Un’intervista al professor Paolo Prodi. La Costituzione andrebbe in primo luogo attuata. Sbagliata la riforma del Titolo V. Non si capisce cosa rappresenti il “nuovo” Senato. Un’indicibile assurdità dividere per materie le competenze tra Camera e Senato. Ecco le ragioni del No del professor Paolo Prodi, tra i massimi storici italiani dell’età moderna, docente emerito all’Università di Bologna, già rettore dell’ateneo di Trento, tra i fondatori dell’Istituto storico italo- germanico della città trentina e dell’associazione di cultura e politica “Il Mulino”, fratello dell’ex presidente del Consiglio Romano Prodi.
Vogliamo ringraziare il professor Prodi che, pur non essendo in piena forma, ci ha generosamente concesso questa intervista.
Professor Prodi cosa pensa della riforma costituzionale sottoposta a referendum?
È un pasticcio pazzesco ed è anche illeggibile. Se pure vogliamo chiamare “riforma” il testo che va a referendum. Possiamo farlo, certo, ben coscienti però che nella storia dell’umanità tante riforme sono andate indietro e non avanti. E questo è proprio uno di quei casi.
Perché ritiene rappresenti una sorta di arretramento nella storia della Repubblica?
Il paesaggio rurale di Israele è saturo di alberi di pino. Questi alberi sono una novità per la regione. Quegli alberi di pino vennero introdotti nel paesaggio palestinese nei primi anni ‘30 dal Fondo Nazionale Ebraico (KKL/JNF) nel tentativo di “rivendicare quella terra”. Nel 1935, il JNF aveva piantato 1,7 milioni di alberi su una superficie totale di 1.750 acri. In oltre cinquanta anni, il JNF ha piantato oltre 260 milioni di alberi in massima parte su terre palestinesi confiscate. Ha fatto tutto in un disperato tentativo di nascondere le rovine dei villaggi palestinesi etnicamente ripuliti e cancellarne la storia.
Nel corso degli anni il JNF ha attuato un rozzo tentativo di eliminare la civiltà palestinese e il suo passato, ma ha anche cercato di rendere la Palestina simile all’Europa.
Discorso del leader della Rivoluzione cubana, Fidel Castro, alla chiusura del 7° Congresso del Partito Comunista di Cuba
Fidel Castro Ruz
E’ uno sforzo sovrumano dirigere qualsiasi popolo in tempi di crisi. Senza di questi i cambiamenti sarebbero impossibili. In una riunione come questa, a cui partecipano più di mille rappresentanti scelti dal popolo rivoluzionario stesso, che ha delegato ad essi la propria autorità, ciò significa per tutti l’onore più grande ricevuto nella vita, e a questo si aggiunge il privilegio di essere rivoluzionario, che è frutto della propria coscienza.
Perché sono diventato socialista, più chiaramente perché mi sono trasformato in comunista? Questa parola, che esprime il concetto più distorto e calunniato della storia da parte di coloro che hanno avuto il privilegio di sfruttare i poveri, spogliati da quando furono privati di tutti i beni materiali che forniscono il lavoro, il talento e l’energia umana…. Da quando l’uomo vive in questo dilemma, nel corso del tempo senza limite … so che voi non avete bisogno di questa spiegazione, ma forse alcuni giovani sì.
Parlo semplicemente perché si capisca meglio che non sono ignorante, estremista o cieco, e che non ho acquisito la mia ideologia per conto mio, studiando economia.
Aziz Krichen: Gramscinon avrebbe molto da dire, non solo ai tunisini, ma al mondo intero.
Personalmente a Gramsci devo gran parte della mia formazione intellettuale. (Molto tempo fa, in collaborazione con altri autori, ho peraltro contribuito al libro “Gramsci et le monde arabe” (Gramsci e il mondo arabo). Gramsci in Tunisia è poco noto anche nell'intellighenzia. La mancanza di una traduzione araba delle sue opere non spiega tutto. Le sue analisi delle élite e della questione agraria sono utilissime.
I paesi sempre si sono indebitati, ma oggi il debito pubblico è un mezzo di dominio per controllare l'economia e la finanza.Già negli anni novanta è stato utilizzato il debito per obbligare l'America Latina ad attuare le politiche neoliberiste, oggi l'uso illecito del debito minaccia i paesi in Europa e peggiora lo stato sociale.La minoranza usa il debito e il controllo del deficit come trappole con la complicità dei governi, della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del FMI.
I paesi prendono in prestito dalle banche, perché le entrate dello Stato sono insufficienti.Questo perché a partire dagli anni ottanta del ventesimo secolo, grandi fortune, grandi aziende e multinazionali pagano sempre meno tasse, mentre banche e fondi di investimento speculano con le obbligazioni di debito pubblico e impongono un'austerità distruttiva.
Per opporsi a questo nuovo autoritarismo, una ventina di associazioni, movimenti laici e cattolico-progressisti italiani crearono pochi giorni fa a Roma, il Comitato per l'Abolizione del Debito Illegittimo Italia (CADTM).Comitato che si somma ai trentasei CADTM che ci sono nel mondo.Ricordiamo che, nel diritto internazionale, il debito illegittimo è quello che un governo ha contratto e utilizzato a prescindere dalla cittadinanza o contro di essa.E non è stato pagato.
Consentitemi di essere tranchant, e quindi di perdere per strada le necessarie sfumature. Non esiste una ragione obiettiva per sostenere la riforma della Costituzione. Non raggiunge nemmeno gli obiettivi che essa stessa si propone (ammesso che siano obiettivi realment utili, cosa che nego). Non velocizza il processo legislativo, perché crea una congerie di procedure diverse, con grossi rischi di ricorsi e incertezze, non consente di risparmiare, perché il risparmio è una micro-goccia nell’oceano del bilancio pubblico, non razionalizza il rapporto Stato-Regioni, perché di fatto elimina il secondo elemento della dialettica, in nome di un neo-centralismo assolutamente inadeguato a gestire la complessità territoriale e sociale del Paese.
Repubblicani e democratici possono concordare almeno su una cosa: l’elezione di Donald Trump rappresenta il colpo di grazia definitivo al Partenariato transpacifico (TPP).
Il controverso accordo commerciale era già tenuto in vita artificialmente durante i mesi che hanno portato alle elezioni di novembre, con un’opposizione crescente da entrambi gli schieramenti politici e sempre più forte fra i repubblicani nel momento in cui la campagna elettorale diTrumpha acquisito slancio.
Dal Washington Post:
“Questo trattato non ha avuto un grande seguito fra i democratici del Congresso fin dall’inizio. Solo 28 dei 188 democratici alla Camera e 13 dei 44 al Senato lo hanno sostenuto concedendo a Obama l’autorità di negoziare e concludere un accordo lo scorso anno. E la crescita di Trump ha decimato il sostegno al libero mercato fra i repubblicani. Un ex rappresentante del commercio statunitense, il senatore Rob Portman dell’Ohio, durante la sua campagna per la rielezione di quest’anno ha affermato che si sarebbe opposto al TPP.”
Crisi, governo dell’emergenza e prospettive di nuova invenzione democratica
Il testo che qui proponiamo in versione italiana nasce da una comune ricerca, intrapresa nel corso della prima metà del 2016 intorno alle “crisi multiple” del processo d’integrazione europea. È in corso di pubblicazione in tedesco nel volume curato da Mario Candeias e Alex Demirović, Europe – What’s Left? Die Europäische Union zwischen Zerfall, Autoritarismus, und demokratische Erneuerung, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2017. Integrato con alcune considerazioni successive all’esito del referendum sulla Brexit, l’articolo è stato scritto ovviamente prima dei risultati delle elezioni presidenziali americane. Ancora non è dato sapere quale impatto possa avere Trump alla Casa Bianca sulle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico, all’interno del più generale sommovimento che su scala planetaria la sua vittoria andrà a produrre. Nondimeno riteniamo che già alcune delle tesi contenute in questo contributo – dal ruolo dell’Europa nel contesto capitalistico globale alla reale natura dei “sovranismi” di cui lo stesso Trump è certamente espressione, fino alla necessità di articolare molteplici e convergenti livelli d’iniziativa, sociale e politica, alternativa – possano contribuire al dibattito in corso. E a un suo ulteriore avanzamento, a partire dai nodi politici che il testo, e prima ancora la realtà contemporanea, lasciano irrisolti e aperti alla discussione collettiva.
La vittoria travolgente di Donald Trump nelle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti, ancora più straordinaria data l'ostilità attiva della stragrande maggioranza dell'establishment finanziario, economico, culturale, mediatico, inclusi i maggiorenti del Partito Repubblicano, chiude la lunga fase storica iniziata a cavallo degli anni '80 al di là e al di qua dell'Atlantico. Dopo la Brexit del 23 giugno scorso, una "Brexit plus, plus" è arrivata l'8 Novembre. Sono scosse politiche di magnitudo massima, successive a una sequenza di scosse minori: le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, il crollo del consenso alle grandi-coalizioni nelle elezioni regionali in Germania, per ricordare soltanto le più recenti. Il messaggio di fondo è chiaro: l'insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo neo-liberista, della globalizzazione dei capitali e di merci e servizi giocata sulla svalutazione del lavoro.
Le analisi che vertono sulla crisi che scuote – in modo strutturale – l’attuale sistema capitalistico si rivelano essere di una sterilità miserevole. Bugie mediatiche, politiche economiche antipopolari, ondate di privatizzazioni, guerre economiche e “umanitarie”, flussi migratori. Il cocktail è esplosivo, la disinformazione totale. Le classi dominanti si fregano le mani di fronte ad una situazione che permette loro di conservare ed affermare il proprio predominio. Proviamo a capirci qualcosa. Perché la crisi? Qual è la sua natura? Quali sono attualmente e quali dovrebbero essere le risposte dei popoli, delle organizzazioni e dei movimenti preoccupati per un mondo di pace e di giustizia sociale? Intervista con Samir Amin, economista egiziano e pensatore delle relazioni di dominazione neocoloniale, presidente del Forum mondiale delle alternative. Raffaele Morgantini: da molti decenni i vostri scritti e analisi ci consegnano elementi per decifrare il sistema capitalistico, le relazioni di dominazione Nord – Sud e le risposte dei movimenti di resistenza dei paesi del Sud. Oggi, siamo entrati in una nuova fase della crisi sistemica capitalistica. Qual è la natura di questa nuova crisi?
Chiamare apartheid l’occupazione israeliana della Palestina non è pigrizia o provocazione, è basarsi sui fatti
Oltre ad essere approvata dai sudafricani che hanno combattuto contro l’apartheid, la definizione della situazione in Palestina/Israele è conforme alla sua definizione ai sensi del diritto internazionale.
Questa settimana ho partecipato ad eventi organizzati per la “Settimana dell’apartheid israeliana”,che ogni anno “mira a promuovere consapevolezza sul continuo progetto israeliano di insediamento colonialista e sulle politiche di segregazione dei palestinesi”. Per qualcuno, parlare di “apartheid israeliana” potrebbe sembrare solo uno fra gli slogan in voga tra gli attivisti. Altri vedono questo termine come inefficace, pigro, incendiario o addirittura antisemita. Ma in realtà cosa si intende quando parliamo di apartheid israeliana?
Non possiamo negare di avere accolto la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane con la giusta dose di soddisfazione, commista ad una ventata di buonumore di quello che ormai latitava da parecchio tempo. Non tanto perché acritici estimatori del miliardario statunitense o ingenui sostenitori del fatto che il risultato elettorale avrebbe rivoluzionato le sorti del mondo, bensí in quanto forti del convincimento che il trionfo di Trump abbia di fatto scongiurato l'ascesa al potere, nella nazione più "pericolosa" a livello mondiale, di un mostro psicopatico e sanguinario quale Hillary Clinton e di tutta l'élite mondialista e globalizzatrice che l'aveva scelta come portabandiera.....
Al di là delle considerazioni politiche concernenti i bianchi, la classe media, i laureati e non laureati, l'America profonda e quella superficiale, di cui in tutta sincerità ci importa davvero poco, il dato di fatto che emerge dal risultato di queste elezioni é di un'importanza tale da travalicare perfino l'identità del nuovo timoniere degli Stati Uniti e riguarda i manipolatori della realtà e dell'immaginario collettivo ed i risultati del loro sporco lavoro.
Ho preso a prestito il titolo di questo articolo da una riflessione che Mumia Abu-Jamal (il giornalista nero ingiustamente incarcerato da più di 35 anni, di cui 30 passati nel braccio della morte) ha rivolto qualche giorno fa ai votanti afroamericani. Mi sembra sia il modo migliore di definire le elezioni appena avvenute negli USA (ma non solo), che hanno visto quale vincitore il miliardario Donald Trump e quale sconfitta la “regina del caos” Hillary Clinton.
Qualcuno che se ne intendeva parecchio - il generale Dwight Eisenhower, 34° presidente USA, nel suo discorso d’addio alla scadenza del mandato nel 1961 – definiva il vero potere dietro le istituzioni nord-americane come “il complesso militare-industriale”. Qualcun altro lo chiama “il governo invisibile”, chiunque sieda sulla poltrona dello Studio Ovale.
Ma da chi è fatto questo “governo invisibile”? Paul Craig Roberts, economista, sottosegretario al Tesoro sotto l’amministrazione Reagan (curioso che quando cessano di avere un ruolo ufficiale, e anche ufficioso, persone come lui si vogliano togliere dei sassolini dalle scarpe…) ne fa un breve elenco:
Sono le 7:45 in tempo universale, di mercoledì 9 novembre 2016, Donald Trump è stato appena eletto 45° presidente degli Stati Uniti da più di 270 grandi elettori. "pieno di umiltà," il suo assistente Mike Pence ha ringraziato Donald, Dio, sua moglie, le sue figlie, e il "popolo americano".Trump porterà l'America al suo antico "splendore".
Facendo un'entrata hollywoodiana con sottofondo epico nell'hotel Hilton di New York, il 45° presidente ha reso omaggio alla perdente Hillary (che può dire Venni, vidi, vinse).Poi ha detto che sarà il presidente di "tutti gli americani".Egli ha poi chiesto agli elettori e ai cittadini "i loro consigli e il loro aiuto."
"Lo Stato sarà al servizio del popolo americano".Si è presentato come "Mr. risorse umane", "rinnoveremo i nostri quartieri, ricostruiremo le nostre infrastrutture e daremo posti di lavoro a milioni di americani, ci prenderemo cura dei nostri veterani", "utilizzando il talento di ciascuno di di noi"."Raddoppieremo il nostro tasso di crescita" per fare della nostra economia la prima nel mondo."Avremo ottime relazioni con altri paesi".Saremo "grandi e audaci" cooperare con tutti i paesi, "preservando gli interessi americani".
Come già abbiamo scritto per le precedenti elezioni americane, una cosa è il significato sociale del risultato elettorale, un'altra è il significato politico del medesimo. In altre parole, l'elezione di un determinato presidente ci indica sempre la "temperatura mentale" della popolazione americana, indipendentemente da quelle che saranno poi (o che non saranno) le conseguenze politiche di quell'elezione.
Quando vinse Barack Obama scrivemmo che il segnale primario di quell'elezione era che l'America fosse finalmente pronta ad eleggere un nero alla Casa Bianca. Un grande passo evolutivo, nella breve storia di questa nazione, indipendentemente da ciò che poi il nuovo presidente sarebbe o non sarebbe riuscito a fare.
La vittoria odierna di Trump può essere letta con gli stessi parametri: ci dice sostanzialmente che l'America di oggi si ribella ad un sistema politico ormai palesemente marcio, indipendentemente da quello che poi farà o non farà Donald Trump dall'ufficio ovale della Casa Bianca.