5 febbraio 2018

Le notizie sull'Economia: parliamone...

E’ comune tra le persone ben istruite lamentarsi dell’ignoranza del pubblico riguardo a temi economici fondamentali. Le persone sopravvalutano grossolanamente la quota del bilancio che va ad aree come gli aiuti all’estero e il welfare. Hanno una scarsa idea di come gli Stati Uniti si confrontino con altri paesi mediante misure fondamentali di welfare quali il reddito, l’aspettativa di vita o il tempo libero. E credono a idee strane riguardo al commercio e all’occupazione.
Anche se ci sono motivi reali per lamentarsi – la maggior parte del pubblico è largamente ignorante dei fatti economici fondamentali – i molto istruiti che si lamentano potrebbero dedicare più tempo a concentrarsi sui loro pari nei media e meno sulle masse. La maggior parte delle persone non ha tempo per leggere a fondo manuali o articoli di riviste di economia o per immergersi in dati governativi. 
I giornalistici, o almeno quelli che lavorano per canali giornalistici d’élite come il The New York Times, The Washington Post o la National Public Radio, dovrebbero avere il tempo e la cultura per fare esattamente questo.

E’ loro responsabilità presentare le notizie sull’economia in modi che informino il loro pubblico e attirino l’attenzione sugli sviluppi più importanti che probabilmente influenzeranno le loro vite nel presente o nel prevedibile futuro. Nella misura in cui il pubblico è male informato sull’economia gran parte del biasimo va ai giornalisti e agli redattori che curano i temi che saranno trattati e come saranno trattati.
Mi occuperò di quattro aree nelle quali sosterrò che il giornalismo ha largamente deluso il pubblico.
  1. Mettere le cifre in contesto. L’economia invariabilmente comporta riferimenti a grandi numeri che sono ben oltre la comprensione. Far riferimento a somme di milioni, miliardi o trilioni non è davvero fornire informazione. Se i giornalisti sono davvero interessati a educare il proprio pubblico, tali cifre devono essere espresse in un modo che sia significativo per la maggior parte delle persone che li vedono o ne sentono parlare.
  2. Le fonti utilizzate nei testi. C’è una tendenza ad affidarsi ai soliti sospetti per articoli giornalistici: lo stesso gruppo di esperti che dicono tutti la stessa cosa. Questo ha l’effetto di trasmettere erroneamente un’unanimità tra gli economisti che può non esistere e di privare il pubblico di punti di vista importanti.
  3. Presupporre che le fonti siano credibili. Questa è largamente una rimostranza riguardante i politici o portavoce di gruppi d’interesse. Queste persone hanno motivi per affermare cose, che credano o no essere vere. I giornalisti dovrebbero limitarsi a riferire ciò che le persone dicono o fanno, non raccontarci in che cosa credono.
  4. La scelta dei temi trattati. I comportamenti quotidiani del mercato azionario sono presentati su ogni giornale e programma giornalistico televisivo. Da un punto di vista pratico il mercato azionario non è così importante per la maggior parte delle persone. Solo circa metà della popolazione possiede una qualche azione (compresi fondi mutui in conti pensionistici) e solo un quarto ne detiene in misura considerevole. Questo è un argomento, come i deficit di bilancio, che occupa molto spazio giornalistico in più rispetto a quanto giustificherebbe la sua importanza per la vita delle persone.
Nell’elencare queste aree dovrei segnalare che c’è una grande varietà tra i giornalisti. Alcuni fanno un ottimo lavoro nel presentare notizie in modi che siano informativi, mentre altri si limitano a citarlo, facendo la stessa cosa mese dopo mese e anno dopo anno. I miei commenti andrebbero interpretati come critica della prassi comune. Certamente non sono intesi come denuncia di tutte le persone coinvolte nel riferire su temi economici, molte delle quali so che lavorano duro e sono impegnate.
Cifre in contesto
Non c’è forse nessun’altra area del giornalismo economico che io trovi più frustrante della mancata presentazione da parte dei giornalisti delle cifre in un contesto che sia comprensibile al loro pubblico. Lo dico perché non è davvero un punto discutibile. Quando un servizio giornalistico afferma che “il governo federale spenderà 180 miliardi di dollari per i trasporti nei prossimi sei anni”, avrebbe potuto altrettanto bene dire “il governo federale spenderà una CIFRA DAVVERO GROSSA per i trasporti nei prossimi sei anni”.
Il pubblico dei canali giornalistici d’élite è molto istruito, ma in pratica pochissimi lettori del The New York Times o ascoltatori della National Public Radio hanno un’idea di quale rilievo abbiano 180 miliardi di dollari per il governo federale nei prossimi sei anni. Passano le loro giornate a lavorare e il loro tempo libero è dedicato alla famiglia o a occuparsi di altre responsabilità. Non leggono documenti dell’Ufficio del Bilancio del Congresso o dell’Ufficio dell’Amministrazione e Bilancio. D’altro canto, se questi canali riferissero che si tratterebbe dello 0,8 per cento della spesa totale o di 100 dollari a persona l’anno, ciò fornirebbe un’informazione significativa sulla portata del bilancio dei trasporti.
Questo problema del porre i numeri in contesto si presenta in una gran varietà di modi ma è particolarmente importante per la visione della gente di programmi contro la povertà sia all’interno sia internazionalmente. Se le persone sentono che stiamo spendendo 20 miliardi di dollari l’anno per l’Assistenza Temporanea a Famiglie Bisognose (TANF) o per aiuti all’estero (grosso modo quanto stiamo effettivamente spendendo) probabilmente penseranno che stiamo spendendo una gran quantità di denaro in queste aree. Dopotutto quasi nessuno vedrà mai 20 miliardi di dollari in vita sua. In realtà pochissimi vedranno neanche 20 milioni di dollari in vita loro. Quando le persone sentono queste cifra, tendono a considerarle somme enormi, cosa che naturalmente sono.
Ma relativamente al bilancio federale non sono particolarmente vaste. Venti miliardi di dollari sono meno dello 0,5 per cento della spesa federale. Anche se tale confronto non significa che la somma è futile o che non dovrebbe preoccuparci se va sprecata, significa in realtà che non vedremo una differenza qualitativa del quadro del bilancio o dei nostri doveri fiscali se tali indirizzi di spesa fossero tagliati drasticamente o persino eliminati del tutto.
Sondaggi hanno costantemente mostrato che il pubblico sopravvaluta enormemente la quantità di denaro che va al TANF e ad altri programmi contro la povertà e di aiuti all’estero. La persona tipica ritiene che quasi il 30 per cento del bilancio vada a tale area. Questo conduce alla bizzarra situazione nella quale molti vorrebbero vedere drasticamente ridotta la spesa in aree come gli aiuti all’estero, suggerendo contemporaneamente che spendiamo dieci volte la quota del bilancio che effettivamente oggi spendiamo.
Riconosco che alcune delle idee sugli aiuti all’estero, il TANF e altre spese per persone a basso reddito sono mosse da razzismo. Molti vogliono credere che tutti i dollari delle loro tasse stiano andando a gente dalla pelle scura che non li merita. Queste persone non permetteranno che i fatti interferiscano con le loro convinzioni. Tuttavia ci sono altri che non hanno queste idee e tuttavia sovrastimano enormemente la quota del bilancio che va a queste aree.
In pratica è davvero sorprendente che questi programmi godano del sostegno che ricevono, considerata l’enorme ignoranza della loro rilevanza per il bilancio federale. Dopotutto se davvero stessimo spendendo il 30 per cento del bilancio federale per programmi contro la povertà e continuassimo ad avere il 13 per cento della popolazione, compreso più del 20 per cento dei nostri bambini, che vivono in povertà, sarebbe ragionevole chiedere se questo denaro sia speso bene.
Questa è un’area nella quale non ho mai ricevuto argomenti dai giornalisti. Nessuno ha mai tentato di affermare che i suoi lettori o ascoltatori avesse una qualche idea di che cosa significasse quanto riferiva di qualche grande spesa nel corso di numerosi anni. (Spesso il numero degli anni non è neppure fornito). Che senso ha scrivere o pronunciare un numero che non ha alcun significato per il pubblico? Mi sono spesso riferito a questo come a un rituale di confraternita. Un giornalista butta giù qualche grande numero che non ha alcun significato quasi per nessuno, ma ha affatto il suo lavoro.
Ho pensato di aver avuto una grossa vittoria su questo tema alcuni anni fa, quando Margaret Sullivan, che era allora la garante dei lettori presso il The New York Times, scrisse un articolo molto bello essenzialmente esponendo l’argomento che ho appena fornito [1]. Aveva addirittura arruolato il sostegno entusiasta di David Leonhardt, che all’epoca era il redattore da Washington del giornale. Leonhardt addirittura mi ha rubato il titolo al riguardo scrivendo proprio un “Numero davvero grande”. (E’ più che benvenuto al riguardo se è una base per interventi). E’ stata una cosa grossa, considerata l’importanza del Times nel fissare standard giornalistici.
Se il Times avesse insistito che i numeri vanno posti in contesto probabilmente lo avrebbe fatto anche la maggior parte dei maggiori canali giornalistici. Saremmo venuti costantemente a sapere che i Repubblicani pensavano che lo 0,6 per cento del bilancio dedicato al TANF era troppo, o che lo 0,01 per cento del bilancio che va alla Corporation for Public Broadcasting [CBS, televisione pubblica statunitense] era uno spreco che aumentava il deficit.
Purtroppo il mio festeggiamento è stato di breve durata. Nulla è cambiato nel giornale. Possiamo ancora contare sul ricevere le cifre del nostro bilancio in milioni, miliardi e trilioni; cifre che sono prive di significato per tutti salvo pochi secchioni del bilancio. Nessuno può difendere questa pratica, né la difenderà, ma per qualche motivo non sarà cambiata.
Fonti dei servizi giornalistici: chi è che sta parlando?
I giornalisti hanno una tendenza a rivolgersi in continuazione alle stesse fonti o esperti su importanti problemi economici. Tendono a essere un piccolo gruppo di economisti ben consolidati, dirigenti governativi attuali e del passato e rappresentanti di gruppi chiave d’interesse. Questo ha l’effetto di restringere il dibattito poiché molte prospettive alternative si sentono raramente. Probabilmente vale anche la pena di segnalare che gli soliti sospetti tendono a essere prevalentemente maschi bianchi.
Questo può avere un forte impatto sui dibattiti pubblici. Ad esempio negli anni ’90 quasi tutti usavano come fonte accettata di articoli sulla previdenza sociale che il programma incontrava una grande crisi che richiedeva attenzione immediata. Ciò non era vero, come non lo è due decenni dopo e nessuno ha perso un assegno. La prospettiva della previdenza sociale in crisi era promossa da grandi canali giornalistici come The New York Times, The Washington Post e la National Public Radio perché a nessuno che presentare una visione alternativa era consentito di partecipare al dibattito.
C’è stata una vicenda simile nell’ultimo decennio riguardo alla bolla immobiliare. Non c’è stata quasi nessuna voce nei principali canali giornalistici che avanzasse la possibilità che il mercato residenziale si trovasse in una bolla. Ciò nonostante il fatto che era possibile riconoscere una divergenza tra i prezzi di vendita e i fondamentali del mercato residenziale già nel 2002 [2]. Persino con i prezzi che finivano ulteriormente fuori linea e la qualità dei prestiti ovviamente si deteriorava (l’Associazione Nazionale degli Agenti Immobiliari riferiva che quasi la metà degli acquirenti di prima casa non anticipava nulla o meno nel 2005) voci che avvertissero circa la bolla era virtualmente assenti dagli articoli. In realtà la principale fonte del Washington Post sul mercato residenziale nel corso degli anni della bolla era David Lereah, l’economista capo dell’Associazione Nazionale degli Agenti Immobiliari.
Affidarsi ai soliti sospetti è stato un problema particolarmente pesante quando si è trattato di scrivere sul Consiglio di Amministrazione della Federal Reserve o Fed. Il ruolo della Fed nell’economia è immensamente importante e poco compreso. Mediante il suo controllo dei tassi d’interesse la Fed può accelerare o rallentare il tasso della crescita economica. Dopo la Grande Recessione la Fed ha svolto un ruolo importante nel promuovere la crescita spingendo a zero il tasso d’interesse a breve sotto il suo controllo. Ha anche tentato di ridurre direttamente i tassi a lungo termine mediante la sua politica di “alleggerimento quantitativo” [QE, quantitative easing] che consiste in una politica di acquisto in blocco di attività a più lungo termine.
Ma la Fed non si occupa sempre di promuovere la crescita. A metà e alla fine degli anni ’90 era preoccupata che l’economia stesse crescendo troppo rapidamente. L’idea era che una crescita più rapida conduce a una maggiore occupazione, il che a sua volta riduce il tasso di disoccupazione. La visione convenzionale nella professione economica all’epoca era che il tasso di disoccupazione non potesse scendere molto solo il 6 per cento senza innescare inflazione.
Quando il tasso di disoccupazione cominciò a scendere verso questo 6 per cento nell’inverno del 1994, la Fed cominciò ad aumentare i tassi d’interesse con l’esplicito proposito rallentare il tasso di creazione di posti di lavoro. Nel giro di poco più di un anno, mediante una serie di aumenti minori dei tassi, la Fed aumento il tasso d’interesse a breve direttamente sotto il suo controllo dal 3 al 6 per cento.
Mentre stava accadendo questo erano completamente assenti dalle notizie voci che mettessero in discussione la saggezza di tali aumenti dei tassi. Il giornalismo si affidava quasi esclusivamente agli economisti e ai dirigenti di vertice delle banche, come se quelli dell’industria finanziaria fossero i soli a preoccuparsi dei posti di lavoro e dei salari. (Il livello della disoccupazione è molto importante per la crescita dei salari poiché lavoratori meno istruiti hanno sufficiente potere contrattuale per garantirsi aumenti di remunerazione sono in un mercato del lavoro teso con bassa disoccupazione). In modo interessante il buonsenso comune del tempo si è rivelato molto sbagliato. Non solo la disoccupazione è scesa sotto il 6 per cento senza alcun aumento degno di nota del tasso d’inflazione, ma è scesa sotto il 5 per cento assestandosi infine in una media annua del 4 per cento nel 2000. In conseguenza di questa caduta del tasso di disoccupazione hanno avuto lavoro milioni di persone che altrimenti ne sarebbero state prive. In misura sproporzionata i beneficiari sono stati afroamericani, ispanici e persone di altri gruppi svantaggiati. Gli anni dal 1996 alla recessione del 2001 sono stati i soli periodi di crescita dei salari reali per quelli a metà e in fondo alla scala dei salari dai primi anni ’70. Il fatto che tale periodo di forte crescita non inflattiva sia stato un rimbrotto alla corrente prevalente della professione economica e una conferma degli argomenti avanzati dai critici sarebbe rimasto non colto dalla maggior parte di coloro che seguivano i giornali. Piuttosto che evidenziare il fatto che l’ortodossia era stata dimostrata errata, il giornalismo ha pubblicizzato il genio del presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, che in effetti ha avuto il buonsenso di opporsi all’ortodossia sulla relazione tra inflazione e disoccupazione. Greenspan ha resistito alle sollecitazioni di altri membri della Fed e di molti economisti del settore privato consentendo al tasso di disoccupazione di continuare a scendere, anziché aumentare i tassi per mantenerla intorno all’obiettivo del 6 per cento. La moda del giornalismo riguardo a Greenspan come unico genio ha toccato il suo vertice nella biografia di Greenspan a cura del redattore del Washington Post “Maestro” a cura di Bob Woodward. Quelli esterni alla corrente prevalente, che avevano sostenuto per tutto il tempo l’accettazione della caduta del tasso di disoccupazione, sono rimasti del tutto invisibili.
C’è stata una storia molto simile nel giornalismo sui temi degli scambi. I maggiori canali giornalistici si occupavano regolarmente di accordi commerciali come l’Accordo di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA) e dell’ammissione della Cina alla WTO come di sviluppi indubitabilmente positivi. Oltre ai politici che dibattevano queste politiche, gli esperti citati erano quasi esclusivamente economisti che appoggiavano tali politiche. Spesso i promotori facevano affermazioni palesemente assurde. Ad esempio le affermazioni che il NAFTA avrebbe determinato vasti guadagni per i lavoratori statunitensi erano palesemente non plausibili. Non c’era alcun modello economico che giustificasse asserzioni che l’accordo potesse determinare più che minimissimi miglioramenti della disoccupazione e dei salari.
Nelle rare occasioni in cui ai critici era consentito di presentare le loro idee, si trattava quasi sempre di persone con scarsa competenza cui era consentito di esprimere i loro timori, solitamente manifestati in modo da convincere i lettori che avevano scarso fondamento. Durante il dibattito sul NAFTA il The New York Times pubblicò un pezzo che evidenziava il fatto che la maggior parte degli economisti appoggiava il NAFTA. Presentò in effetti le idee del mio capo di allora, Jeff Faux, che all’epoca era presidente dell’Economic Policy Institute. La sua identificazione comprese l’affermazione che Faux era un “non economista”. (I miei colleghi ed io cominciammo a riferirci a Faux come a un “non idraulico” e “non barbiere”, poiché queste sono descrizioni ugualmente accurate).
Il tema della grande maggioranza del giornalismo era che questi accordi commerciali erano indubitabilmente un bene per il paese e per il mondo. Chi sollevava questioni riguardo a questi patti era o male informato o al servizio di gruppi d’interesse ristretti, come lavoratori sindacalizzati del settore automobilistico che rischiavano di perdere dalle aperture pianificate degli scambi.
Negli anni dopo la Grande Recessione gli articoli sugli scambi sono diventati in una certa misura più equilibrati, con economisti proponenti argomenti critici aventi maggiori probabilità di essere inclusi in servizi giornalistici. Parte di questo cambiamento ha origine in ricerche recenti che hanno dimostrato effetti negativi molto chiari e vasti degli scambi per milioni di lavoratori nel Midwest industriale. Ma è importante notare che tali effetti negativi non avrebbero dovuto essere una sorpresa; si tratta infatti di predizioni della teoria standard degli scambi. Le aperture al commercio producono vincitori e vinti e nel caso del genere di scambi perseguito dagli Stati Uniti negli ultimi quattro decenni, il numero dei perdenti è stato grande. La maggior parte degli economisti riconosce oggi il commercio come uno dei principali fattori della ridistribuzione del reddito verso l’alto negli ultimi quattro decenni.
Anche gli articoli sulla Fed sono molto migliorati nel quarto di secolo in cui sono stato a Washington. E’ oggi comune per gli articoli che discutono di tassi aumenti dei tassi d’interesse accogliere commenti di economisti del gruppo Fed Up, una coalizione di sindacati e attivisti di comunità che è stata organizzata per premere per politiche di piena occupazione. La maggior parte dei giornalisti di principali canali riconosce oggi che ci sono forti differenze di idee tra gli economisti riguardo alla misura in cui la Fed può ridurre il tasso di disoccupazione e al fatto che arrivare a livelli più bassi di disoccupazione fa una differenza notevole nelle vite di decine di milioni di persone.
Fonti credibili: non si può credere sempre a quello che le persone dicono
Uno degli errori più frustranti nel giornalismo economico è la pratica di raccontare ai lettori quello che pensano o sentono politici o altre figure pubbliche. La pratica è frustrante perché si può evitare così facilmente: si scriva semplicemente quello che le persone dicono o fanno; non si cerchi di raccontare ai lettori i loro pensieri più intimi.
Il problema qui è semplice e ovvio. I politici hanno spesso motivi nascosti che sono diversi da quelli che dichiarano. In tali casi i loro motivi dichiarati saranno quasi certamente più attraenti dei loro motivi veri per il pubblico.
Per prendere un caso semplice che ha fatto notizia recentemente, la maggior parte dei Repubblicani che ha votato a favore dei recenti tagli fiscali ha affermato di averlo fatto per il bene dell’economia. Hanno fatto frequenti dichiarazioni riguardo a come aliquote fiscali inferiori determineranno una maggiore crescita, più posti di lavoro e salari più elevati. E’ possibile che alcuni, forse la maggior parte, dei Repubblicani che hanno votato a favore dei tagli fiscali abbia creduto a qualcosa di simile.
Tuttavia una possibilità alternativa è che abbiano semplicemente voluto passare più denaro ai donatori ricchi. Tali donatori li avrebbero poi ricompensati con contributi elettorali nelle loro campagne per la rielezione o con posti ben remunerati nel settore privato nel caso non fossero rieletti.
Anche se sarebbe scorretto per un giornalista affermare in un articolo che un membro Repubblicano del Congresso abbia appoggiato i tagli fiscali solo per far piacere a donatori ricchi, è ugualmente scorretto affermare che erano motivati dal loro punto di vista sui fattori che determinano la crescita economica. La realtà è che un giornalista non conoscerà i veri motivi dei politici. Inoltre i politici sono quasi per definizione persone che fanno carriera celando i propri motivi veri. A meno che un giornalista non sia molto vicino a un politico (nel qual caso probabilmente non dovrebbe scrivere su di lui o lei), è improbabile che conosca i suoi veri motivi.
Anche se tutto questo dovrebbe essere giornalismo elementare, è sorprendente quanto frequentemente articoli in spazi quali il The New York Times, Washington Post o National Public Radio ci raccontano ciò che “crede” o “considera” importante un particolare politico. Per qualche motivo c’è un rifiuto di riferire semplicemente quello che le persone dicono o fanno.
Questo è un problema particolarmente grosso nei servizi sul bilancio. Durante la presidenza Obama, membri Repubblicani del Congresso si lamentavano costantemente dei livelli di spesa proposti da Obama in una vasta gamma di aree. I giornalisti ci hanno regolarmente raccontato che erano motivati dalle loro preoccupazioni per i deficit di bilancio o da un desiderio di avere un bilancio in pareggio. In qualche modo la preoccupazione per un bilancio in pareggio è scomparsa nella maggior parte di questi falchi del deficit dopo che Trump si è insediato alla Casa Bianca e ha voluto concedere un grande taglio fiscale alle persone più ricche del paese.
Tutti questi membri del Congresso possono aver cambiato idea e deciso che i deficit in realtà non sono così importanti. Ma in ogni caso la speculazione sui motivi dei politici dovrebbe essere lasciata ai lettori e agli ascoltatori; i giornalisti non hanno alcuna speciale competenza in quest’area. La competenza dei giornalisti sta nella conoscenza di una particolare area delle politiche e nel loro accesso diretto a persone in vista. Questa dovrebbe essere la base dei loro servizi.
Un mercato azionario in ascesa: buona notizia, proprio come alti prezzi del grano
I giornalisti seguono di routine il mercato azionario come se fosse la squadra di casa in una partita di baseball. Prezzi più elevati delle azioni sono trattati come uno sviluppo positivo da festeggiare, mentre prezzi delle azioni più bassi vanno pianti. Una cosa è certa: ogni notiziario quotidiano ci darà almeno un breve sommario dei movimenti del mercato azionario, come se si trattasse di una notizia che davvero ci serve.
La passione per gli alti prezzi delle azioni e la valutazione dell’importanza del mercato per l’economia riflette o una grave ignoranza riguardo all’economia o uno straordinario affetto per i ricchi. I prezzi per le azioni si presume riflettano il valore di profitti futuri. L’aspettativa di profitti futuri più elevati dovrebbe significare prezzi delle azioni più elevati, mentre prezzi inferiori andrebbero associati a profitti attesi minori.
L’aspettativa di profitti più elevati può essere dovuta a sviluppi che la maggior parte di noi considererebbe buoni. Forse una crescita della produttività maggiore delle attese induce a credere che l’economia crescerà di più in futuro. Questo probabilmente significherebbe profitti maggiori, ma significherebbe anche salari maggiori. In tal caso un’ascesa del mercato azionario potrebbe essere genuinamente considerata una buona notizia per l’economia.
Ma si supponga che i profitti siano attesi essere più elevati poiché ci si aspetta che i salari siano più bassi. Se il Congresso indebolisce le protezioni dei lavoratori, come il salario minimo, o rende più difficile per i lavoratori sindacalizzarsi, un aumento del mercato azionario sarebbe una cattiva notizia per i lavoratori.
Sarebbe la stessa storia se le leggi fossero cambiate in modo tale che le imprese abbiano minori probabilità di dover pagare per sanare il loro inquinamento. L’ascesa del mercato azionario sarebbe allora associata a un’aria o un’acqua più inquinata.
O, per prendere la recente crescita del mercato, l’aspettativa di un onere fiscale più basso per le imprese significa profitti più elevati dopo le tasse. Qualcun altro dovrà compensare l’entrata persa, o potrà esserci un taglio dei servizi governativi, ma in ogni caso i guadagni per gli azionisti arriveranno a spese di altri.
In questo modo un mercato azionario più forte andrebbe considerato come simile a prezzi più elevati del grano. E’ una bella notizia se si coltiva grano o se si possiede una quantità di azioni, ma non è una bella notizia per tutti. E’ vero possiedono azioni più persone di quelle impegnate nella coltivazione del grano, […] ma solo circa metà della popolazione ha azioni e solo circa un quarto possiede una quantità considerevole (circa 30.000 dollari) di azioni. Questo significa che nella maggior parte dei casi un’ascesa del mercato azionario, se è di fatto guidata dall’aspettativa di profitti più elevati (piuttosto che da fluttuazioni casuali) non è probabilmente una bella notizia per la maggior parte delle persone.
Il mercato azionario non è il solo tema economico che attiva un’attenzione esagerata da parte dei media. Il deficit di bilancio attira un’attenzione molto maggiore di quanto meriti sulla base di qualsiasi valutazione realistica della sua importanza per l’economia, mentre il deficit commerciale ne riceve molta di meno. Nuove proiezioni del deficit da parte dell’Ufficio del Bilancio del Congresso o dell’Ufficio dell’Amministrazione e del Bilancio sono spesso notizie di prima pagina. Questo persino nel caso in cui ci sia poca differenza rispetto alle proiezioni precedenti.
E’ anche importante segnalare che persino cambiamenti apparentemente importanti del deficit hanno un significato relativamente limitato per l’economia. Si supponga che il deficit annuo si previsto di 100 miliardi di dollari (lo 0,5 per cento del PIL) più elevato, facendo salire il deficit cumulativo previsto nel successivo decennio a più di un trilione di dollari. La conseguenza economica di questo aumento è probabilmente molto contenuta.
Probabilmente si tradurrebbe in una cerca maggior pressione inflattiva sull’economia e tassi d’interesse più elevati e forse la Fed potrebbe cercare di contrastare l’effetto stimolo di un deficit maggiore con tassi d’interesse più alti. Tuttavia probabilmente non vedremmo un aumento dei tassi d’interesse a lungo termine superiore a 20 o 30 punti base. Il tasso d’interesse sui titoli governativi e sui mutui sale e scende di questo importo in continuazione e attira scarsissima attenzione. Se guardassimo al futuro e vedessimo che il tasso d’interesse sui mutui a trent’anni nel 2023 fosse del 4,5 per cento anziché del 4,2 per cento, qualcuno considererebbe questo un motivo di panico?
I servizi sul deficit probabilmente hanno toccato un picco di assurdità nella campagna presidenziale del 2000. All’epoca Al Gore stava promuovendo il suo “forziere” nel quale voleva conservare il surplus della previdenza sociale. Per contro George W. Bush prometteva di forte taglio fiscale, insistendo contemporaneamente che avrebbe tenuto in salvo il surplus della previdenza sociale. Il taglio fiscale doveva arrivare da entrate che erano in eccesso rispetto al surplus della previdenza sociale.
A un certo punto i collaboratori di Gore hanno prodotto un’analisi che mostrava che i tagli fiscali di Bush avrebbero attinto dal surplus della previdenza sociale per due o tre dei dieci anni del suo orizzonte di bilancio. Questo fatto è stato una grande notizia, anche se le conseguenze economiche di questo genere di ammanco sarebbero state virtualmente zero [3].
Mentre il deficit di bilancio riceve sempre una grande quantità di attenzione, il deficit commerciale non ne riceve virtualmente nessuna. Il Dipartimento del Commercio diffonde rapporti mensili sulla dimensione del deficit commerciale che espone in grande dettaglio, mostrando avanzi e deficit per tipo di prodotto e paese. Queste pubblicazioni sono spesso relegate a brevi articoli, spesso da servizi d’agenzia, sepolti da qualche parte nelle pagine economiche. Frequentemente non se ne parla neppure, persino sul The New York Times o sul Washington Post. E’ così anche quando i dati suggeriscono un forte aumento o una forte caduta del deficit.
Diversamente dal deficit di bilancio, il deficit commerciale ha probabilmente conseguenze economiche dirette. Quando sale, spesso significa che ci sono perdite di posti di lavoro, o perché le esportazioni diminuiscono o perché le importazioni sostituiscono merci prodotte nazionalmente. (Una rapida crescita può anch’essa essere una causa di un aumento del deficit commerciale. Un’economia più vasta significa che stiamo acquistando di più di ogni cosa, comprese le importazioni). I posti di lavoro persi a causa degli scambi riguardano solitamente posti ben remunerati nella manifattura poiché i prodotti manifatturieri costituiscono tuttora una maggioranza prevalente del commercio statunitense e mondiale. La perdita di tali posti di lavoro ha l’effetto di imporre una pressione al ribasso sui salari di lavoratori non laureati che costituiscono un vasto segmento della manodopera del settore manifatturiero.
La generale mancanza di attenzione ai deficit commerciali riflette una tendenza generale a ignorare la distribuzione del reddito. Gli anni ’80 furono il decennio che vide la maggiore ridistribuzione del reddito verso l’alto. Tuttavia ci fu ben poca attenzione a questa svolta, anche se le sue conseguenze per l’economia e per la politica nazionale sono state enormi. Fortunatamente c’è stato un grande cambiamento in quest’area, con tutti i principali canali giornalistici che oggi riferiscono regolarmente nuovi dati sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e anche documentano cambiamenti nelle grandi industrie e comunità che sono associati all’ascesa della disuguaglianza.
Ciò nonostante la lista delle preoccupazioni economiche ha tuttora un forte pregiudizio a favore della classe superiore. Persino promotori di accordi commerciali come il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) non possono affermare seriamente che essi avranno grandi conseguenze per l’economia. Poiché le barriere commerciali esistenti sono già basse in quasi tutti i casi, semplicemente non abbiamo molto da guadagnare rendendo le barriere ancora più basse. Ciò nonostante le prospettive di questi accordi ricevono un’enorme copertura mediatica e i passi indietro, come la decisione di Trump di uscire dal TPP, sono trattati quasi come calamità.
La situazione andando avanti: sta migliorando
Dopo aver offerto un resoconto piuttosto negativo del giornalismo economico, farò un passo indietro per dire che le cose si stanno muovendo nella direzione giusta. Ci sono molte più opinioni economiche nei principali canali mediatici oggi rispetto a quando sono arrivato per la prima volta a Washington più di un quarto di secolo fa.
Si tratta probabilmente di una svolta generazionale. Alcuni giornalisti sono rimasti attaccati ai loro modi per decenni e non avrebbero cambiato il loro modo di coprire le notizie. Ad esempio il principale giornalista economico del The Wahington Post – John Berry – era così intimo di Alan Greenspan che persino la stampa economica ridicolizzava apertamente il loro legame. Non c’era modo che egli accettasse l’idea che è compito di un giornalista valutare criticamente quelli che dicono alti dirigenti e non essere il loro canale per il pubblico. Mentre Berry e altri della sua generazione sono andati in pensione, si è fatto spazio alcuni giornalisti di mente più aperta.
Tuttavia lo sviluppo di Internet è stato probabilmente ancora più importante della svolta generazionale. Internet ha avuto un grande impatto sul giornalismo per due motivi. Innanzitutto documenti governativi che erano difficili da ottenere, o almeno da ottenere rapidamente se non si era introdotti a Washington, si possono oggi ottenere in rete nel giro di secondi. Chiunque lo voglia può avere accesso immediato ai dati più recenti sulla disoccupazione del Bureau of Labor Statistics, ai verbali del Consiglio di Amministrazione della Federal Reserve o a proiezioni del bilancio dell’Ufficio del Bilancio del Congresso.
Prima dello sviluppo della rete ci sarebbero voluti seri sforzi persino per ottenere tali documenti entro un paio di giorni dalla loro pubblicazione. Più normalmente, se qualcuno si affidava a una buona biblioteca, ci sarebbe voluta una settimana o più prima che il materiale fosse accessibile. Con la rete tutti oggi hanno lo stesso accesso a queste informazioni dei giornalisti del New York Times e del Wall Street Journal.
Questo porta al secondo vantaggio creato dalla rete: le persone possono ribattere ai media. Se un giornalista sballa del tutto l’articolo sui dati più recenti sulla disoccupazione, è probabile che sarà colto sul fatto da qualche blogger intraprendente che può vedere il suo messaggio rapidamente amplificato da Twitter, Facebook e altre piattaforme di media sociali. Questo incentiva i giornalisti a dare il massimo e a fare i loro compiti per casa. Ciò significa leggere e parlare con persone che due decenni fa non partecipavano alle conversazioni.
Il mio ottimismo riguardo a Internet non dovrebbe essere interpretato come un cessato allarme. Le cose che ho citato in questa trattazione sono problemi molto seri del giornalismo economico. Potrei elencarne molti altri. Gli interessi dei ricchi continuano ad avere un peso enormemente sproporzionato nello stabilire sia gli argomenti sia la direzione del giornalismo. E’ fuor di dubbio che un giornalista pagherebbe un prezzo molto più elevato se sbagliasse qualcosa di importante che avesse un riflesso sfavorevole su Jamie Dimon e Bill Gates piuttosto che su una madre nubile dei quartieri degradati o su minatori disoccupati dei monti Appalachi.
Note
[3] Naturalmente il problema dei surplus è stato reso rapidamente accademico dal crollo del mercato azionario e dalla conseguente recessione nel 2001. Ciò ha condotto al ritorno dei deficit di bilancio.
traduzione di Giuseppe Volpe www.znetitaly.org

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