sono venute dal presidente del Mali Amadou Toumani Touré, il quale ha chiesto che il Nord del mondo non faccia più promesse per poi far tornare i leader del Sud a casa con un pugno di mosche in mano.

C'è stato anche il tempo per un siparietto alquanto comico, sviluppatosi nel momento in cui a parlare era il Premier dello Stato Vaticano Joseph Ratzinger, per cui “non è più possibile accettare opulenza e spreco, quando il dramma della fame assume dimensioni sempre maggiori”, che detto da uno che va in giro con scarpe “made in Prada” e tutto tempestato d'oro e gioielli non so se faccia venir più voglia di mettersi a ridere o di tirargli una scarpa come Muntazer al-Zaidi fece con Bush.

Se il Sud del mondo non vive una situazione felice, il Nord non può certo permettersi di ridere, visto che la crisi alimentare – e quindi la malnutrizione e la denutrizione – colpiscono anche il 15% della popolazione dei paesi del Primo mondo, ma ovviamente in noi “ricchi” una crisi simile ha un'impronta psicologica sicuramente inferiore rispetto ai nostri fratelli del Sud del mondo.

In una situazione del genere però non ci siamo arrivati dalla sera alla mattina e tantomeno la colpa è da attribuirsi a “crisi congiunturali” o chissà quali altre diavolerie. Perché come tutte le crisi mondiali, non ultima quella economica nata dai sub-prime americani, si possono individuare i colpevoli facendone nomi e cognomi: ci sono le grandi multinazionali agricole – come Cargill e Monsanto che dal momento dello scoppio della crisi hanno visto aumentare i loro profitti rispettivamente del 45% e del 60% - ci sono i grandi potentati sovranazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il WTO, nati con il solo scopo di portare avanti quel liberismo sfrenato di tatcheriana memoria utile solo ai paesi ricchi per continuare a fagocitare il resto del pianeta (e non solo in senso metaforico...); ci sono i governi nazionali che non hanno alcun interesse, almeno quelli dei paesi ricchi, a favorire l'operato dei contadini.

E poi c'è l'opinione pubblica. La cosiddetta società civile, che molto spesso ha parlato con voce debole quando è stata interpellata in materia (cosa che già viene fatta molto di rado). Perché la società civile si è fatta diseducare dall'opulenza consumistica dell'avere sempre tutto, purché fosse inutile. Così c'è stata la corsa agli alimenti “esotici”, che per arrivare dal Sud America all'Europa, ad esempio, impiegano petrolio che quindi vede il proprio prezzo incrementare, ma se aumenta il prezzo del petrolio allora aumenta il prezzo dei carburanti con cui permettiamo alle nostre automobili di circolare. Ecco: le automobili. Eccolo un altro dei colpevoli della crisi alimentare!

Più che “le automobili” in senso generico sarebbe meglio dire che il colpevole è tutto quell'indotto che sta nascendo intorno ai biocarburanti, che vengono prodotti – almeno nella fase iniziale – in quegli stessi campi dove crescono gli alimenti che troviamo sul banco del supermercato. Continuando così avremo la possibilità di fare il pieno (di etanolo, ovviamente) alle nostre auto ma non sapremo come andarci perché staremo tutti morendo di fame, visto che non ci saranno più terre coltivate per l'alimentazione!

Ed è qui che entra in gioco – di nuovo – la società civile. Che ha il compito di indignarsi, ha il dovere di fermare lo strapotere dei potentati multi- e sovranazionali dell'agricoltura. Come? Innanzitutto “educandosi”. Iniziando a prendere coscienza che ci sono delle accortezze che ogni persona può fare per dare il suo contributo all'eliminazione (o, quanto meno, alla diminuzione) della crisi alimentare. Innanzitutto iniziando a mutare le abitudini di acquisto – una delle azioni politiche più “devastanti” che possano esserci – tramite un consumo più critico e sostenibile, e questo non solo in ambito alimentare. La prossima volta che andate al supermercato e mettete qualcosa nel carrello, dopo esservi posti la domanda se quel che state acquistando è veramente utile, chiedetevi quanti passaggi quell'alimento – o comunque quel che state comprando - ha fatto dal produttore al supermercato. Se il numero che vi viene fuori è maggiore di uno rimettete tutto al proprio posto ed andatelo a comprare direttamente da chi l'ha prodotto. Si chiama filiera corta, ed oltre a costarvi sicuramente di meno, avrete la possibilità di controllare come quel che vi arriva in tavola viene prodotto, che in un tempo in cui la maggior parte delle epidemie – come l'influenza suina, la sars o il virus della mucca pazza – derivano dalla poca attenzione che la grande distribuzione (cioè i grandi nomi del settore alimentare che fanno capo più o meno tutti alle grandi multinazionali) pone nella produzione alimentare, credo sia un aspetto da non prendere poi così sotto gamba, no? In questo modo, inoltre, farete guadagnare anche qualcosina in più al contadino, che la reinvestirà per darvi un prodotto migliore quando tornerete da lui (invece le imprese della grande distribuzione ripartiscono l'extra-gettito – cioè quel che guadagano in più di quel che avevano preventivato di guadagnare – in pubblicità o in aumenti di stipendio per gli amministratori).

Tanto per non andare troppo lontano, pensate che nel nostro paese un contadino vende il grano che produce a 13 centesimi alla rete della grande distribuzione, che poi ci fa pagare circa 3 euro al chilo il pane che acquistiamo. Però al contadino vanno sempre i soliti 13 centesimi! Oppure le olive con cui viene prodotto l'olio extravergine: al contadino vengono pagate intorno ai 20 centesimi al chilo, ma l'olio al supermercato può arrivare a costare anche sui 5 euro (e il contadino sempre 20 centesimi si prende)! Vi sembra normale una cosa simile?

Se iniziassimo tutti a chiederci come viene redistribuito il prezzo che paghiamo quando facciamo la spesa, ci accorgeremmo che la maggior parte si perde nei vari passaggi dalla produzione alla distribuzione. Se invece eliminassimo tutti quei passaggi inutili avremmo sicuramente un maggior guadagno sia in meri termini monetari, perché spenderemmo di meno, sia in termini “psicologici” perché sapremmo esattamente da dove viene quel che mettiamo in bocca, come viene fatto ecc. E questo, oltre alla filiera corta, è quel che sta alla base del commercio equo-solidale, che permette ai produttori dei paesi poveri o in via di sviluppo di poter migliorare la propria condizione vendendo i loro prodotti ai paesi ricchi e guadagnando quasi dalla totalità del venduto (cosa che dovrebbe far felici anche i leghisti, visto che è un modo per aiutare “gli extracomunitari che invadono, violentano e rubano” a casa loro...).

Per battere la fame non c'è bisogno di grandi operazioni: basta affamare gli affamatori togliendogli il potere che questo modello socio-economico gli sta dando. Per farlo non servono “rivoluzioni” o grandi operazioni di massa. Basta fare la spesa. In maniera critica e consapevole.

Fonte: http://www.reportonline.it/

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