Con
una formula felice i periti della Commissione Parlamentare stragi
Silvio Bonfigli e Jacopo Sce intitolarono un loro vecchio saggio "Il
delitto infinito" (Edizioni KAOS) ad indicare un caso di delitto
politico che sembra non esaurire mai "sorprese" e
retroscena inediti. In circa quarant'anni di pubblicazioni dedicati
all'affaire Moro – a partire dall'omonimo saggio licenziato dal
grande scrittore siciliano Leonardo Sciascia, sono stati scritte
decine e decine di testi caratterizzati da notevoli differenza per
stile ed ipotesi.
Secondo
il politologo Giorgio Galli – uno dei maggiori studiosi della
storia del Partito Armato – ogni vicenda, ogni singolo dettaglio o
episodio del caso Moro è così denso di quesiti ed implicazioni da
meritare un volume a parte, corposo per capitoli ed argomenti. In
effetti, in tutti questi decenni abbiamo letto e visionato svariati
libri relativi ai più importanti e scabrosi risvolti sul caso Moro,
senza mai incontrare il testo definitivo, quello capace di
ricostruire i "misteri" del caso Moro nella sua essenza,
facendo sintesi di quanto accadde nei più tragici e funesti giorni
della nostra singolare Repubblica. Perchè – e non bisogna
dimenticarlo – ogni singolo episodio, ogni dettaglio, ogni risvolto
più o meno segreto va a formare quelle tessere che potrebbero
conferire una forma comunque completa e definita a questo enigma che,
certo, non combacia con la semplice storia di un gruppo di intrepidi
guerriglieri metropolitani che rapisce il più eminente esponente
della classe politica ed istituzionale democristiana, ma, forse, è
una storia molto meno complicata di quella che qualcuno vorrebbe
raccontare, magari cercando di confondere le idee a qualcuno.
Appartengo
alla "video generation", a quella generazione di ragazzi e
pargoli che, negli anni dell'edonismo rampante, ha imparato a pensare
sostanzialmente a sè stessa e a non preoccuparsi. Soprattutto, ha
imparato a non farsi troppe domande e, probabilmente, anche a credere
alle verità della televisione e degli atri mass media. Perchè è
certo che il rapimento e l'assassinio dell'Onorevole Moro – senza
dimenticare l'eccidio della scorta – hanno prodotto una frattura,
uno iato politico – culturale nella nostra storia, ma, pure, non
bisogna dimenticare che quella storia venne raccontata in maniera
falsa e depistante, rincuorando le anime belle degli italiani e non
solo quelli della mia generazione. Che fosse esistita
un'organizzazione terroristica di estrema sinistra formata da ragazzi
giovani e giovanissimi fanatizzati in grado, con chirurgica, spietata
e geometrica potenza, di prendere di sorpresa e di trucidare una
scorta di poliziotti e carabinieri per poi prelevare un illeso e
smarrito statista con assoluta calma e freddezza e che questo
manipolo di efficienti ed invisibili guerriglieri avesse messo in
scacco uno Stato imbelle e incapace di individuare la prigione in cui
era rinchiuso il celebre rapito può tornare comodo se poi sempre
quello stesso Stato, con maggiore perizia di uomini e di mezzi e con
l'abile ed audace guida del più valente dei suoi ufficiali dell'Arma
dei CC – Carlo Alberto Dalla Chiesa, ovviamente – riesce a
identificare i terroristi e ad arrestarli, nonchè a "bruciare"
tutti i covi nel Nord Italia. In effetti, il complesso di questo
racconto ha un sapore consolatorio e pure retorico: il paese si è
imbattuta in un gravissimo pericolo inedito per la democrazia, ma ha
saputo fronteggiarlo e voltare pagina nel migliore dei modi. In
fondo, anche per il comune cittadino, si ottiene un curioso effetto
straniante, quasi che quei fatti non lo avessero riguardato neanche
troppo.
La
versione ufficiale del caso Moro – e, in un certo senso, degli Anni
di Piombo – è stata sottoscritta e certificata dai brigatisti
"dissociati" Valerio Morucci e Adriana Faranda, i
"trattativisti" del gruppo, e dal direttore del foglio
democristiano "Il Popolo" Remigio Cavedon. Dunque le BR
ormai in carcere e almeno una parte della DC hanno concordato una
ricostruzione sostanzialmente falsata di quegli eventi, e con la
benedizione dell'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga
che, durante i fatidici cinquantacinque giorni, aveva ricoperto la
carica di Ministro degli Interni, ufficialmente la principale carica
governativa a presidio e coordinamento di quelle forze dell'ordine e
di quei militari che avrebbero dovuto liberare l'illustre rapito
delle BR. Una banale e rassicurante "verità" ne occulta
un'altra più scomoda e agghiacciante, imponendosi ad un pubblico che
si sentiva ormai lontano anni luce dalla stagione degli Anni di
Piombo. Forse e, anzi, azzarderei a dire, quasi certamente, quel
memoriale non fu solo il frutto di un compromesso e di una mediazione
fra democristiani ed ex brigatisti, ma un cinico e baro gioco di
ricatti, controricatti e provocazioni al fine di ridefinire gli
equilibri di potere e di interessi ancora inconfessati.
Sono
dovuti trascorrere più di trent'anni perchè, finalmente, chi
metteva in discussione e contestava quella versione così falsa e
conciliante, trovasse finalmente cittadinanza in un paese in cui
poteva venire facilmente tacciato di praticare la "dietrologia"
e il "complottismo", in primis l'ottimo Senatore Sergio
Flamigni che, come un segugio instancabile, ha investigato in tutti
questi anni perchè un poco di verità potesse emergere nel mare
magnum di omissioni, depistaggi e falsità conclamate ma accettate.
Nel corso del 2013 una serie di scoop da parte di alcuni bravissimi
giornalisti investigativi mettevano pesantemente in discussione
quanto era stato sentenziato sulla strage di via Fani,
sull'assassinio dell'Onorevole Moro in via Montalcini e sul
rinvenimento del suo cadavere in via Caetani, insinuando il dubbio
che le parti in causa – lo Stato con i suoi rappresentanti e le BR
– avessero allestito una colossale montatura capace di resistere al
tempo. In poco tempo alcuni saggi sull'argomento come "Chi ha
ammazzato l'agente Iozzino", "Patto di omertà" e
"Complici" si incaricavano di liquidare in maniera
argomentata e documentata le "inesattezze" contenute nel
memoriale Morucci/Cavedon. La nuova Commissione Moro – di cui molti
avrebbero voluto fare certamente a meno – sembra comunque ormai
incanalata verso questa ottica che ripropone un interrogativo scomodo
quanto ineludibile: perchè le parti in causa hanno mentito in questa
maniera e facendo mostra di una curiosa convergenza – se non
identità – di obiettivi e di intenti ? Che cosa doveva e deve
rimanere nascosto del caso Moro ? Furono le sole BR a mettere a punto
e a realizzare questa operazione o si può finalmente parlare del
concorso di altri soggetti e altre forze rimaste nell'ombra ?
Fra
i maggiori e più quotati esperti di "misteri d'Italia"
possiamo annoverare senza dubbio Paolo Cucchiarelli, cronista e
corrispondente parlamentare dell'ANSA, che, in oltre vent'anni di
carriera, si è occupato di Tangentopoli, di GLADIO, del servizio
"supersegreto" denominato ANELLO, della strage di Piazza
Fontana e, naturalmente, del caso Moro. Coautore – con lo studioso
Aldo Giannuli, già perito per le Procure di Milano e Brescia – di
un documentatissimo lavoro sullo "Stato Parallelo",
Cucchiarelli ha fatto soprattutto discutere per il monumentale e
coraggioso "Il segreto di Piazza Fontana" (Ed. Ponte alle
Grazie) che, fra l'altro, ha ispirato un ottima pellicola firmata
dallo specialista Marco Tullio Giordana. Con dovizia di particolari
inediti e di rivisitazione di "piste fredde", il
giornalista illustrò in maniera convincente e argomentata, come la
strage di Piazza Fontana, o per meglio dire, tutta la strategia
terroristica concepita per scattare in quella fatidica giornata del
dicembre 1969, fosse stata messa a punto seguendo un preciso schema
operativo. Dietro l'ordigno dimostrativo e attivato per scoppiare
dopo la chiusura della Banca dell'Agricoltura, una cellula di
militanti neofascisti di Ordine Nuovo – organizzazione paramilitare
al servizio di una regia "atlantica" – aveva "occultato"
una bomba finalizzata a provocare un massacro senza precedenti.
I
registi dell'operazione volevano alimentare un clima di estrema
tensione che avrebbe richiesto l'adozione di misure eccezionali e
spostato il baricentro dell'asse politico – istituzionale.
Inevitabilmente, e soprattutto dopo l'uscita del film "Romanzo
di una strage, il voluminoso saggio di Cucchiarelli non potè non
suscitare polemiche, critiche spesso gratuite e diversi mal di
pancia. Fra l'altro, "Il segreto di Piazza Fontana" si fa
ricordare soprattutto per la controversia polemica scoppiata fra il
suo autore e l'ex leader del movimento extraparlamentare di estrema
sinistra Lotta Continua, all'uscita della seconda edizione. L'opera
di Cucchiarelli è scomoda innanzitutto perchè, al di là dei
principali ispiratori, mandanti, ed esecutori della strategia
terroristica e stragista, un intero sistema politico – nelle sue
componenti istituzionali e pure extraparlamentari e per le ragioni
più disparate – intervenne per chiudere la verità dei fatti in un
cassetto, tanto che, fino ad oggi, ci interroghiamo su un buon numero
di risvolti e di episodi riconducibili a quella stagione così
violenta, ma anche fervida di iniziative. L'estrema sinistra –
soprattutto in certe sue componenti che si professavano "marxiste
leniniste", "maoiste" o "anarchiche" – ne
esce con le ossa piuttosto rotte, mentre la stessa "purezza"
del PCI viene pesantemente messa in discussione. Ma, al di là di
queste controversie e delle "incomprensioni", "Il
segreto di Piazza Fontana" pone le premesse per un altro saggio
molto discusso sul tema della "strategia della tensione",
quel "Doppio livello" realizzato dall'ottima Stefania
Limiti per Chiarelettere. L'autrice di un interessante opera sul
misterioso ANELLO ripropone quella tesi dello schema "doppio"
presente nel "Segreto di Piazza Fontana" estendendola ai
principali episodi eversivi e terroristici della storia della
Repubblica italiana a partire dalla strage di Portella della
Ginestra. Lo schema è quello tipico delle covert operations che solo
particolari strutture capaci di coniugare intelligence e la
formazione militare dei corpi d'elites possono concepire e mettere a
punto: dietro un gruppo, si muove un altra unità, un nucleo che, in
maniera discreta e nell'ombra, garantisce il successo
dell'operazione. In questi anni si Cucchiarelli che Stefania Limiti
hanno esposto questa tesi a più riprese, quasi che le loro attuali
"fatiche" si debbano necessariamente ricondurre alla
dimostrazione documentale e ragionata del succitato schema operativo.
Dunque,
è naturale che, nell'ambiente neanche tanto frequentato dei cultori
in materia, l'ultima fatica di Cucchiarelli dedicata all'affaire Moro
sia stata attesa con una certa ansia e trepidazione quasi a chiudere
un capitolo troppo sofferto, drammatico e doloroso della nostra
storia. Ricordiamoci che l'attuale Commissione Parlamentare
d'Inchiesta sul caso Moro è stata istituita innanzitutto a causa o
grazie a uno "scoop" del giornalista dell'ANSA che, due
anni fa circa, intervistò l'ispettore della DIGOS in pensione Enrico
Rossi su una missiva che richiamava alla memoria la "misteriosa"
moto Honda che aveva chiuso il brutale carosello dell'agguato di via
Fani. L'autore della lettera – il passeggero "posteriore"
della moto – confessava di aver fatto parte del "gruppo
Guglielmi" dei servizi segreti che aveva fiancheggiato e
appoggiato i brigatisti durante l'azione mirata a catturare e
prelevare il Presidente della DC. L'inchiesta giudiziaria si è
conclusa con una sentenza – ordinanza di archiviazione, ma i
quesiti e i dubbi sull'episodio non sono stati dissolti. Il fatto
stesso che sia stata questa inchiesta giornalistica a convincere
molti recalcitranti ad aderire all'istituzione di una nuova
Commissione Moro, a trentacinque anni di distanza da quei fatti,
dovrebbe – di per sè – indurre a riflettere e ad accendere la
discussione. Sicuramente, oggi sia Cucchiarelli che la Limiti sono
due voci molto ascoltate da alcuni membri della Commissione, a
partire da Gero Grassi che, più di tutti, ne ha richiesto
l'istituzione.
"Morte
di un Presidente" (Edizioni Ponte alle Grazie) si ispira alle
riflessioni e alle intuizioni dello scrittore Leonardo Sciascia – a
partire dalla citazione della "Lettera nascosta" del grande
scrittore americano Edgar Allan Poe – e ripropone l'idea che, come
nel caso della strage di Piazza Fontana – tutti gli attori
coinvolti conoscano una verità troppo terribile e sconvolgente per
essere detta. Tuttavia il libro di Cucchiarelli sul caso Moro è
molto diverso da quello dedicato agli scottanti e incredibili
retroscena sulla strage di Piazza Fontana e sulla strategia
terroristica e stragista del 12 dicembre 1969. Naturalmente "Morte
di un Presidente" aggiunge molti particolari e tasselli ad una
vicenda che – ai più – appare ancora oscura, ma siamo lontani da
quella sensazione di sicurezza e di "perentorietà"
contenute ne "Il segreto di Piazza Fontana". Se
quest'ultimo si proponeva di rispondere ai grandi quesiti posti
dall'inizio di una terribile ed imprevista stagione, al termine della
lettura di "Morte di un Presidente" domina – almeno per
quanto mi riguarda – la sensazione che l'autore voglia sollecitare
"altri" dubbi ed interrogativi. Ad ogni tassello messo al
suo posto ne corrisponde un altro, in attesa della sua
collocazione... La stessa "provvisorietà" dell'ultima
fatica di Cucchiarelli, è, in qualche modo, rivendicata da lui
stesso, perchè la verità sarebbe talmente complessa e incredibile
che, ancora, in mancanza di sufficienti elementi, non può essere
raccontata nella sua interezza.
Consapevoli
di questi inevitabili limiti e pur con un notevole deficit di notizie
e di nozioni, cercheremo di sollevare qualche interrogativo o dubbio
che possa aiutare la ricerca della verità e alimentare la buona
volontà di coloro che ancora non si sono stancati di seguire le
tracce, con ostinata e inossidabile caparbietà.
Come
annunciato dal titolo, la nuova "narrazione" di
Cucchiarelli è imperniata su una ricostruzione delle modalità e
delle circostanze in cui fu assassinato l'Onorevole Aldo Moro, grazie
a una rilettura delle notizie immediatamente successive al
ritrovamento del cadavere del Presidente della DC e a una nuova
"perizia" offerta grazie alla collaborazione dei prof.
Alberto Bellocco (medico legale) e Gianluca Bordin (perito
balistico). Nulla di veramente inedito se si rileggono taluni saggi
dedicati all'argomento, senonchè l'ultima opera di Cucchiarelli ha
l'indiscutibile pregio di offrire un'accurata dimostrazione
scientifica e sistematica di come morì Moro e delle ragioni per cui
la versione ufficiale e concordata, compendiata dal memoriale
Cevedon/Morucci, si risolve in una gigantesca e sesquipedale
menzogna.
Non
ripercorreremo le tappe e le fasi di questa laboriosa e precisa
perizia seguita con tutti i crismi della scienza criminologica,
limitandoci a osservare come le varie tracce ritrovate su Moro e i
suoi indumenti (sabbia, materiale vulcanico, bitume, filamenti di
tessuto, ecc...) indicano in maniera inequivocabile come Moro fosse
stato assassinato in tutt'altro ambiente che non nel garage di via
Montalcini 8. Le tracce ematiche, la posizione del corpo e i
proiettili rinvenuti anche nell'abitacolo della Renault 4 rossa
contraddicono pure la dinamica dell'omicidio raccontata dai
brigatisti che detenevano l'Onorevole Moro. Il Presidente della DC
sarebbe stato ferito mortalmente all'interno dell'auto da qualcuno
che era seduto accanto al guidatore e mentre, lui stesso, era seduto
dietro e non collocato e sdraiato nel portabagagli. Dunque, Moro
sarebbe stato colpito dal killer mentre era tranquillamente seduto
nella Renault 4 da quattro colpi in successione, mentre dopo sarebbe
stato collocato dietro e "finito" con altri colpi mortali.
Inoltre le tracce di vario materiale trovato sul cadavere dello
statista collocano la scena del crimine fuori dal "covo –
prigione" di via Montalcini 8. L'appartamento della brigatista
"irregolare" Anna Laura Braghetti non si prestava ad
"ospitare" il prigioniero in quello spazio angusto e per
tutti i cinquantacinque giorni e, oltretutto, secondo diverse
testimonianze, Moro soffriva di claustrofobia. Invece il corpo di
Moro – così come è stato trovato – apparteneva a una persona
che era ancora in buono stato, godeva di buona salute e non
presentava atrofizzazioni di muscoli. Sabbia e bitume accreditano,
invece, la tesi che il prigioniero fosse lasciato piuttosto libero
nei movimenti e avesse passeggiato sul bagnasciuga di una località
del litorale a nord del Lazio. In particolare l'attenzione di
Cucchiarelli si appunta su uno stabilimento riconducibile alla
Guardia di Finanza, i cui vertici, ricordiamolo, erano all'epoca
occupati da alti ufficiali iscritti alla Loggia Propaganda Due
(Raffale Giudice e Donato Lo Prete), mentre i filamenti di tessuto
erano compatibili con la reclusione in qualche magazzino o deposito
di tappeti o altri articoli di abbigliamento.
Se
Cucchiarelli – e chi ha collaborato attivamente e direttamente alla
stesura del testo – riesce a scardinare la versione ufficiale – e
bisognerà chiedere prima o poi agli ex brigatisti ormai in libertà
perchè la accreditarono mettendo d'accordo quasi tutte le parti in
causa -, tuttavia convince meno quando offre una vasta gamma di
"probabili" prigioni in cui fu detenuto l'illustre
statista. Il garage del complesso residenziale dello IOR in via
Massimi, Fregene – Focene, Palo Alto, il negozio del brigatista
"particolare" Alessio Casimirri, il covo di via Sant'Elena
8, ecc... Viene da chiedersi come faceva Moro a scrivere così tanto
e a sostenere gli interrogatori dei brigatisti o di altri soggetti
rimasti ignoti, se nell'arco di pochi giorni i carcerieri dovevano
essere costretti ad abbandonare ogni luogo di detenzione in tutta
fretta e senza esitazione. Forse si può concedere che, in qualche
occasione siamo in presenza di "luoghi di transito" e in
altri siano stati semplicemente custodite auto ed attrezzature usate
dai terroristi, mentre le "reali prigioni" possono essere
state tre, magari quattro al massimo e, probabilmente, solo in un
paio di queste la detenzione del prigioniero è stata
sufficientemente e ragionevolmente "lunga". Un discorso a
parte, invece, bisognerebbe fare per via Gradoli su cui torneremo...
La
ricostruzione dell'omicidio presentata ne "Morte di un
Presidente" – che qui assumiamo per vera e corretta – impone
alcune ineludibili domande: se Moro era stato condannato a morte
dalle BR, come mai era tranquillamente seduto nel sedile dietro
l'autista della Renault 4 ? Doveva incontrare qualcuno ? E perchè è
stato colpito a morte in maniera così proditoria ? Era stata
realmente conclusa una trattativa fra i terroristi e "misteriosi
intermediari ? Ma allora perchè si uccide comunque Moro ? Veramente
le parti avevano negoziato per la sua "vita", o l'oggetto
della trattativa era altro ? E, comunque, si è veramente sicuri che
siano state le BR a premere il grilletto, oppure il prigioniero fu
affidato all'ala "delinquenziale" delle BR – un gruppo
anomalo e, probabilmente, inquinato o eterodiretto – che, magari,
si è preso la responsabilità di eliminare l'ostaggio all'insaputa
del primo gruppo ? Oppure è stato veramente effettuato lo scambio,
ma chi ha preso in consegna Moro lo ha "giustiziato" ? O,
infine, prestando fede a quanto disse l'amerikano Pieczenik al
giornalista francese Amara, le BR furono indotte a uccidere Moro
grazie a un'accorta e raffinata azione condotta con i crismi della
"guerra psicologica" ? E' comunque evidente che l'esito, il
finale dei cinquantacinque giorni è talmente scomodo da non poter
essere svelato da chi, presumibilmente, brigò per "trattare"...
E, pensandoci bene, anche leggendo le righe del memoriale
Morucci/Cavedon, è tutta la storia dell'affaire Moro che dovrebbe
essere riletta e ricostruita senza limiti o pregiudizi di sorta...
Peraltro Cucchiarelli mette in discussione il fatto che possa essere
stata la Skorpion nelle mani di Morucci e Faranda – con meccanismo
a "ripetizione" e non a "raffica" – l'arma
utilizzata per uccidere Moro, mentre è sicuro che il blitz in viale
Giulio Cesare, nell'appartamento in cui Giuliana Conforto ospitava i
due terroristi, provocò un piccolo terremoto e la mobilitazione di
strutture "particolari"... L'identificazione del killer di
Moro nella persona dell'ex legionario calabrese Giustino De Vuono non
è una novità anche se, a onor del vero, spesso le vecchie piste
"raffreddate"vanno giustamente riprese e percorse. E' lui
l'assassino che spara a "raggera" intorno al cuore di Aldo
Moro ? Appartiene all'ala delinquenziale delle BR o all'Agenzia del
Crimine indicata dal giudice Sica ? O, come afferma il
"complottista", esperto di Bilderberg, Daniel Estulin,
sarebbe una sorta di killer a contratto al servizio dei "poteri
occulti" ?
Lasciamo
in sospeso queste domande e andiamo avanti...
Nel
libro di Cucchiarelli una parte importante di questa tragica
rappresentazione è stata affidata al Sottosegretario agli Interni
Giuseppe Zamberletti il quale, alla fine di marzo, sarebbe stato
inviato a Milano per prendere contatto con un misterioso brigatista
per tentare un approccio che poi non si è mai concretizzato. Secondo
l'autore il "contatto" non poteva essere altri che il
falsario Toni Chichiarelli, già legato alla Banda della Magliana e
con una pregressa militanza nei NAP alle spalle. L'infiltrato e fonte
dei servizi segreti (SISDE) in possesso delle foto polaroid ritraenti
il "prigioniero del popolo" Moro, autore del "falso"
comunicato numero 7, noto alle cronache come comunicato del Lago
della Duchessa. Se l'"intermediario" probabilmente inserito
in qualche modo nell'ala "delinquenziale" delle BR, si può
identificare con Chichiarelli, parimenti, e sulla base delle
testimonianze rese durante il processo per l'omicidio Pecorelli –
in particolare quella della compagna Chiara Zossolo -, è da rilevare
come il falsario agisse sotto la dettatura di mandanti rimasti
ignoti. Tuttavia, probabilmente, la circostanza più curiosa sarebbe
stata portata alla luce da Padre Enrico Zucca, un religioso vicino
alla struttura "ultrasegreta", di volta in volta denominata
ANELLO o come "Noto Servizio", nata già negli ultimi mesi
della Seconda Guerra Mondiale e ampiamente utilizzata dal Presidente
del Consiglio Giulio Andreotti. Già nell'imminenza della fine
dell'agonia di Moro, nel corso di un'intervista sul settimanale
Espresso, il religioso aveva accennato all'ipotesi di una trattativa
per la liberazione di Moro dietro pagamento di un ingente riscatto
alle BR. Lui stesso si sarebbe offerto di raccogliere la cifra
necessaria tramite la Fondazione Balzan. Quello che più incuriosisce
– e sorprende – di questo retroscena tutto da verificare e
disvelare è che Padre Zucca sarebbe stato avvicinato in
confessionale da un brigatista "dissidente" all'incirca
nello stesso periodo in cui anche il Ministro degli Interni Cossiga
incaricava il Sottosegretario Zamberletti – accompagnato dal
colonnello dei CC Antonio Varisco – di tentare un approccio con un
brigatista di Milano. Se Cucchiarelli ha ragione e il misterioso
"intermediario" brigatista si identifica con un personaggio
che, in qualche modo, rinvia alla componente delinquenziale delle BR
– o ex NAP -, il riferimento di Padre Zucca alla dissidenza
brigatista rimanda all'ala "trattativista" dei rapitori e,
quindi, in qualche modo, proprio a Morucci e alla Faranda, ancora in
contatto con i "compagni" raccolti nella rivista
"Metropoli". Invece Padre Zucca viene spesso indicato come
persona al servizio del misterioso "Noto Servizio". Per il
momento lasciamo da parte questo discorso sui tentativi di approccio
fra le parti e agli sviluppi di presunte trattative di cui solo
piuttosto recentemente si è parlato in maniera più diffusa...
Il
Sottosegretario Zamberletti sarebbe stato in predicato di succedere
al Ministro Cossiga, invece il Presidente del Consiglio Andreotti
conferì l'incarico a un altro compagno di partito, Virginio Rognoni.
Per quale motivo ? Fra l'estate e l'autunno del 1978 – in maniera
molto più convinta dei comunisti e dei socialisti – alcuni
esponenti del partito di maggioranza relativa come il democristiano
di destra Zamberletti, avevano maturato la convinzione che Moro fosse
la vittima di un "complotto americano". In particolare
proprio Zamberletti commissionò a un curioso ed eccentrico
personaggio come il "complottista"americano Webster Tarpley
l'incarico di investigare sulla vicenda. Ne nacque un testo – "Chi
ha ucciso Aldo Moro ?" - che puntava il dito accusatore sui
servizi segreti americani, inglesi e della NATO, soffermandosi sul
ruolo del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta (la Loggia P2 non era
ancora stata "scoperta"). In particolare si faceva il nome
dell'ex Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale
delle amministrazioni USA dei Presidenti Nixon e Ford, il potente
diplomatico Henry Kissinger, autentico dominus della politica estera
statunitense e convinto assertore dell'utilità delle covert
operations. Era noto che, fin dal settembre del 1974, Kissinger si
era spinto a minacciare apertamente l'allora Ministro degli Esteri
Aldo Moro per la politica di collaborazione con i comunisti e per la
linea smaccatamente filoaraba e filopalestinese. Lo stesso Moro
avrebbe parlato di un'animosità e un'ostilità del tutto personali,
da parte del Segretario di Stato e la gravità delle minacce
kissingeriane avrebbe assunto toni tali da condurre Moro ad un passo
dalle dimissioni e dall'abbandono della carriera politica. Tarpley
avrebbe poi rivelato che le principali fonti della sua ricerca erano
alcuni agenti della CIA appartenenti all'ala "democratica".
Cucchiarelli si convince che la tesi di Tarpley sia fondamentalmente
esatta anche perchè una conferma giunge proprio dall'ex Ministro
degli Interni Cossiga. In effetti, pur non ricoprendo più alcun
incarico di rilievo, quella di Kissinger è una voce ancora molto
ascoltata ed influente, ma quel che è più rilevante è che i
"kissingeriani" sono ancora inseriti nei gangli vitali
dell'Amministrazione democratica, nella NATO e nella stessa
intelligence statunitense. Proprio dal 1974 al 1979 il comandante
militare della NATO è l'ammiraglio Haig, già vice di Kissinger al
Consiglio per la Sicurezza Nazionale e futuro Segretario di Stato
durante il primo mandato della presidenze repubblicana di Ronald
Reagan, mentre lo stesso capostazione della CIA a Roma Hugh
Montgomery gode della fama di uomo vicino al potente diplomatico.
Altro interprete "kissingeriano" della politica
internazionale statunitense, nonchè "esperto" di "affari
italiani" forse più a suo agio con l'aggressività della linea
neoconservatrice piuttosto che "kissingeriana" tout court,
è lo storico e giornalista Michael Ledeen il cui nome è salito
recentemente alle cronache come "spia al servizio del MOSSAD".
Certamente "uomo – cerniera" fra ambienti
dell'intelligence statunitensi e quelli israeliani, il cultore del
"fascismo universale" incarnato dall'imperialismo e dal
militarismo USA, era stato indicato da Umberto Giovine, su "Critica
Sociale" come un frequentatore del Comitato degli "Esperti"
del Viminale durante i 55 giorni del sequestro e, secondo
Cucchiarelli, era l'altro americano che affiancava il viceassistente
del Dipartimento di Stato Steve Pieczenik. Presente come il
prezzemolo durante le fasi più delicate della storia degli ultimi
quarant'anni della nostra Repubblica, il principale contributo di
Ledeen nell'affaire Moro pare essere stato quello di screditare il
Presidente della DC presentandolo come un personaggio non più
credibile agli occhi della pubblica opinione. Il ruolo di Ledeen
indurrebbe ad interrogarsi sul ruolo dei mass media e sull'enorme
influenza che possono esercitare su intere popolazioni...
Non
essendo in possesso di sufficienti elementi indiziari e "probanti",
Cucchiarelli si limita a fare cenno a una sorta di faida o resa dei
conti fra le diverse anime e fazioni interne alla CIA e
all'intelligence statunitense, in particolare fra un "partito
democratico" vicino all'Amministrazione e uno "repubblicano"
e "oltranzista" che segue peddisequamente la linea dell'ex
Segretario di Stato. Chi ha abbastanza memoria e si ricorda ancora di
quei convulsi anni a cavallo fra la seconda metà degli anni Settanta
e i primissimi Ottanta è possibile che si rammenti ancora dei
numerosi scandali che, a partire dal Watergate, coinvolsero l'Agenzia
accusata di adottare condotte criminali ed illegali, al di fuori di
qualunque controllo "democratico". Pare che lo stesso
Kissinger fu indotto a costringere alle dimissioni il mitico James
Jesus Angleton, un veterano dell'OSS e della CIA che dirigeva la
famigerata operazione di "controspionaggio" denominata
CHAOS e che si era fatto le ossa proprio in Italia, ove si dedicò al
reclutamento di ex nazisti e fascisti da utilizzare nella crociata
contro il "comunismo". Nel 1977 il neoeletto Presidente
democratico Jimmy Carter designò l'ammiraglio Stanfield Turner alla
guida della CIA con l'intento di "fare pulizia" e di
imporre un controllo più diretto sull'Agenzia, ma, a quanto pare,
l'operazione si è rivelata fallimentare.
La
prima Commissione Moro accennò ad un possibile ruolo ricoperto da
"ex agenti della CIA" in relazione all'indagine sul più
grave delitto della Repubblica italiana avanzando l'ipotesi che il
noto trafficante di droga e "sospetto" agente della CIA
Ronald Stark – che si era segnalato per i suoi approcci con i
militanti del Partito Armato (BR, Autonomia, Azione Rivoluzionaria)
all'interno delle carceri – fosse un elemento della "banda".
I membri della Commissione si riferivano al già noto "Diavolo
Biondo" Theodore G. Schackley, un altro elemento della "vecchia
guardia della CIA" costretto alle dimissioni dopo essere stato
designato vicedirettore per le operazioni speciali dal direttore
George Herbert Bush, futuro vicepresidente e Presidente degli USA. Ne
"Morte di un Presidente" il sospetto di un ruolo attivo di
Schackley e della sua banda nell'affaire Moro è ripreso anche per
una sorta di mezza ammissione da parte del Venerabile Maestro Licio
Gelli il quale nel corso di una conversazione avrebbe replicato
che"sì forse, poteva averlo conosciuto". La conferma di
uno stretto rapporto Schackley/Gelli non sarebbe fatto di poco conto
se si tiene in considerazione il fatto che, come Schackley si sarebbe
impegnato attivamente a creare e dirigere una sorte di "CIA
parallela", il Venerabile Gelli si sarebbe assunto un compito
del tutto omologo per quanto riguardava i servizi di informazione e
di sicurezza italiani. Teorico, ideatore e direttore delle "special
operations", nonchè architetto della Third Options – una
sorta di "stato di tensione" a metà strada fra la
condizione di guerra e quella di pace -, Schakley avrebbe fondato uno
Special Team composto da spregiudicati agenti dell'Agenzia, militari
dei corpi speciali – marines e Green Berets – e fanatici cubani
anticastristi – allargando il suo raggio di azione fra America
Latina, Indocina e Medio Oriente. Fra le sue imprese che sconfinavano
nella metodologia propria del crimine organizzato, i tentativi di
rovesciare Castro come l'operazione Mangoose, l'assassinio in massa
dei collaborazionisti dei vietcong nel Vietnam del Sud (Progetto
Phoenix), la pianificazione delle condizioni per agevolare il colpo
di stato contro il Presidente socialista del Cile Salvador Allende,
oltre ai traffici di armi e droga, al riciclaggio dei relativi
proventi e alla società con Cosa Nostra italoamericana (Santo
Trafficante). Il sospetto di un ruolo attivo in tutto l'affaire Mor
riguarda soprattutto il sostegno clandestino e indiretto
all'euroterrorismo attraverso il dittatore libico Gheddafi -al quale
sarebbe stata venduta un'ingentissima quantità di esplosivo militare
C4 – e il "superterrorista" Carlos, lo sciacallo.
Anche
il contractor CIA Brenneke – il cui nome venne alla ribalta delle
cronache quando, intervistato sull'assassinio del premier svedese
Olof Palme, svelò alcuni particolari sulla connection CIA – P2 –
Cosa Nostra siculoamericana nel traffico di armi e droga e nel
finanziamento del terrorismo internazionale – accennò a quel
gruppo di agenti della CIA che avevano trafficato con il dittatore
libico (Wilson e Terpil, due collaboratori di Schackley). Per quanto
questo scenario possa apparire incredibile, l'estremo cinismo e la
radicale spregiudicatezza di una bella fetta dell'intelligence
statunitense sarebbe venuta alla luce con l'"October Surprise"
ovvero il tentativo ideato dal futuro vicepresidente Bush –
indicato spesso come uno dei più illustri protettori di Gelli e
della P2 – di accordarsi con gli ayatollah del regime khomeinista
dell'Iran per danneggiare l'Amministrazione Carter e favorire
l'elezione del repubblicano Reagan ritardando il rilascio degli
ostaggi dell'Ambasciata americana a Teheran.
Un affare sporchissimo
che mette in discussione i fondamenti della più potente "democrazia
del mondo" e che anticipa l'affare "Iran Contra", il
coinvolgimento dell'Amministrazione Reagan – Bush nella vendita di
un quantitativo di armi all'Iran i cui proventi avrebbero dovuto
finanziare – insieme alla droga – i contras, le milizie che
combattevano e cercavano di rovesciare il sistema sandinista del
Nicaragua. Quasi per un tragico scherzo del destino, sia Schackley
che il citato Ledeen erano coinvolti nell'affare "Iran Contra".
Una rete di rapporti che rinvia alle fazioni oltranziste e
all'anticomunismo più viscerale, nonchè, in qualche modo, alla
Loggia P2.
Apparentemente
ancora non è stata acquisita la "pistola fumante" per
dimostrare l'affiliazione o la collaborazione di Licio Gelli con
l'intelligence USA anche se lo stesso interessato avrebbe ammesso il
suo reclutamento nell'Agenzia fin dagli inizi degli anni Cinquanta.
Tuttavia in alcune informative del SISMI viene ipotizzato che il vero
"capo" della Loggia P2 fosse il magnate Eugenio Cefis, già
ufficiale dei carabinieri e partigiano, e che solo nel 1977, prima di
involarsi per la Svizzera, la consorteria sarebbe stata messa nelle
mani di Gelli e Ortolani. Per decenni Cefis ha incarnato l'anima di
una sorta di "leggenda nera", ma nella sua biografia
qualcosa si deve essere pure "attaccato". Partigiano
"bianco" con entrature nei servizi alleati angloamericani,
viene accusato di aver preso parte al complotto per l'eliminazione
del Presidente dell'ENI Mattei anche dal poeta e scrittore Pier Paolo
Pasolini in quello strano "romanzo" intitolato "Petrolio".
Da allora l'ascesa, prima alla presidenza dell'ENI e poi alla guida
della Montedison per coronare il sogno della creazione di un grande
"polo" petrolchimico e un potentato economico e finanziario
senza pari in Italia. Autorevole rappresentante di quella classe
speculativo – finanziaria che poteva e può contare sui solidi
intrecci con una politica nazionale corrotta e compromessa, Cefis
concorse a quella scalata di Rizzoli alla proprietà del Corriere
della Sera cui diedero un fattivo contributo i piduisti Gelli,
Ortolani e Calvi. Un'operazione dal sapore "politico" che
rispondeva alle sollecitazioni di chi temeva la deriva progressista –
e inevitabilmente "filocomunista" – del più importante
quotidiano nazionale.
Nel 1977 l'improvvisa "fuga" in
Svizzera in coincidenza con la stagione del Compromesso Storico.
Secondo il finanziere Aldo Ravelli, Cefis tentò la via dell'ennesimo
colpo di stato che fallì perchè mancò l'appoggio di una parte
importante della classe dirigente, finanziaria e imprenditoriale, in
primis della famiglia Agnelli che, invece, aveva avviato un corso
"dialogante" anche con il PCI. Insomma il mondo finanziario
e imprenditoriale si divise sul nuovo corso della politica italiana e
macò il sostegno necessario alle velleità golpiste e piduiste. La
rivelazione di Ravelli sarebbe stata confermata dall'"esperto"
del Dipartimento di Stato americano Steve Pieczenik il quale attribuì
a Cossiga – piuttosto che ad Agnelli – il merito di "aver
salvato l'Italia". Purtroppo mancano i necessari riscontri
documentali circa il tentativo di colpo di stato del 1977 di cui il
successivo rapimento di Moro non cosituirebbe altro che una sorta di
"strascico". Quello che, invece, è stato ampiamente
documentato soprattutto in sede della cosiddetta Commissione Anselmi
è che proprio negli anni compresi fra il 1976 e il 1978 –
successivamente alle affermazioni elettorali del PCI – si raggiunse
il massimo livello di penetrazione istituzionale da parte della P2 e,
quindi, da parte di Cefis, Gelli e Ortolani, mentre proprio in
seguito alla riforma del "Segreto di Stato" e dei servizi
di informazione – e, anzi, eludendone il dettato – i vertici dei
servizi segreti vengono occcupati da affiliati alla famigerata loggia
massonica coperta.
Un governo di "solidarietà nazionale"
con Giulio Andreotti alla presidenza del Consiglio e Francesco
Cossiga alla guida del dicastero degli Interni. Il ruolo dei
"kissingeriani", della fazione "antidemocratica"
della CIA e dell'intelligence statunitense, nonchè del "partito
del golpe" italiano e della Loggia P2 fanno sorgere anche altri
interrogativi circa la "missione" di Piecznik in Italia.
L'amerikano è stato inviato per iniziativa dell'Amministrazione
Carter – quindi, con ogni probabilità, degli artefici della
politica estera democratica, il Segretario di Stato Vance e il
Consigliere per la Sicurezza Nazionale Brzezinski – o su
sollecitazione del governo e, quindi, degli stessi Andreotti e
Cossiga ? Certo l'Amerikano si è prodigato in rivelazioni anche
contradditorie nel tempo, pur ribadendo fino alla nausea che la sua
missione non era quella di salvare Moro, bensì quella di
stabilizzare la situazione italiana anche se ciò richiedeva
sacrificare lo statista italiano, com'è poi avvenuto... E
nell'ottica statunitense – dal punto di vista dell'Amministrazione
Carter – motivi di preoccupazione non mancavano: dal pericolo di
un'effettiva "collaborazione" del prigioniero Moro con le
BR alla trascinante forza del PCI. Poi nella celeberrima intervista
rilasciata al giornalista francese Amara, è Pieczenik stesso a
rivendicare un ruolo decisivo nell'insuccesso di un tentativo
golpista perseguito da ufficiali piduisti e"vecchi arnesi
fascisti". In questo caso il progetto di Cefis e della P2 del
1977 sarebbe proseguito in quello scorcio del 1978 per franare
clamorosamente...
Assai più verosimile che, più che un tentativo o
un progetto, l'Italia abbia assistito ad un unico piano reiterato
negli anni attraverso un innalzamento sistematico del livello di
"tensione". In questo caso Tambroni, il Piano SOLO, il
tentativo del 1969 e quello di Borghese dell'anno successivo ("Tora
Tora"), la Rosa dei Venti, il golpe "bianco" della
triade Sogno – Cavallo – Pacciardi, il "colpo di mano"
del 1977 – 78, il Piano di Rinascita Democratica dei piduisti,
ecc... farebbero parte di un unico disegno rinnovato e perfezionato
nel corso dei decenni. In effetti i nomi di Gelli, Ortolani, Cefis,
Sindona, Borghese, Spagnuolo, Sogno, Pacciardi, Cavallo, il principe
Alliata di Montereale, Fumagalli, Miceli e degli altri ufficiali ai
vertici dei servizi di informazione e delle forze armate ricorrono e
si roncorrono come per indicare un'unica e precisa consorteria
coincidente con la "destra" reale del paese,
antidemocratica e ultratlantica.
Il solito Pieczenik ha avuto modo di
sottolineare i noti legami di Gelli e della P2 con la giunta militare
e golpista argentina, ma, prevedibilmente, ha taciuto sui più
scabrosi rapporti dei piduisti con insospettate personalità della
finanza, della politica, della diplomazia e dell'intelligence
statunitense. Proprio sul finire del mese di marzo del 1978 – e
questa concomitanza di fatti, di eventi e di circostanze sarebbe da
tenere ben presente – Piecznik sarebbe giunto in Italia e avrebbe
chiesto di soggiornare all'Hotel Excelsior – a due passi
dall'Ambasciata statunitense -, lo stesso in cui il Venerabile
riceveva ministri, finanzieri, militari e direttori dei servizi di
informazione. Una semplice coincidenza ? Oppure i due si dovevano
incontrare al riparo da occhi indiscreti ? Designato dal Segretario
di Stato Kissinger e confermato nel suo ruolo dal successore
"democratico" Vance, Pieczenik poteva anche "fungere"
da cerniera e mediatore delle due fazioni. In ogni caso, assumendo e
dando per scontata la natura della missione dell'Amerikano, cosa
preoccupava in modo particolare determinati ambienti e circoli al di
qua e al di là dell'Oceano ? Qual'era la missione di Pieczenik ?
Torneremo sull'argomento...
In
merito ai progetti di "colpo di mano" perseguiti dagli
oltranzisti italiani e dai referenti d'oltreoceano, è probabilmente
sempre lo stesso Gelli a chiarire quel che è accaduto in questi
anni, quando, nel corso di una delle ultime interviste, ha alluso a
una sorta di pianificazione risalente ai primi anni del Dopoguerra in
base a cui, mentre particolari "strutture" clandestine
(GLADIO ?) si sarebbero dedicate a innalzare la tensione per creare
le condizioni per uno stato di emergenza, gli americani avrebbero
messo a punto l'intervento militare. Pura fantapolitica ? Chi
vivrà...
Kissinger,
Haig, Schackley, Bush, Ledeen, Cefis, Gelli, ecc... Che cosa tiene
insieme questi personaggi americani e italiani ? E come si situa
l'"esperto" dell'antiterrorismo del Dipartimento di Stato
Pieczenik ? Ancora siamo in attesa di incasellare le pedine nelle
corrispondenti caselle...
In
questo carosello di rimandi e "salti" temporali,
Cucchiarelli cita un intervento dell'allora Presidene della
Repubblica Cossiga in occasione di una manifestazione della Marina
Militare a La Spezia, nel lontano marzo del 1991. Qualche giorno dopo
il prelevamento di Moro in via Fani, sarebbe stata individuata la
"prigione del popolo" brigatista in zona corrispondente al
47 km dell'Aurelia. Già il 21 marzo 1978 sarebbe stato approntato un
reparto composto da elementi delle unità speciali militari (i GOS)
provenienti soprattutto dal COMSUBIN, ma anche dal COL MOSCHIN, dal
Tuscania, San Marco, ecc... per "liberare" Moro. Nome in
codice dell'operazione SMERALDO, con il contributo significativo
delle SAS inglesi e di esperti tedeschi. Il comando delle operazioni
sarebbe stato insediato in Inghilterra. Alla costituzione di reparti
militari specializzati nell'antiguerriglia pronti ad essere
mobilitati per individuare il covo – prigione in cui era detenuto
il Presidente della DC viene anche dato un certo risalto sulla
stampa, probabile indizio del fatto che, forse, tale impiego di mezzi
e uomini dotati di una particolare formazione poteva rientrare in
quelle che sono state definite "operazioni di parata" dal
giudice Pascalino.
Un contrordine blocca l'operazione e, secondo
Cucchiarelli, questa decisione era stata presa perchè in tal modo di
sarebbe violata una zona "off limits", strettamente
controllata da particolari ambienti e circoli angloamericani. Senza
affermarlo esplicitamente la supposizione del giornalista rimanda
ancora una volta a qualche illustre straniero entrato a far parte
della Nobile Casata Caetani. Nel corso di una delle ultime interviste
rilasciate – per l'occasione, allo specialista di "misteri
d'Italia" Giovanni Fasanella – Cossiga confessò di non aver
mai avuto reale potere decisionale durante i 55 giorni di agonia
dell'Onorevole Moro, ma di essersi rimesso a una sorta di "direttivo"
della STAY BEHIND, organismo inquadrato nella NATO. Il riferimento
dalla GLADIO/STAY BEHIND ha qualcosa da spartire con l'impiego delle
unità speciali della Marina e dell'Esercito ? Pare quasi certo,
invece, che il covo o i covi in cui era tenuto in ostaggio Moro
fossero ben conosciuti e, tuttavia, nulla si fece per attuare il
blitz. Perchè ?
Rifacendosi al classico di Sciascia "Affaire
Moro", il giornalista dell'ANSA sostiene in maniera suggestiva e
piuttosto convincente che Moro fosse ben consapevole che sarebbe
stato un probabile blitz con il presumibile intento di liberare il
progioniero delle BR e che avesse timore di tale eventualità. Da
questo punto di vista per Moro la trattativa avrebbe costituito un
passaggio obbligato e, in qualche modo, lo statista avrebbe poi
iniziato a "negoziare" per conto delle BR o a indicare la
strada per una via d'uscita. Questa concomitanza di eventi e gli
interrogativi circa la condotta dell'Onorevole Moro fanno sorgere il
dubbio che, probabilmente, l'incursione delle forze speciali non
avrebbe avuto la finalità di trarre in salvo l'ostaggio dei
brigatisti. In tal modo il famoso e ultracitato articolo di Pecorelli
su OP - nel quale si citava il generale Amen – potrebbe essere
interpretato in maniera diversa... Gli ufficiali piduisti avrebbero
optato per un deciso intervento – "decidere su due piedi"
-, ma il Ministro degli Interni Cossiga temeva una sortita che
avrebbe provocato la morte di Moro e avrebbe aperto la strada alla
"mediazione vaticana" (la "risposta da prete") e
coinvolto quella parte della massoneria in rapporti con potenti
personalità della Santa Sede (la Gran Loggia Vaticana ?).
Si
determina così, una sorta di situazione di stallo in cui, in qualche
modo, le parti in causa comunicano attraverso modalità, linguaggi e
canali particolari. La sceneggiata maturata intorno a via Gradoli e
al covo del presunto capo delle BR Moretti è piuttosto
illuminante... Il 18 marzo – ad appena due giorni dal sequestro –
la PS bussa alla porta dell'abitazione occupata dalla coppia Moretti
– Balzerani. Ai primi di aprile si mettono a punto bizzarri
espedienti – o pretesti – come la seduta spiritica che coinvolse
alcuni stimati professori di area cattolica – fra cui Romano Prodi
– e si "giustifica" il finto rastrellamento del paese di
Gradoli, Infine, nel fatidico 18 aprile, si inscena una doppia
rappresentazione con la "scoperta" del covo di via Gradoli
96 e la diffusione del "falso" comunicato del Lago della
Duchessa con l'ennesimo, infruttuoso e grottesco massiccio impiego
dell'esercito e delle forze dell'ordine. Al pari della Limiti –
sempre secondo quanto riportato nel suo libro sull'ANELLO –
Cucchiarelli è convinto che, sempre nei pressi di via Gradoli,
vicino all'appartamento affittato dalla coppia Moretti – Balzerani,
fosse stata allestita una delle "prigioni del popolo"
brigatiste, circostanza confermata anche dalla testimonianza del capo
della NCO Cutolo e dalla vicenda del contatto di alcuni malavitosi
calabresi con l'Onorevole Benito Cazora. Citando un'inedita
dichiarazione dell'Onorevole Tina Anselmi – già Presidente della
Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulla Loggia massonica
Propaganda Due – sembrerebbe che tutti sapessero dell'ubicazione
del covo – prigione brigatista in via Gradoli, ma non si intervenne
per una serie di circostanze concomitanti e, forse in primis, i
rischi di un blitz che, forse, qualcuno poteva suggerire per
eliminare i sequestratori ma, soprattutto, il sequestrato. In qualche
modo diventa percorribile la via di una trattativa... Ma qual'è,
alfine, l'oggetto o quali sono gli oggetti di un negoziato che si
preannuncerebbe spinoso e delicato ?
Uno
dei grandi assenti de "Morte di un Presidente" è proprio
quell'ipotesi del "doppio ostaggio" che venne formulata in
primis dal Presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino.
Anche Cucchiarelli parla di Moro come di un "doppio ostaggio",
da una parte dello Stato e dall'altra delle BR, ma Pellegrino,
invece, si riferiva al fatto che le BR potevano trattare non solo per
la liberazione di Aldo Moro, ma anche per lo scambio di quelle carte
e di quei documenti che lo statista recava con sè... Ancora oggi non
è realmente chiaro a quali carte ci si riferisca. Al famoso
Memoriale ? Alle lettere da Moro durante la prigionia ? Ai documenti
contenuti nelle borse, presumibilmente prelevate assieme al
sequestrato ? O a cos'altro ?
Il
1 ottobre 1978 le forze dell'ordine conseguono uno straordinario
risultato contro il Partito Armato: i nuovi nuclei antiterrorismo del
generale Dalla Chiesa arrestano un nutrito gruppo di brigatisti
smantellando alcuni covi nel Nord Italia. In particolare viene
individuato e perquisito il covo di via Monte Nevoso 8 – a Milano -
con il conseguente arresto di ben due componenti del comitato
esecutivo delle BR, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. Un successo per
lo Stato italiano che, però, con il trascorrere degli anni,
moltiplica dubbi e interrogativi circa la possibilità di stroncare
il terrorismo brigatista anche prima del sequestro e dell'assassinio
dell'Onorevole Moro. L'efficienza degli uomini al servizio del
generale Dalla Chiesa contrasta con l'apparente impotenza sfoggiata
solo qualche mese prima. Nel periodo compreso fra il secondo arresto
di Renato Curcio, uno dei fondatori delle BR e il blitz di via Monte
Nevoso, il Partito Armato agisce e si muove completamente
indisturbato, nell'inerzia inspiegabile – o spiegabilissima –
delle forze dell'ordine, di sicurezza e dei servizi di'informazione.
Nell'agosto di quello stesso anno – a pochi mesi dal rinvenimento
del cadavere di Moro in via Caetani – il Presidente del Consiglio
Giulio Andreotti e il Ministro degli Interni Virginio Rognoni
conferiscono pieni poteri in materia di contrasto al terrorismo al
generale Dalla Chiesa attraverso il coordinamento dei servizi di
informazione e sicurezza, dell'Arma dei Carabinieri, della polizia e
della Guardia di Finanza. Ma qual'è l'obiettivo precipuo che
sottende questa decisione politica ? Solo la necessità di
rassicurare il paese circa la determinazione e la risolutezza dello
Stato italiano nel perseguire e neutralizzare il terrorismo
brigatista responsabile del più grave delitto politico della
Repubblica italiana ?
Nel corso della perquisizione in via Monte
Nevoso i carabinieri rinvengono la copiosa documentazione prodotta
nel corso della prigionia di Moro, fra cui la copia dattiloscritta
del famoso memoriale e alcune missive. Secondo l'informatissimo
Pecorelli il memoriale presentato alla stampa non è completo e manca
di alcuni passaggi decisivi come il riferimento al tentativo golpista
del principe "nero" Junio Valerio Borghese. In effetti
dodici anni dopo, dietro un'intercapedine in uno dei locali
dell'appartamento di via Monte Nevoso 8 viene ritrovata una versione
più voluminosa del memoriale contenente, fra l'altro, riferimenti a
quella strategia "antiguerriglia" che rimanda
all'organizzazione GLADIO e giudizi sferzanti sul Presidente del
Consiglio. Nell'ottobre 1990 – qualche giorno dopo – il
Presidente del Consiglio Andreotti relazionò alla Camera sulla
GLADIO minimizzandone la portata. Nel corso degli anni si è
sedimentata la convinzione che del materiale da classificare come
"Segreto di Stato" fosse stata trafugato e sottratto al
legittimo vaglio della Magistratura. Ma chi si è speso per tutelare
quei documenti riservati finiti in qualche modo nelle mani delle BR ?
Durante
una drammatica udienza della prima Commissione Moro il generale Dalla
Chiesa, intervistato dallo scrittore Leonardo Sciascia, commissario
in quota Partito Radicale, ammise che qualcuno poteva aver "recepito"
le carte di Moro prima del blitz nel covo brigatista di via Monte
Nevoso 8. Secondo uno dei più stretti collaboratori del generale nei
nuclei antiterrorismo – Nicolò Bozzo – Dalla Chiesa era convinto
che un'altra "cordata" di carabinieri – con evidente
richiamo ai piduisti della Divisione Pastrengo di Milano – avesse
trattato con i brigatisti per la consegna di quei documenti – il
memoriale ? I documenti delle borse ? Cos'altro ? -. Solo qualche
mese dopo – il 3 settembre 1982 – il generale - e adesso
neoprefetto di Palermo - e la sua giovane consorte cadono vittime di
un cruento agguato mafioso, sul quale persistono molti dubbi. Nella
residenza palermitana di Dalla Chiesa, a villa Pajno, qualcuno
sottrae dei documenti da una cassaforte. Qualche giorno dopo il
prefetto Dalla Chiesa avrebbe dovuto testimoniare al processo sul
delitto Moro. Possibile che la matrice dell'assassinio del prefetto
di Palermo fosse esclusivamente da ricondurre al "terrorismo
mafioso" del clan corleonese e dei loro alleati catanesi ? Se
nel corso dell'udienza in Commissione il generale Dalla Chiesa
intendeva indirizzare un messaggio ai declinanti ufficiali piduisti,
nel dicembre del 1978 un molto loquace Venerabile Gelli esternava ai
suoi interlocutori - il generale Umberto Nobili al servizio del SIOS
Marina e un altro singolare personaggio, il giornalista "ufologo"
Marcello Coppetti – alcune sorprendenti rivelazioni.
Sarebbe
stato lo stesso Dalla Chiesa a chiedere ad un preoccupato Andreotti
il conferimento di pieni poteri in materia di lotta e contrasto al
terrorismo allo scopo di recuperare le carte di Moro ancora in mano
ai brigatisti. Secondo Gelli la fonte del generale sarebbe stata un
giovane carabiniere infiltrato nelle BR , in questo modo Dalla Chiesa
sarebbe stato messo al corrente sia dell'ubicazione della "prigione"
brigatista" che dell'esistenza di documenti riservati. Le
circostanze dell'incontro a Villa Wanda vengono riportate nel
cosiddetto "documento Coppetti", ma in sede di Commissione
i testimoni aggiungono poco o nulla sulla singolare "loquacità"
di Gelli. Pura millanteria, oppure il presunto capo della Loggia P2
riferiva circostanze realmente accadute per far capire ai suoi
interlocutori che sapeva che il materiale trovato in via Monte Nevoso
era stato classificato come "Segreto di Stato" ? Quasi
sicuramente pare di assistere alla schermaglia fra due protagonisti
non certo secondari dell'affaire Moro – il generale Dalla Chiesa e
Gelli – intenti a scambiarsi messaggi dal contenuto "minaccioso"
come se ognuno dei due avesse elementi sufficienti per muovere
all'altro pesanti accuse. Se Gelli si "divertiva" a
raccontare una storia "vera" chi poteva essere il
carabiniere infiltrato nelle BR dal generale Dalla Chiesa ? Il nome
non è mai emerso o non è mai stato fatto esplicitamente...
Chi
si è occupato dell'affaire Moro in tutti questi anni sa bene che
quando si parla delle "carte" dello statista si riferisce a
una molteplicità di documenti di diversa natura come il memoriale,
le lettere scritte durante la prigionia o i documenti contenuti nelle
borse e, apparentemente, scomparsi nel corso dell'agguato di via
Fani. Dopo la fruttuosa irruzione degli uomini di Dalla Chiesa
nell'appartamento – covo di via Monte Nevoso, un giornalista
dell'"Espresso" molto ben informato e in contatto con
ambienti vicini ai brigatisti – Mario Scialoja - scrisse un
articolo ricco di particolari inediti nel quale si asseriva che il
cosiddetto memoriale non era completo. Fra le parti mancanti, la
parte di interrogatorio in cui il "prigioniero" Moro
rispondeva ad una domanda relativa all'omicidio del rappresentante di
Al Fatah in Italia Wael Zweiter, un intellettuale palestinese molto
stimato in Italia, "giustiziato" da una squadra di killer
del MOSSAD per ritorsione nei confronti della strage di atleti
israeliani massacrati da "Settembre Nero" nel corso dei
giochi olimpici di Monaco del 1972. L'argomento avrebbe introdotto la
scottante questione degli accordi in base a cui la CIA, il MOSSAD e i
servizi segreti delle principali potenze aderenti alla NATO sarebbero
state libere di mettere in atto covert operations – quindi anche
attentati o assassinii – sul territorio italiano.
In sede di
Commissione Stragi lo stesso Scialoja affermò che nel corso del
sequestro, per dimostrare la fondatezza e l'attendibilità delle sue
risposte, Moro fece consegnare alcuni documenti riservati che aveva
custodito presso lo studio di via Savoia. Non sono mai giunte
conferme sui particolari inediti svelati dal giornalista
dell'"Espresso" – autore, fra l'altro, di un libro –
intervista del capo brigatista Renato Curcio – che sembrano
incredibili in un frangente o contesto in cui massima doveva essere
la mobilitazione delle forze dell'ordine per identificare la
"prigione" di Moro e per liberarlo per cui anche la
sorveglianza dello studio del Presidente della DC doveva essere
discreta ma continua. E poi quei documenti furono prelevati dalle BR
? Oppure qualche collaboratore di Moro – Sereno Freato, forse... -
era stato incaricato di provvedere immediatamente allo scopo di
agevolare un'eventuale trattativa ? Nulla di definitivo e di certo si
può dire anche se le risposte di Scialoja metterebbero al loro posto
alcuni tasselli di questa storia apparentemente molto complicata,
eppure in qualche modo semplice se si sciolgono i nodi fondamentali.
C'erano
documenti particolarmente "riservati" e custoditi dalle BR
nel covo di via Monte Nevoso ? Nel classico "La tela del ragno"
(edizioni KAOS) è uno dei più autorevoli studiosi dei fenomeni
legati al piduismo, alla "strategia della tensione" e al
brigatismo, già membro anche della prima Commissione Moro – il
senatore del PCI Sergio Flamigni – a dare una risposta a questo
interrogativo. Nel 2001 i consulenti della Commissione Stragi Libero
Mancuso e l'archivista Gerardo Padulo avrebbero casualmente scoperto
due faldoni classificati con la dicitura "Segretissimo"
presso gli archivi della DIGOS di Roma e intestati ""A-4.
Sequestro Moro – Covo di via Monte Nevoso. Rinvenimento del 9
ottobre 1990 – Carteggio." e "Sequestro Moro – Elenchi
appartenenti Organizzazione GLADIO". Nel secondo faldone erano
presenti due documenti interessanti intitolati "Moro elenco"
una nota "Riservato" firmata dal Questore di Roma Umberto
Improta avente per oggetto: "Sequestro Moro – via Monte Nevoso
– Elenchi appartenenti Organizzazione GLADIO". Insomma, fra le
altre cose, i brigatisti sarebbero entrati in possesso di documenti
relativi alla struttura clandestina atlantica GLADIO allestita in
funzione antisovietica e antiPCI probabilmente grazie a qualche
collaboratore di Moro – o agente dei servizi segreti ? -.
Si tratta
indubbiamente di materiale estremamente riservato e questa
"aquisizione" documentale si incastra piuttosto bene con i
particolari riferiti da Mario Scialoja. Ma sono pure compatibili e
corroborati nel loro significato da quanto rivelò l'ammiraglio
Fulvio Martini, già direttore del SISMI come uomo di fiducia del
Presidente del Consiglio Bettino Craxi e, all'epoca del sequestro
Moro, responsabile per i rapporti nel settore europeo. Quando, nei
primi giorni di aprile, venne aperta una cassaforte del Ministero
della Difesa per il passaggio di consegne dal Ministro Vito Lattanzio
ad Attilio Ruffini, scattò l'allarme immediato. Il documento
contenente la lista di appartenenti alla struttura GLADIO era
scomparso, trafugato da qualcuno... E'altamente probabile che
l'ammiraglio si riferisse proprio a quei documenti custoditi in via
Monte Nevoso e presumibilmente recuperati dai nuclei del generale
Dalla Chiesa. Tutti questi elementi e queste circostanze inducono a
riconsiderare questa fase della vicenda e a ritenere che, se approcci
vi furono e se riservatamente si trattà con le BR, allora l'oggetto
dello scambio doveva senz'altro essere "doppio" – lo
stesso Moro e le carte in suo possesso – come ipotizzato
dall'ultimo Presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino.
Dunque,
alla luce di questi ipotetici nuovi scenari, in che cosa sarebbe
consistita concretamente la missione "stabilizzatrice"
dell'amerikano Pieczenik ? Escludendo il suo arrivo a Roma in periodo
immediatamente successivo al 16 marzo e collocandolo, invece, dieci
giorni dopo, potrebbe essere formulata qualche risposta. Infatti,
alla fine di marzo possiamo far risalire l'approccio di don Enrico
Zucca – indicato come elemento vicino al misterioso ANELLO – con
un brigatista "dissidente" e il tentativo fallito del
sottosegretario agli Interni Zamberletti di avvicinare un analogo
soggetto. Allo stesso periodo risalgono le lettere scritte da Moro
alla moglie Eleonora, al segretario Nicola Rana e al Ministro degli
Interni Francesco Cossiga nel tentativo di avviare riservatamente
canali per la trattativa e il comunicato numero 3 delle BR che
ribadisce la contrarietà dell'organizzazione rispetto a qualsiasi
negoziato riservato ("nulla deve essere nascosto al popolo").
Dal tono della lettera a Cossiga – che doveva rimanere riservata e
che, invece, le BR decidono di pubblicare – Moro faceva capire che
"in certe condizioni poteva essere indotto a parlare".
Quindi, assumendo che l'opzione del blitz delle forze speciali fosse
stato accantonato anche perchè avrebbe avuto come principale
conseguenza la morte dell'ostaggio – cercata e voluta ? - e che,
agli occhi di chi era al corrente degli sviluppi della vicenda, Moro
aveva collaborato con le BR, rispondendo alle loro domande e,
probabilmente, consegnando loro del materiale riservato e scottante,
si profilava una situazione di "stallo" che cercheremo di
descrivere sommariamente. In qualche modo gli agenti reclutati
dall'ANELLO vengono interpellati per offrire un'ingentissima somma
per liberare il prigioniero o, più probabilmente, per recuperare le
carte. In questo contesto il Dipartimento di Stato non può che
temere il pericolo di una diffusione di talune notizie riservate che
potrebbero mettere in discussione i rapporti bilaterali USA –
Italia e gettare discredito agli occhi dell'opinione pubblica. Non
può essere un caso che Pieczenik scelga di soggiornare nello stesso
hotel di Gelli, a due passi dall'Ambasciata USA. Forse da quel
momento, dalla fine di marzo, il Dipartimento di Stato USA e il
governo italiano decidono di mettersi nelle mani di un personaggio
comunque autorevole ed esperto, non solo nelle tattiche di contrasto
al terrorismo, ma anche nella gestione di negoziati in certi
difficili frangenti. Forse l'Amerikano è anche chiamato a rintuzzare
le velleità di taluni elementi.
Il fulcro delle operazioni passa
dagli ufficiali delle forze armate e dai vertici dei servizi di
informazione iscritti alla Loggia P2 – e legati a precise fazioni
americane – al Comitato Esperti ove Pieczenik può avvalersi della
collaborazione di professori specializzati in diversi settori della
conoscenza come il criminologo Franco Ferracuti e l'esperto di
geopolitica Stefano Silvestri. Ne "Il Noto Servizio"
(Castelvecchi) lo storico Aldo Giannuli, che mostra di aderire alla
tesi del "doppio ostaggio", viceversa trascurata dal libro
di Cucchiarelli, elenca quelli che potevano essere gli obiettivi
fissati dall'Amerikano: a) recuperare il materiale (documenti,
nastri, memoriale, ecc..) del sequestro; b) costringere le BR al
silenzio; c) "neutralizzare" Moro e le sue esternazioni.
Non esiste un preciso riscontro documentale su quanto ha scritto
Giannuli, tuttavia la logica e la consequenzialità dei fatti
sembrerebbe dare ragione allo studioso.
Se
ci si immedesima nell'ottica americana o, quantomeno, in quella
dell'Amministrazione che Pieczenik era chiamato a rappresentare, non
sorprende che l'Amerikano e i suoi collaboratori – Ferracuti in
primis – si fossero, innanzitutto, dati da fare per togliere
credibilità al prigioniero delle BR e a qualificarlo come "affetto
dalla Sindrome di Stoccolma".
L'operazione era piuttosto
agevole, ma più ricca di incognite dovevano risultare i tentativi di
costringere le BR a trattare. In questo senso può essere compresa la
proposta avanzata al gangster Turatello di far prendere in ostaggio
dai suoi uomini i brigatisti reclusi nel carcere di Cuneo. Una
pressione per costringere i terroristi a trattare e "scambiare"
il prigioniero ? Mettendo da parte il discorso sulle tecniche di
"guerra psicologica" e di manipolazione o terrorismo
psicologico, la questione della trattativa ricorre nella missione di
Pieczenik. Nella versione dell'Amerikano, confermata in qualche modo
da Cossiga, si era fatto in modo di creare lo scenario adatto alla
trattativa individuando anche un intermediario credibile e
spendibile. A detta degli interessati l'obiettivo non sarebbe stato
quello di intavolare realmente una trattativa, ma di prendere tempo
convincendo i brigatisti sulle intenzioni della controparte. In tal
modo si sarebbe data l'opportunità alla DC di rilanciare una
convincente immagine all'insegna della "fermezza" da
contrapporre al PCI che rischiava di occupare la scena politica nella
ferma e convinta posizione di rifiuto del terrorismo brigatismo.
Nello stesso tempo si deve registrare l'attivismo craxiano per un
impegno "umanitario" e unilaterale" per la salvezza di
Moro, che avrebbe dovuto concretizzarsi in un atto di clemenza nei
confronti di alcuni brigatisti detenuti. In sospeso rimane la
domanda: ma Pieczenik considerava l'ipotesi di trattativa un mero
espediente per mettere in trappola le BR, oppure c'era dell'altro. Si
è svolto un negoziato con l'avallo di alcuni ambienti d'oltreoceano
? Per molti anni si è creduto che la missione di Pieczenik si fosse
esaurita con la proposta di diffondere un falso comunicato brigatista
per disorientare le BR, come succederà il 18 aprile. Qualche giorno
prima, il 15 aprile, l'Amerikano torna a Washington per relazionare
al Dipartimento di Stato e, a quanto pare, quel rapporto è stato
classificato "Segretissimo" per questioni di Sicurezza
Nazionale. Dopo il 18 aprile – e, quindi, dopo che sono state
valutare le reazioni all'esito della "doppia operazione"
della scoperta pilotata del covo di via Gradoli e della diffusione
del falco comunicato del Lago della Duchessa – però Pieczenik
torna in Italia. Da un documento datato 25 marzo 1978 consegnato nel
1993 dall'allora Ministro degli Interni Scotti alla Commissione
Stragi, si rileva come l'esperto americano stesse collaborando alla
proposta di una trattativa anche per valutare gli elementi utili per
un blitz. Ma qualunque fosse la finalità di un approccio negoziale
con i brigatisti, qual'era l'oggetto di scambio ? E chi poteva
proporsi come mediatore ed intermediario ?
Molte
pagine de "Morte di un Presidente" sono dedicate alla
mediazione offerta e condotta per conto del Vaticano e di Papa Paolo
VI, secondo una delle ultime rivelazioni dell'allora Presidente del
Consiglio Andreotti e poi confermata da altre fonti. In accordo con
la tesi anche noi riteniamo che Papa Paolo VI fosse veramente l'unico
ad avere a cuore la vita e la sopravvivenza dell'amico Moro dai tempi
delle FUCI. In qualche modo il Papa rimase vittima dell'inganno
perpetrato dall'Amerikano Pieczenik e da una fazione "massonica"
maggioritaria in Vaticano probabilmente legata alla Loggia P2 per
cui, dopo l'estenuante "trattativa", Moro sarebbe stato
assassinato così come previsto da coloro che avevano circuito il
pontefice. Questa tesi era già stata accennata da Alessandro Forlani
ne "La zona franca" (Castelvecchi), uno degli ultimi saggi
dedicati all'affaire Moro. La tesi di Cucchiarelli è inedita e degna
di rilievo: in realtà la trattativa sarebbe stata una sola e
avrebbe comportato il coinvolgimento e la mobilitazione di diversi
soggetti per mettere a punto la complicata trama dei vari "scambi"
concordati con i brigatisti.
Se il Vaticano, attraverso il
coordinatore del cappellano delle carceri Cesare Curioni – il
religioso che doveva attendere l'arrivo di Aldo Moro uscito vivo
dalla o dalle "prigioni del popolo" – si era assunto il
compito di trattare con i terroristi, i servizi segreti militari
avrebbero attuato le modalità dello "scambio di prigionieri".
Se il famoso colonnello Giovannone contattò la dirigenza dell'FPLP
di George Habbash per garantire la disponibilità yemenita ad
accogliere i brigatisti liberati, il già citato ammiraglio Martini
doveva intercedere con il Presidente jugoslavo Tito per ottenere la
liberazione di alcuni terroristi tedeschi della RAF. Un fatto,
quest'ultimo, indicativo della più che plausibile partecipazione dei
tedeschi all'operazione Moro. Dunque, si trattava senza dubbio di un
negoziato riservato e condotto al di fuori dei normali canali legali
ed istituzionali, che comprendeva uno scambio di ostaggi – sulla
falsariga di quello che lo stesso Moro aveva prospettato nelle
lettere a Piccoli e Bartolomei – e il pagamento di un riscatto di
notevole entità. Il Vaticano avrebbe offerto asilo all'Onorevole
Moro dopo la sua liberazione. Secondo don Fabbri, collaboratore
stretto di don Cesare Curioni – la cifra sarebbe stata raccolta da
ambienti finanziari ed industriali del Nord Italia, ma è assai
difficile escludere a priori che lo IOR sotto la Presidenza del
discusso Monsignor Paul Marcinkus non avesse partecipato alla
raccolta. Significativamente, fra i reperti trovati e classificati
nell'abitazione di Giuliana Conforto in viale Giulio Cesare ove, il
solito Morucci aveva per le mani un appunto con il recapito
telefonico del Monsignore. E curiosamente, il giovane e modesto
parroco della Chiesa di Santa Lucia don Antonello Mennini, indicato
come il religioso che "entrò nel carcere brigatista e confessò
Moro", era nipote di Luigi Mennini, stretto collaboratore di
Marcinkus nella gestione dello IOR. Una serie di circostanze
singolari e di "coincidenze", tanto più che, come altri
personaggi coinvolti nell'affaire, don Mennini assisterà ad una
svolta radicale nella propria carriera, fino alla nunziatura
apostolica a Londra. Inutile sarebbe rammentare come l'entrata in
scena dello IOR rimandi anche alle speculazioni e alle operazioni
finanziarie spericolate del bacarottiere siciliano mafioso e piduista
Michele Sindona, nonchè alle convulse vicende del Banco Ambrosiano
guidato dal piduista Roberto Calvi. Tutti soci di Monsignor
Marcinkus...
Ad
una pista che conduce allo IOR, il giornalista dell'ANSA mostra di
credere in maniera convinta riprendendo l'allusione dell'articolo
dello scrittore Pietro Di Donato circa l'esistenza di una "prigione"
sulla Balduina. E' veramente il garage sotterraneo dell'edificio di
via Massimi 91 – di proprietà dello IOR – quello che è servito
ad ospitare le vetture usate nel sequestro ? In tal caso tutta la
vicenda assumerebbe una piega ambiguamente torbida e sinistra.
Se
veramente don Curioni ha negoziato riservatamente per conto del Papa,
allora l'approccio "umanitario" e il gesto di clemenza
evocati a vario titolo dal segretario del PSI Bettino Craxi e dal
Presidente del Senato Amintore Fanfani non costituiscono altro se non
una "facciata" manifesta e legalitaria che copre quello che
avviene altrove e con maggiore "incisività".
Tuttavia
noi abbiamo modo di ritenere che l'ipotesi del "doppio ostaggio"
sia quella corretta anche se trascurata da Cucchiarelli e l'aggiunta
di tutti i capitoli che riguardano quanto disse Moro alle BR e i
documenti giunti nelle mani dei terroristi pongono altri impellenti
interrogativi. In qualità di "capo" dei cappellani delle
carceri don Curioni poteva essere benissimo in contatto con un
brigatista detenuto, oppure con un malavitoso che si era
"policizzato" ed era stato reclutato nel Partito Armato. Ma
non è più verosimile che il religioso si possa essere affidato
anche ad uno di questi soggetti che, però, rispondeva ad "altri"
? Secondo la testimonianza di don Fabbri, don Curioni avrebbe
incontrato spesso qualcuno alla stazione di Napoli, ma
l'interlocutore del religioso non è mai stato individuato.
Soprattutto quello che lascia perplessi è che un negoziato riservato
di un certo livello possa essere affidato a chierici o malavitosi,
senza una mediazione più qualificata. Ma se non è don Curioni il
mediatore della "trattativa" di chi stiamo parlando ?
E'
abbastanza noto che il Presidente del Consiglio Andreotti fece
pressione su Papa Paolo VI per impedirgli di assumere le redini di
un'interlocuzione palese e pubblica e, apparentemente, per
salvaguardare quel "partito della fermezza" che poggiva
sull'asse DC – PCI. In questo modo il Vaticano finiva per assumere
le vesti di attore "secondario", disponibile a fare quanto
possibile per la salvezza di Moro, ma relegato a una sorta di ruolo
scritto e deciso da altri (la questione della raccolta dei fondi per
il riscatto). Un tale negoziato poteva essere gestito e condotto da
qualche soggetto ben introdotto nei servizi segreti o in un strutture
ultrariservate che potevano essere state attivate pure dal Vaticano.
E' comunque difficile pensare che don Curioni potesse rispondere a
tali requisiti. Per un certo periodo – come riportato ne "Il
misterioso intermediario" di Fasanella e Rocca – è stato
ipotizzato un ruolo dei membri stranieri della famiglia Caetani,
ovvero il direttore d'orchestra Igor Markevitch e il nobile
angoamericano Hubert Howard, ma probabilmente sulla questione ha
ancora una volta ragione Aldo Giannuli e quel compito delicato poteva
essere svolto da un soggetto discreto e apparentemente insignificante
come l'ex ufficiale dell'aeronautica della RSI Adalberto Titta, capo
operativo del servizio supersegreto ANELLO. E' lui a vantare un
contatto con i brigatisti ed è sempre lui a proporre il pagamento di
un ingente riscatto per la liberazione di Moro.
Inoltre è sempre
padre Zucca, uno dei collaboratori dell'ANELLO, a rivelare un
contatto con un brigatista dissidente, mentre un altro personaggio
vicino all'organizzazione, il giornalista di "Candido" e
senatore missino Pisanò è stato uno dei primi a scrivere
dell'ipotesi del pagamento di una grossa cifra per ottenere dai
brigatisti la liberazione di Moro. Secondo due amici e stretti
collaboratori del Titta, il medico Giovanni Pedroni e Michele
Ristuccia, la proposta del riscatto sarebbe stata respinta dal
Presidente del Consiglio che avrebbe deciso da "non fare nulla",
stoppando l'iniziativa dell'uomo dell'ANELLO. Ci si dovrebbe
domandare, comunque, se le cose non andate veramente in questo modo e
se Titta ha raccontato veramente come stavano le cose. Anche padre
Zucca ha puntato il dito accusatore sul Presidente del Consiglio
Andreotti e, tuttavia, se si guarda al versante vaticano della
vicenda si scopre che qualcosa si stava muovendo se è vero che alla
mattina del 9 maggio si attendeva la liberazione di Moro.
In
una delle sue ultime interviste il Venerabile Gelli si lanciava in
una delle sue memorabili esternazioni secondo cui la politica
italiana sarebbe stata "controllata" da lui attraverso la
Loggia P2, da Andreotti attraverso l'ANELLO e da Cossiga con la
GLADIO. Forse, come giustamente osserva Giannuli, più che un capo,
Andreotti era il referente politico dell'organizzazione. Invece è
stato poco indagato il contatto americano dell'ex ufficiale
dell'aeronautica della Repubblica Sociale di Salò, tale "dottor
Lupo", dirigente della base NATO di Bagnoli.Questo rapporto
viene citato in un rapporto del servizio informazioni civile nel 1979
e ci induce a porre legittimamente l'interrogativo se l'iniziativa di
una trattativa per il pagamento del riscatto non sia stata presa
proprio da questo misterioso ufficiale statunitense a cui il Titta
avrebbe fatto riferimento. Ma agli ufficiali americani stava così a
cuore la salvezza di Moro ?
Se
non è stata raggiunta la certezza circa l'identità del misterioso
"negoziatore" che trattò con le BR per la liberazione del
"doppio ostaggio", altri elementi corroborano l'ipotesi che
possa essere identificato con Adalberto Titta. Tre anni dopo, in
occasione del sequestro dell'Assessore ai lavori pubblici della
Regione Campania da parte delle Brigate Rosse – Partito Guerriglia,
il SISDE avviò i primi contatti con il boss della Nuova Camorra
Organizzata Raffaele Cutolo per aprire un canale di trattativa con i
terroristi. Evidentemente il rapimento aveva gettato allarme non solo
nelle file delle correnti campane della DC, ma a livello nazionale,
per cui si era cercato di trovare una soluzione che salvaguardasse
gli uomini del partito in maniera discreta. Si doveva trattare di una
sorta di "consuetudine" nella DC se è vero che anche nel
corso del periodo del sequestro Moro furono sempre alcuni politici e
notabili democristiani a cercare i contatti con la criminalità
mafiosa e organizzata al fine di trattare per la liberazione di Moro.
Ovviamente non si potevano non temere le risposte del Presidente
della DC in quella sorta di controprocesso che i terroristi
opponevano a quello che il Tribunale di Torino stava cercando di
condurre nei confronti del nucleo storico delle BR. Orbene Cutolo
chiese e ottenne che il SISDE venisse rimpiazzato dal SISMI – il
servizio informazioni del Ministero della Difesa – allo scopo
precipuo di ottenere garanzia e collaborazione proprio dal Titta. La
conclusione della vicenda è nota: la liberazione dell'ostaggio che,
però venne ridotto al silenzio, il pagamento di un riscatto che solo
in parte finì nelle mani dei brigatisti, un torbido accordo fra
camorristi e brigatisti che prevedeva l'eliminazione di soggetti
"scomodi", la ridefinizione delle quote da destinare agli
appalti per la ricostruzione, ecc...
Ma
perchè, per ottenere l'appoggio del capo dell'ANELLO Adalberto
Titta, il boss camorrista chiedeva l'intevento del SISMI. La risposta
più logica e ragionevole è che Cutolo fosse a conoscenza del fatto
che l'ANELLO non fosse altro che una rete di "irregolari"
organicamente inserita nel SISMI che utilizzava nelle situazioni più
delicate. Il vicedirettore del SISMI Adalberto Mei era un amico di
vecchia data del Titta e il servizio era retto dalla banda piduista
del duo Santovito/Musumeci, già sospetti di aver appoggiato il
tentativo del "golpe bianco" dell'ex ambasciatore e
partigiano conte Edgardo Sogno Rata Vallino, piduista, filoamericano
e filoinglese. A quell'epoca le inchieste giudiziarie riscontrarono
l'esistenza di una sorta di "SISMI nel SISMI", il
SuperSISMI i cui veri capi occulti erano probabilmente il sempiterno
Licio Gelli e il freelance Francesco Pazienza, molto gradito presso
taluni circoli americani. A partire dal caso Moro, l'ombra del
SuperSISMI si ritrova in tutte le più torbidi vicende a cavallo fra
la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta (il Billygate, i
depistaggi delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna, le
trattative per la liberazione dell'Assessore Cirillo, l'omicidio –
suicidio del banchiere piduista Calvi, il crack dell'Ambrosiano,
ecc..). Un boss – fosse pure mafioso o al comando di
un'organizzazione criminale di alto livello o di una gang della
malavita "comune" – non fa certo nulla per nulla e
persegue sicuramente un fine pecuniario e di lucro. O si attende un
favore altrettanto grande dal proprio "committente".
Annusando forse l'odore dei profitti derivati dalla ricostruzione del
dopo - terremoto, Cutolo non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione
impedendo che il suo interessamento si risolvesse in un nulla di
fatto.
Nei giorni caldi del sequestro Moro, Cutolo era stato
interpellato dall'avvocato calabrese Francesco Gangemi su
sollecitazione di importanti personalità della DC e, in
quell'occasione aveva conosciuto anche Titta. Se i canali con il
crimine organizzato furono bruscamente interrotti fra il 9 e il 10
aprile del 1978, se ne può inferire che qualcosa dovesse essere nel
frattempo intervenuto e che si fosse preferito sgombra il campo per
lasciare spazio e libertà di manovre agli uomini dei servizi
segreti. Dunque il boss della NCO poteva aver ritenuto che proprio il
Titta avesse accettato l'incarico di gestire la trattativa
"riservata" con le BR e quale migliore garanzia se non la
sua, in occasione dell'affare Cirillo ?
Verosimilmente,
dunque, l'Amerikano Pieczenik può aver concluso che la risoluzione
ai problemi – e, quindi, il conseguimento dei tre obiettivi di cui
sopra – fosse costituita dall'approntamento di una "trattativa"
molto particolare e quale mediatore migliore poteva esserci di
Adalberto Titta che per primo si era mosso per negoziare sulla base
del pagamento di un riscatto ?
Nulla
di definitivo: l'ipotesi Titta rimane aperta, come quella che
identifica in don Curioni il vero mediatore, oppure nei Caetani (Igor
Markevich o Hubert Howard). Quello che lascia ormai pochi margini di
discussione è il fatto che una sorta di "trattativa" è
stata concepita e messa in atto. Ancora però non si conosce
l'oggetto – o gli oggetti della contrattazione -, come non sono
stati messi al loro posto tutti gli attori coinvolti in questa
rappresentazione. Soprattutto ancora non è stato chiarito come mai,
se una trattativa ha avuto luogo, poi Moro viene comunque
"giustiziato".
A
questo proposito non si può non far cenno all'incomprensibile
comportamento dei brigatisti, alle loro strategie, ai loro contrasti
e alle loro divisioni.
Giustamente
quando si trattano i più delicati risvolti del caso Moro si
sottolinea la frattura che si viene a delineare in seno ai rapitori
quando si deve necessariamente discutere sull'opportunità di
intavolare una trattativa per la liberazione del prigioniero – e
per "vendere" le sue carte ? - e sulle modalità di
approccio con la controparte. In genere si è soliti distinguere fra
la fazione dei "duri" e dei "brigatisti puri"
guidati da Mario Moretti, i quali sarebbero stati contrari a
qualsiasi negoziato al fine di porsi alla testa di un movimento
insurrezionale e i "trattativisti" come Morucci e la
compagna Faranda che si sarebbero mossi con il beneplacito di alcune
fazioni dell'Autonomia – capeggiate da Lanfranco Pace e Franco
Piperno – per sfruttare un eventuale negoziato con l'intento di
indebolire l'asse del Compromesso Storico DC – PCI. Ritratto spesso
come una specie di infiltrato dei servizi segreti nel Partito Armato,
Mario Moretti è stato soprannominato la "sfinge" per il
suo comportamento sfuggente e, spesso, anche incomprensibile tenuto
nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro e poi anche,
successivamente, nel corso dei processi. Accusato come ispiratore,
mandante ed esecutore dell'esecuzione dell'Onorevole Moro, il capo
brigatista ha suscitato innumerevoli dubbi e interrogativi e molti
hanno ravvisato una mancanza di autentica motivazione politica nelle
sue scelte. Per altri Moretti ha semplicemente agito seguendo la
dettatura di soggetti "ignoti".
Tentiamo di seguire il
consiglio e la lezione di Sciascia e di Cucchiarelli – contenuti
nella "Lettera nascosta" di Poe – scegliendo l'opzione
della "semplicità" sia pure in un contesto certamente
complesso e articolato. Ammettiamo per un momento che, nonostante i
legittimi sospetti peraltro compendiati, argomentati e documentati in
un interessante saggio, l'ipotesi di Flamigni sia fondamentalmente
errata e che Moretti non è mai stato una spia o un infiltrato di
alto livello nel Partito Armato per conto dei servizi segreti, bensì
un "duro" e "puro", un convinto e risoluto
sottufficiale della guerriglia di estrema sinistra, dedito alla
pratica di un "militarismo" tetragono e diretto a
incentivare un'atmosfera propizia alla "guerra di classe".
Ammettiamo poi che un simile soggetto faccia comodo all'"altra
parte" che, per semplicità, identificheremo con la banda
piduista insediata soprattutto ai vertici dei servizi segreti
militari, interessata ad esacerbare il clima di conflitto e ad
innalzare la tensione con qualunque mezzo, anche, ovviamente,
proteggendo e "fiancheggiando" l'azione di Moretti e dei
suoi seguaci. In tal modo è tanto più semplice tirare le somme...
Il
Presidente della DC non riscuote grandi consensi e simpatia in
consistenti strati della popolazione , anche, ovviamente fra
militanti e simpatizzanti dell'ultrasinistra extraparlamentare, così
le BR "morettiane" e "militariste" – che hanno
alzato il tiro nell'"attacco al cuore dello Stato" –
decidono di rapire l'Onorevole Moro per portare a segno il grande
colpo, potendo disporre della vita del più illustre e stimato
rappresentante delle istituzioni.
La finalità è duplice: proporre
uno scambio di prigionieri nel nuovo clima di "guerra di classe"
e rispondere al processo di Torino contro i brigatisti "storici"
con una sorta di "controprocesso" allo Stato e alla DC. E'
subito chiaro che, per portare a segno un'operazione di guerriglia di
questa portata, le BR "morettiane" hanno bisogno del
supporto dei "compagni". Innanzitutto per creare una
colonna romana, c'è bisogno dell'apporto dei "romani" che,
nella quasi totalità dei casi provengono dalle file dell'Autonomia
e, in questo senso, dev'essere senza dubbio stato fondamentale
l'apporto di Morucci e della Faranda e poi, occorre anche approntare
una strategia che possa incontrare il beneplacito e l'appoggio dei
"compagni" incarcerati, dei brigatisti della prima ora, che
sono ovviamente "sensibili" ai problemi delle carceri e
diffidano dell'"ambiguità" del "compagno"
Moretti e delle sue frequentazioni. Se a Moretti è sempre stata
rimproverata la scarsa preparazione ideologico – politica, i
militanti brigatisti gli hanno comunque riconosciuto le capacità
organizzative necessarie a gestire un gruppo militante e clandestino
della lotta armata per cui è verosimile che al capo brigatista non
sia sfuggito il fatto che il suo gruppo "raccogliticcio" e
i "compagni romani", per quanto determinati, non erano in
grado di realizzare un'operazione di guerriglia d'alta scuola come
quella realizzata in via Fani. Occorrevano una consulenza e un
concreto supporto di ordine militare e rimane ancora oggi inevaso
l'interrogativo circa quegli ambienti in cui Moretti deve aver
"pescato" per assicurarsi i servizi di snipers o killers
militarmente addestrati e altamente professionali.
Con
il sequestro di Moro e l'"annientamento" degli uomini della
scorta e il relativo dispiegamento della famosa "geometrica
potenza" sembra che le BR possano gestire l'ostaggio con
relativa tranquillità, invece interviene qualcosa che complica non
poco la situazione. Moretti è preparato ad allestire il
"controprocesso" a Moro e alla DC e a creare le condizioni
più favorevoli per un proficuo scambio di prigionieri, però accade
che, su suggerimento o disposizione dello stesso Presidente della DC,
qualcuno riesca a consegnare ai carcerieri una copiosa documentazione
che non riguarda esclusivamente e semplicemente gli scandali in cui è
implicato il partito di maggioranza relativa. I nuovi sviluppi della
situazione colgono impreparato il capo delle BR, mentre cominciano
gli approcci dei servizi segreti e dei "misteriosi intermediari"
– il superservizio ANELLO ? Emissari del Vaticano ? - nei confronti
dell'ala "dissidente" delle BR e, quindi, presumibilmente,
di Morucci e della Faranda e di coloro che mantengono i rapporti con
una fazione dell'Autonomia Operaia. Sono gli emissari dei servizi a
cercare i "dissidenti" brigatisti o viceversa ?
Per ora non
si può dare risposta a questo interrogativo che, ancorchè non
difetti di rilevanza, per il momento non riveste un'importanza
particolare. Quello che preme sottolineare è che questo ipotetico
scenario si può spiegare principalmente con l'ipotesi del "doppio
ostaggio" avanzata dall'ex Presidente della Commissione Stragi
Giovanni Pellegrino. Ma è poi vero e corretto affermare che, se
l'ala "autonomista" e "romana" delle BR era
favorevole a trattare, Moretti, invece, era radicalmente contrario e
pure ostile. A mio giudizio, se si segue il filo di un certo
ragionamento e si accetta la "buonafede rivoluzionaria ed
estremista" del capo delle BR, la risposta è negativa.
Ricordiamo che quanto sta accadendo dovrebbe risalire agli ultimi
giorni di marzo quando inevitabilmente Moretti sta guardando ai
"tempi lunghi" a un processo che inneschi un clima da
"guerra civile" in Italia, mentre gli "oppositori
interni" sono disposti ad interrompere questo processo per
negoziare con la controparte. Quando si sprecano fiumi di inchiostro
riflettendo sulla questione del riconoscimento "politico"
delle BR viene da sorridere, perchè i militanti del Partito Armato
hanno scelto la via della lotta armata contro il sistema, non certo
per poter ricavarne una legittimazione democratica e il conseguente
inserimento nel sistema dei partiti. In questa prospettiva si può
riconoscere tutto il velleitarismo estremista di un modesto capo
terrorista come Moretti, ma possiamo meglio comprendere certi
sviluppi ed accadimenti. Perchè Moretti ha sì in mente una
trattativa palese con il governo, ma in un contesto in cui si delinea
quell'agognata "guerra di classe" per cui si può trattare
lo scambio dei prigionieri di "guerra". Invece c'è chi
vuole accelerare i tempi, interrompendo, così i piani messi a punto
dai "morettiani". E' indubitabile, e lo si ravvisa dalle
stesse missive, che Moro voglia promuovere un processo negoziale
riservato con l'intervento della Santa Sede e, in certo qual modo, si
presenta come il principale mediatore anche per conto delle stesse
BR. Già il capo brigatista in carcere Curcio aveva avuto modo di
suggerire di "dialettizzarsi" con Moro. Invece pare che
Moretti sia impegnato a sabotare sistematicamente questi tentativi...
Se
Moro scrive riservatamente al Ministro degli Interni Cossiga in
maniera tale da agevolare una linea discretamente "trattativista",
non solo il comunicato numero tre delle BR ribadisce che "nulla
deve essere nascosto al popolo", ma viene anche accompagnato da
quella lettera in maniera tale da determinare difficoltà oggettive
al prigioniero Moro il quale sottolinea che la sua condizione è tale
per cui non escluso che debba parlare, se indotto. E' un modo tutto
particolare e "moroteo" di avvertire il proprio
interlocutore che, in effetti, ha già parlato. In realtà da quel
momento la situazione già difficile di Moro si aggrava ulteriormente
rendendo meno praticabile l'avvio di una trattativa condotta in
maniera discreta e riservata. Qualche giorno dopo, il 5 aprile, le BR
diffondono il comunicato numero quattro nel quale Moretti - o chi per
lui – denuncia l'intervento di "misteriosi intermediari che
qualcuno vorrebbe imporre" ribadendo implicitamente che tutto
avrebbe dovuto svolgersi alla luce del sole.
Significativamente al
comunicato viene allegato il testo della Risoluzione della Direzione
Strategica adottata nel febbraio del 1978, nel quale si preannunciava
e motivava la Campagna di Primavera della lotta armata. In effetti il
rapimento dell'Onorevole Moro avrebbe dovuto essere affiancato anche
al prelevamento e sequestro dell'industriale Leopoldo Pirelli in modo
da intensificare l'atmosfera di scontro violento. Giustamente, nei
suoi saggi, Flamigni ha ripetutamente sottolineato come questa
strategia della lotta armata condotta dalle BR fosse perfettamente
simmetrica e funzionale a quella "strategia della tensione"
ancora perseguita dalla P2 e dai suoi referenti internazionali.
Il
momento di autentica svolta e di frattura nell'ambito dell'intera
vicenda del caso Moro si verifica fra il 9 e il 10 aprile quando i
canali con la criminalità mafiosa e organizzata vengono
repentinamente interrotti. Cosa è successo ? Ne "Morte di un
Presidente" Cucchiarelli riporta una notizia già pubblicata da
"Repubblica" e, forse, a lungo dimenticata: le BR avrebbero
fatto pervenire alla Procura della Repubblica una cassetta con
relativo messaggio registrato e una videocassetta con le immagini di
Moro prigioniero dei terroristi. Fra le richieste avanzate dai
terroristi: le dimissioni del governo e del Presidente della
Repubblica Giovanni Leone e un esorbitante riscatto di sessanta
miliardi.
Un inciso: una campagna denigratoria era stata condotta
contro il Presidente della Repubblica da ambienti piduisti, tanto è
vero che il famoso pamphlet di Camilla Cederna "Carriera di un
Presidente" era stato ispirato dal giornalista – spione e
piduista di OP Mino Pecorelli. In qualche modo qualcosa accomunava il
Presidente Leone ad Aldo Moro: entrambi erano stati trascinati nel
fango del caso delle tangenti versate dalla Lockheed e se Leone è il
Presidente della Repubblica in carica, costretto poi alle dimissioni,
Moro è il più "papabile" per la successione. In aggiunta
il Presidente Leone aveva commesso lo sgarbo di respingere le
proposte contenute nel piduista Piano di Rinascita Nazionale, il
germe del più famoso o famigerato Piano di Rinascita Democratica.
Strane convergenze parallele fra piduisti e brigatisti... Da notare
che, finora, nessun brigatista ha avanzato la proposta di uno
"scambio di prigionieri politici" o di liberazione dei
compagni.
Il
Presidente del Consiglio Andreotti e il Segretario Zaccagnini sono
indotti a convocare urgentemente un vertice a Piazza del Gesù, ma le
sorprese non sono finite...
Il
10 aprile le BR diffondono il comunicato numero cinque ove si
annuncia che Moro sta collaborando e che tutte le articolazioni e le
strutture del regime, le complicità sono state disvelate. In
allegato – a dimostrazione che esistono "intelligenze"
nelle BR che decidono cosa pubblicare o diffondere circa gli sviluppi
dell'interrogatorio del prigioniero – viene pubblicata la lettera
di risposta al compagno di partito – che, a lungo, ha ricoperto gli
incarichi di Ministro della Difesa e Ministro degli Interni – Paolo
Emilio Taviani circa la praticabilità di una via negoziale e
"umanitaria" in caso di sequestro di persona, in cui si
citano i particolari trascorsi ministeriali del democristiano
genovese per sottolineare la sua familiarità e continuità nei
rapporti con gli americani. In realtà l'indice accusatore di Moro
serve ad alludere all'esistenza e all'operatività della GLADIO,
infatti Taviani ricopriva l'incarico di Ministro della Difesa quando
vennero sottoscritti e resi esecutivi quegli accordi fra CIA e SIFAR
(1956) che "formalizzavano" la struttura "infomilitare".
Lo stesso Moro accenna a resistenze americane e tedesche che si
frappongono ai tentativi di negoziato ed è bene ribadire che nel
memoriale, quando si tratta la questione della formazione e
dell'addestramento "antiguerriglia", lo statista
democristiano fa riferimento a una conduzione americana per quanto
riguarda i corpi e le unità speciali e a una "delega"
tedesca sui servizi di informazione, forse alludendo
all'Organizzazione Gehlen.
Le
promesse di "rivelare tutto al popolo" rimangono lettera
morta e solo cinque giorni dopo, il 15 aprile, il comunicato numero
sei contraddice clamorosamente il contenuto del precedente, asserendo
che non c'è nulla da rivelare se non i soliti scandali democristiani
che tutti conoscono. Il tuono suona molto strano se, invece, e com'è
ragionevole ritenere, i carcerieri di Moro erano in possesso di un
"tesoro" ben più importante e redditizio che non le
rivelazioni sugli scandali che coinvolgevano i compagni di partito di
Moro. Inoltre le BR annunciano che il prigioniero viene "condannato
a morte". In effetti, comunque, chi gestisce il prigioniero, le
sue rivelazioni e le carte in suo possesso non pare avere molto a
cuore la sopravvivenza del prigioniero e già la decisione di
pubblicare la lettera di Taviani alimenta un clima "allarmistico"
che pone Moro in una posizione sempre più scomoda agli occhi dei
suoi compagni di partito e degli alleati della NATO. Che accadrebbe
se le BR divulgassero un segreto sovranazionale e transnazionale come
quello della GLADIO/STAY BEHIND, struttura della guerra ortodossa
inserita nel sistema del Patto Atlantico ?
Inoltre,
il giorno precendente, i terroristi hanno assunto un atteggiamento
assolutamente provocatorio nei confronti delle autorità, irridendole
e chiedendo il pagamento di un riscatto di enorme entità. Ma
veramente le BR si muovono con tutti i crismi dell'ortodossia
rivoluzionaria ? O si vuole alzare la posta come se fosse un usuale
sequestro di persona organizzata da elementi malavitosi ? Inoltre, in
quali condizioni viene filmato Moro e cosa dice con gli occhi puntati
verso la mdp ?
A
questi elementi occorre aggiungere che proprio fra il 7 e il 12
aprile, il generale piduista Vito Miceli, parlamentare missino, ex
direttore del SID e sotto processo per il golpe Borghese, si è
recato a Washington ove ha incontrato i principali animatori del CSIS
– Center of Strategic and International Studies di Georgetown -,
l'ex direttore del servizio informazioni del Dipartimento di Stato
Ray Cline e l'ex direttore della CIA – e già capostazione per
l'Agenzia a Roma nel corso degli anni Cinquanta – William Colby. Il
CSIS è un think tank che funziona da centro di irradiazione delle
politiche strategiche e internazionali all'insegna dell'imperialismo,
del militarismo e dell'interventismo. In poche parole siamo di fronte
alla fazione opposta a quella espressa dall'Amministrazione Carter,
con entrature repubblicane e con più che probabili punti di contatto
con il piduismo. E' molto probabile che, in quel consesso, venne
detto al generale Miceli che non c'era nulla da fare per salvare la
vita di Moro e che, per ottenere l'intevento più diretto degli
americani, bisognava innalzare ancora il livello di tensione. Di
ritorno dagli States, Miceli contatterà il fido Pecorelli il quale
si impegnerà in una campagna per rilanciare la pista cecoslovacca
che, in quel momento, torna in auge. Curiosamente alcuni piduisti,
come lo stesso Pecorelli, offrono una sponda per una "trattativa"
con i brigatisti, ma l'ambiguo comportamento dei più fa dubitare
circa il reale interesse dei "fratelli".
Nel
frattempo, sempre il 15 aprile, data in cui viene diffuso il
comunicato numero sei, anche Pieczenik torna a Washington per
relazionare con il Dipartimento di Stato. Presumibilmente, nei giorni
precedenti, sono stati messi a punto i dettagli dell'operazione
prevista per il 18 aprile consistente nella scoperta simulata del
covo di Moretti in via Gradoli e nella diffusione di un falso
comunicato brigatista.
Certamente
si potrebbero dedicare volumi su volumi solo per ricostruire ed
analizzare la "doppia messinscena" organizzata il 18
aprile, ma ci limiteremo a prendere in considerazione alcuni
elementi. Innanzitutto la "scoperta" del covo –
abitazione preso in affitto dalla coppia Moretti/ Balzerani
metterebbe in difficoltà il capo brigatista se è vero, sulla base
di quanto asserito dalla "vicina" Lucia Mokbel e confermato
dal capitano Labruna, che, attraverso una telescrivente il leader
delle BR poteva comunicare con le colonne di tutta Italia. La
"recisione" del collegamento provoca l'interruzione e il
fallimento della Campagna di Primavera, mentre le BR "morettiane"
sono costrette a rinunciare al piano di sequestro dell'industriale
Pirelli. D'altra parte può darsi che il falso comunicato del Lago
della Duchessa – alla base di un'altra messinscena, la ricerca del
cadavere di Moro nel lago ghiacciato con l'allestimento "mediatico"
di una casta mobilitazione di carabinieri, poliziotti, militari,
ecc... - rientrasse nella strategia di guerra psicologica approntata
per preparare l'opinione pubblica all'imminente dipartita del
Presidente della DC, però non si può escludere che il volantino
contenesse un messaggio indirizzato al capo brigatista, contenuto
innanzitutto nel riferimento al "suicidio" dei compagni
tedeschi nel carcere di Stammheim. Non è mai stato chiarito cosa
fosse accaduto ai militanti delle RAF tedesche incarcerati, però
l'estensore faceva leva sulla percezione che i militanti
dell'ultrasinistra avevano di quei fatti. Una minaccia ai "compagni"
in carcere ?
Idea non troppo assurda se si pensa che qualche giorno
prima si voleva ingaggiare il gangster milanese Turatello per far
sequestrare alcuni detenuti brigatisti con l'intento di fare
pressione sui carcerieri di Moro. Ma il "suicidio" viene
associato misteriosamente allo stesso prigioniero. Perchè annunciare
un omicidio – suicidio ? Perchè, probabilmente, l'ispiratore del
comunicato intende far sapere ai rapitori che il loro ostaggio non
vale più nulla. Se non sarà "giustiziato" da loro, ci
penserà qualcun'altro a ucciderlo, perchè, non solo Moro ha
parlato, ma ha fornito ai suoi carcerieri documenti che svelavano
inconfessabili "Segreti di Stato" – o cos'altro ? - che
dovevano assolutamente essere custoditi in maniera ferrea. Se questo
scenario si avvicina alla verità, l'espediente serviva a ingannare i
brigatisti e a costringerli a lasciare libero l'ostaggio, o
viceversa, si voleva far capire a Moretti che non aveva più il
controllo di un prigioniero che, comunque, era condannato a morte ?
Il paradosso è che, in realtà, la fase "negoziale" –
dopo quella di "stallo" e quella dell'allarme – inizia
proprio dopo il doppio o triplo "inganno" del 18 aprile. In
maniera in realtà piuttosto tardiva le BR smentiscono la paternità
del Lago della Duchessa con l'"autentico" comunicato numero
sette ove si accusano in maniera prevedibile il Presidente del
Consiglio Andreotti e i "specialisti della guerra psicologica".
Potrebbero ricavarne un buon "affare dalla morte di Moro"...
Per la prima volta si avanza la proposta di uno scambio di
prigionieri dopo che è passato più di un mese dall'agguato di via
Fani. E' bene ricordare al lettore che circa dieci giorni prima le BR
non menzionavano alcuno "scambio di prigionieri" - strada,
piuttosto, percorsa da Moro – ma cercavano di "ricattare"
il governo. Inoltre non si vede perchè i terroristi avrebbero dovuto
trattare il rilascio di Moro con una controparte che prima aveva
squalificato il suo rappresentante più illustre e importante e che,
poi, lascia intendere di non essere interessata alla sopravvivenza di
Moro. A questo punto logica vorrebbe che, come per il caso Sossi, un
prigioniero "collaborativo" venga rilasciato senza
contropartite, invece si apre una fase in cui, apparentemente, si
avvia la trattativa per lo scambio di prigionieri. Da un lato
l'insistenza dei socialisti per intraprendere una strada "umanitaria"
e legale e la dichiarazione di disponibilità del Presidente del
Senato Fanfani, e dall'altro le BR che continuano ad alzare la posta
in gioco fino a una conclusione che parrebbe inevitabile. Una storia
che parrebbe non avere senso...
Qualche
anno prima si risalirà all'identità dell'autore del "falso"
comunicato numero sette, il falsario romano Toni Chichiarelli
assassinato per motivi ignoti nel settembre del 1984, autore di una
rapina miliardaria alla Brinks Securmark con il contorno di tutta una
serie di messaggi e di indizi che rimandavano al caso Moro e agli
omicidi di Pecorelli e del colonnello Varisco, Chichiarelli è un
delinquente veramente singolare. Avrebbe militato nei NAP – una
formazione del Partito Armato composta da un nutrito gruppo di
criminali comuni – e, quasi certamente, pure nelle BR, poteva
contare anche sulle solide amicizie nel campo dell'emergente e
arrembante Banda della Magliana e dell'estrema destra neofascista. I
moventi delle sue imprese criminose sarebbero, in realtà, da
ricondurre alla collaborazione con i servizi segreti e la sua
carriera, le sue frequentazioni evocano quel singolare milieu
criminale attivo nella capitale etichettato dal giudice Sica come
"Agenzia del Crimine" e sovrapponibile in parte alla già
citata holding delinquenziale della Magliana. Sicuramente il falsario
si muoveva come un esecutore, una pedina mossa da qualcuno dei
servizi segreti, mentre con buone probabilità, militava nelle BR
sotto falso nome. Se Chichiarelli ha agito di concerto con ignote
strutture di intelligence per danneggiare Moretti, capo dell'"ala
brigatista" contraria alla "trattativa", non si può
escludere che alla messinscena abbia preso parte anche la fazione
"dissidente".
Se
il senatore moroteo Giovanniello aveva ragione di temere il passaggio
di mano dell'ostaggio ad una fazione "delinquenziale" delle
BR e Chichiarelli era in possesso di numerosi elementi che lo
collocavano al centro della vicenda (i frammenti di foto Polaroid e i
fazzoletti di marca Paloma per tamponare le ferite), non si potrebbe
ipotizzare che il falsario facesse parte di questo gruppo ? Una terza
fazione "brigatista – delinquenziale", diversa sia dai
"puri" delle BR "morettiane" che dai dissidenti
"trattativisti" in contatto con spezzoni dell'Autonomia
Operaia, che non solo poteva costituire la prosecuzione
dell'esperienza "nappista", ma che poteva identificarsi con
quell'Agenzia del Crimine citata dal giudice Sica ? Ritorniamo ancora
una volta al 9 aprile e al "messaggio" brigatista con tanto
di nastro e videocassetta e la richiesta di un riscatto, ebbene
qualche anno dopo questo modus operandi terroristico verrà
riscontrato nelle imprese del professor Giovanni Senzani, criminologo
e consulente del ministero della Giustizia, esperto di problemi
carcerari. Come avrà modo di dichiarare il giudice fiorentino
Tindari Baglioni, Senzani faceva il "consulente"
contemporaneamente per lo Stato e per le BR. Figura molto più
enigmatica e perfino scaltra della "sfinge" Moretti, il suo
nome sale alla ribalta della cronaca nell'ultima fase di
recrudescenza del terrorismo brigatista quando la "stella"
della "primula rossa" Moretti sta per declinare. Moro a
parte, a lui si devono i "colpi" più clamorosi delle BR:
il rapimento e la liberazione del giudice D'Urso, l'esecuzione del
fratello del "pentito" Patrizio Peci e la complessa e
inquietante vicenda del sequestro e della trattativa per la
liberazione dell'Assessore campano Ciro Cirillo.
Probabilmente
artefice e responsabile dell'inquinamento "malavitoso"
delle BR, il professore è un insospettabile che viene solo sfiorato
dagli inquirenti fino al biennio 1980 – 1981 e, men che meno,
coinvolto nelle indagini sul rapimento e l'omicidio dell'Onorevole
Moro. Eppure ormai si fa risalire il suo ingresso da "irregolare"
nelle BR al 1975 e nel 1977 ospita i "morettiani" Gallinari
e Bonisoli nella sua abitazione di Firenze. C'è chi, come il
giornalista inglese Philip Willan ("The puppetmasters")
ritiene che il personaggio del "Blasco" del fumetto
pubblicato dalla rivista dell'Autonomia "Metropoli" sia da
identificare proprio con Senzani, colui su cui ricadrebbe la maggior
parte della responsabilità per l'assassinio di Moro. Dato di una
certa rilevanza se si pensa che molti dei personaggi che ruotavano
intorno alla redazione di "Metropoli" entrano ed escono
dall'affaire Moro e sono in contatto con i "trattativisti"
Morucci e Faranda. In questo modo si potrebbe considerare Senzani
come il punto di riferimento dell'ala "delinquenziale"
delle BR.
Come
avrebbe scritto Pecorelli, concediamoci di fare un pò di politica:
apparentemente è Moretti a gestire il prigioniero, ma quando il
sequestro prende sviluppi "imprevisti" è costretto a
ricorrere alla "consulenza" di Senzani e altri personaggi
superiori a lui per cultura e intelligenza "politica".
Inizialmente Senzani spalleggia Moretti e si mostra d'accordo con lui
di prolungare il periodo del sequestro e attendere tempi propizi per
trattare. Ogni ipotesi di negoziato riservato viene respinta... Ad un
certo punto, in maniera apparentemente provocatoria, è lo stesso
Senzani a mettere sul piatto quella richiesta di riscatto che,
peraltro, poteva essere stata prospettata da altri soggetti come
Titta, l'uomo dell'ANELLO. La merce per la contrattazione non manca,
come ben si comprende dal comunicato numero cinque... Così,
successivamente, l'enigmatico e ineffabile professore fa capire ai
suoi interlocutori che nulla di compromettente verrà pubblicato
dalle BR e che non manca la disponibilità di mettere a tacere lo
statista democristiano. A questo punto Senzani e il suo gruppo si
avvicinano ai "dissidenti" e manifestano la loro posizione
favorevole alla "trattativa" e contraria
all'"intransigenza" dei "morettiani". Però se i
"dissidenti" vicini all'Autonomia Operaia vogliono
sfruttare la trattativa per indebolire il Compromesso Storico, il
gruppo di Senzani è essenzialmente mercenario e mira a incamerare un
ingentissimo riscatto. Con la messinscena del 18 aprile Moretti viene
messo "fuori gioco" e, apparentemente, perde la gestione
dell'ostaggio.
In
questo contesto non si dovrebbe sottovalutare il viaggio americano di
Miceli e quanto gli viene consigliato dai suoi interlocutori. Il
professor Senzani ne era al corrente ?
Il
ruolo di Senzani – e delle fazioni a lui associate – potrebbe
essere una chiave importante per comprendere i reroscena più
scottanti del caso Moro, ma il nome di Senzani viene generalmente
accostato all'affare Cirillo. Molti dei personaggi coinvolti nel
sequestro e nelle trattative per la liberazione dell'assessore
campano ricorrono nel caso Moro: oltre a Senzani, il duo piduista del
SuperSISMI (Santovito/Musumeci), l'uomo dell'ANELLO Adalberto Titta e
lo stesso capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo. Lo
stesso Senzani è personaggio in odore di servizi segreti... Le
analogie non mancano, ma le differenze non sono di poco conto. Aldo
Moro era un politico di statura internazionale a conoscenza di certi
segreti ancora rimasti nell'ombra... Infatti, sia pure a prezzo della
carriera, Cirillo viene liberato, mentre Moro viene assassinato...
E
se il misterioso "intermediario" – o i "mediatori"
rimasti ignoti – avessero ingannato l'emissario della Santa Sede,
don Cesare Curioni, facendogli credere di trattare con i brigatisti
anche per la salvezza di Moro ? E se, in realtà, le controparti
avessero concordato di eliminare Moro raccogliendo la somma
necessaria al pagamento per il "silenzio" delle BR e la
consegna dei documenti compromettenti ? E se lo IOR – e altri
ambienti finanziari o industriali – avessero messo insieme la cifra
che sarebbe servita, non a salvare Moro, bensì, al contrario, per
assassinarlo ? E se parte dei miliardi fosse finita nelle tasche, non
solo delle BR, ma anche dei diversi "mediatori" e di coloro
che eliminarono fisicamente Moro ? E se, come assicurazione sulla
vita, i brigatisti avessero conservato parte delle copie di quei
documenti tanto scottanti e compromettenti ? E se tutto il balletto
della "trattativa" o degli approcci tentati alla luce del
sole, delle proposte e controproposte, dello "scambio" di
prigionieri fosse quasi essenzialmente funzionale a coprire i termini
della reale trattativa ? Forse, poco importa sapere se, alla fine, a
premere i grilletti delle armi che provocheranno la morte dello
statista saranno premuti dalle stesse BR o dai malavitosi "comuni"
associati ai brigatisti o da sicari professionali rimasti ignoti...
Tutto passa in secondo piano di fronte all'allestimento di una
macabra e inquietante scenografia come quella allestita in via
Caetani, a due passi dalle segreterie dei due maggiori partiti
italiani – la DC e il PCI -.
Un messaggio mafioso e gravemente
intimidatorio destinato a essere decodificato e recepito
immediatamente dai destinatari. Inoltre la gravissima colpa di Moro
agli occhi dei suoi carnefici è stata soprattutto quella di avere
"tradito" una determinata causa, rivelando quei segreti
della Repubblica che dovevano essere, al contrario, gelosamente
custoditi e protetti. Così Moro muore comunque, nonostante il suo
rinnovato "anticomunismo" – come argutamente scrisse
Pecorelli nel suo articolo "Vergogna buffoni" – che si
era esplicato sostanzialmente "liquidando" la linea di
intesa fra DC e PCI e il manifestato riavvicinamento al socialismo
craxiano e "autonomista". Tali sforzi sono vanificati da
una volontà che probabilmente, già a partire dal periodo compreso
fra il 9 e il 15 aprile, si è già espressa per un preciso e
determinato esito della vicenda...
Nonostante
il lavoro di Cucchiarelli sia, come al solito, rigoroso e molto
documentato, la "narrazione" del caso Moro presentata ne
"Morte di un Presidente" – concentrata sulla
ricostruzione dell'omicidio dello statista democristiano – manca di
alcuni capitoli fondamentali senza i quali daremmo a tutta la storia
un'altra valenza. Perchè non si può comprendere tutto il senso
dell'affaire Moro lasciando fuori quanto accadde prima,
durante e immediatamente dopo l'agguato di via Fani
la cui ricostruzione offerta nel memoriale Cavedon/Morucci presenta
lacune ed evidenti contraddizioni. Innanzitutto è mai possibile che,
nonostante le numerose segnalazioni, avvertimenti e soffiate filtrate
ben prima del giorno del compimento dell'attentato, nulla di
veramente concreto sia stato fatto per proteggere la vita del
Presidente ? Possiamo accettare l'argomentazione fondata sulla fase
di transizione culminata nella riforma dei servizi di informazione
(Legge 801 del 1977) e quelle, usuali e anche abusate, della mancanza
di coordinamento delle forze di sicurezza, della sottovalutazione del
fenomeno, dell'incompetenza, ecc.. ma diventa più arduo accogliere
queste motivazioni e cause se si aggiungono altri elementi. La
notizia di un imminente attentato ad un'eminente personalità
politica italiana doveva pareva così diffusa da essere arrivata
all'orecchio dello stesso Moro se è vero, come affermò l'allora
vicesegretario della DC Giovanni Galloni, che era preoccupato perchè,
pur disponendo di infiltrati nelle BR, la CIA americana e il MOSSAD
israeliano non trasmettevano alcuna informazioni sui covi brigatisti
agli omologhi italiani. Tuttavia c'è da scommettere che l'Onorevole
Moro non si fidasse di buona parte degli ufficiali dei servizi di
informazione e di sicurezza, data la loro formazione ideologica e
dottrinaria.A quanto pare, l'attuale Commissione d'Inchiesta è stata
istituita in seguito allo scoop dell'ANSA relativo alla fantomatica
Moto Honda presente sulla scena dell'attentato. Al centro, le
rivelazioni di un ex ispettore della DIGOS e una missiva in cui, uno
dei passeggeri della moto svelava di aver fatto parte di un'unità
dei servizi comandata dal colonnello Guglielmi incaricata di
"supportare l'azione delle BR". Fantasie ? Polveroni e
depistaggi ? Quello che dovrebbe essere motivo di inquietudine, però,
è questo ricorrere del nome di Guglielmi nel caso Moro...
E' stato
ammesso dall'interessato che, all'ora dell'imboscata, si trovava
nell'abitazione di un collega in via Stresa, per un "invito a
pranzo". Il troppo mattiniero colonnello dell'Arma dei CC, aveva
già prestato servizio presso la base di Capo Marrargiu, centro di
addestramento delle unità di guastatori come della stessa GLADIO,
ove avrebbe addestrato i suoi allievi alle tecniche dell'imboscata.
Ma un "gruppo Guglielmi" .- con le sue unità K – avrebbe
partecipato all'esercitazione delle forze militari speciali della
NATO denominata "RESCUE IMPERATOR" – ovvero "cercate
l'imperatore" – a cui avrebbe preso parte anche il COMSUBIN
della Marina Militare. Si sospetta che l'addestramento militare sia
stato impartito per "liberare Moro", ovvero l'imperatore,
il politico italiani più rappresentativo e importante di quel
periodo, ma, se questo sospetto venisse confermato, non si
spiegherebbe perchè questa mobilitazione venne attivata a febbraio,
oltre un mese prima della strage di via Fani. Ed è solo una
coincidenza che l'operazione SMERALDO, ovvero il blitz del COMSUBIN
previsto per il 21 marzo, recasse la stessa denominazione di una
delle esercitazioni previste dalla programmazione NATO "RESCUE
IMPERATOR" ? Dunque quel "gruppo Guglielmi" che
partecipò all'addestramento NATO, si ritroverebbe fra via Fani e via
Stresa così come il suo "coordinatore", l'addestratore
della GLADIO omonimo. Forse si tratta veramente solo di
coincidenze...
Ne "Chi ha ammazzato l'agente Iozzino"
(Edizioni Pendragon) il ricercatore Carlo D'Adamo presenta una
dinamica inedita dell'imboscata tesa all'Onorevole Moro e alla sua
scorta. Alla riuscita della brutale impresa avrebbero contribuito
ignoti "snipers" occultati da due vetture presenti nei
pressi dell'incrocio fra via Stresa e via Fani, ai lati opposti della
strada. Gran parte della trattazione del saggio è dedicata
all'approfondimento della presenza singolare di queste vetture,
un'Austin Morris e una Mini Morris, con l'aggiunta di un'Alfasud
beige dell'UCIGOS, uscita in maniera troppo tempestiva dalla
Questura. La Mini Morris era intestata all'ex Nuotatore Paracadutista
Tullio Moscardi, un reclutatore degli agenti operanti "dietro le
linee" al servizio della Repubblica Sociale Italiana. Siamo al
cospetto dell'embrione dell'organizzazione GLADIO, composto dagli
incursori della X MAS del principe "nero" Junio Valerio
Borghese.
Nei
momenti immediatamente successivi alla sparatoria, sulla scena del
crimine compare un signore in impermeabile. Bruno Barbaro, titolare
di una ditta di rappresentanza per la vendita di termosifoni con sede
al numero civico 109 di via Fani e probabile copertura di qualche
settore dei servizi segreti, è cognato del colonnello Ferdinando
Pastore Stocchi, già stretto collaboratore dell'ex direttore
piduista del SID Vito Miceli. Secondo l'informatissimo "Tempo"
– settimanale tanto informato da pubblicare un articolo sul centro
di addestramento di Capo Marrargiu – nel 1976 il colonnello Pastore
Stocchi dirigeva quella base segreta.
Spostando lo sguardo nella tipografia di via Foa ove si
stampavano i comunicati e i volantini brigatisti, notiamo una
stampatrice modello AB DIK 260 T, già utilizzata dal Reparto Unità
Speciali del SID e presumibilmente venduta come "rottame".
Per questa strana circostanze verrà processato e condannato il
colonnello Federico Apel per peculato.
L'ennesima stranezza risiede nel fatto che il Reparto
Unità Speciali fosse il settore del servizio informazioni militari
addetto all'amministrazione delle unità speciali fra cui si poteva
annoverare anche GLADIO. Così, sui percorsi seguiti dai brigatisti e
dal loro prigioniero, Aldo Moro, troppe sono le tracce e gli elementi
che portano alla GLADIO e alle unità militari speciali addestrare
alle tecniche da commando, incursione e sabotaggio. Fra via Fani e
via Stresa convergono in qualche modo il colonnello Guglielmi, l'ex
Nuotatore Paracadutista Tullio Moscardi, il colonnello Pastore
Stocchi, suo cognato Bruno Barbaro... Forse la "confessione"
di Cossiga al giornalista di "Panorama" Giovanni Fasanella,
in una delle sue ultime interviste risalente al 2008, circa il ruolo
di un direttorio internazionale della STAY BEHIND/GLADIO acquista
maggior senso...
Eppure il caso Moro non coinvolgerebbe solo la GLADIO e
il servizio informazioni militari, ma anche il Viminale. La Austin
Morris, "parcheggiata" nel lato della strada solitamente
occupato del furgoncino del fioraio Spiriticchio, è intestata alla
società Poggio delle Rose le cui quote sono detenute per la quasi
totalità da Patrizio Bonanni. Quest'ultimo è un fiduciario del
Viminale e del servizio informazioni civili come dimostra il fatto
che quella società fosse riconducibile a quel sistema di "società
di copertura" riconducibili al SISDE – Fidrev, Gattel,
Caseroma, Gradoli, ecc.. -. Curiosamente attraverso alcune di queste
società si risale a quei fiduciari che amministravano alcune
proprietà immobiliari, appartamenti ubicati al numero civico 96 di
via Gradoli, lo stesso in cui si era stabilita la coppia brigatista
Moretti – Balzerani. In questo modo la presenza dei servizi in via
Fani rinvia incredibilmente alla via Gradoli, una sorta di "zona
franca" inviolabile. Probabilmente se era risaputo che Moro era
detenuto in qualche appartamento situato in via Gradoli occorreva
trovare il sistema o l'espediente di gestire al meglio quella
detenzione. A questo punto parlare di semplici coincidenze, per
quanto sorprendenti, sfida il calcolo e la legge delle probabilità.
Un'altra questione topografica che non andrebbe
trascurata è la presenza – in via Nicotera 26 – di una
succursale dell'ambigua scuola di lingue francese denominata
Hyperion, aperta poco prima del sequestro. Allo stesso numero civico
operavano alcuni uffici del SISMI. A questo punto non sorprende che
questo supposto centro culturale – fondato da fuoriusciti che già
avevano militato nel Partito Armato – costituisca ancor oggi un
argomento tabù, nonostante i motivi di interesse e di
approfondimento non manchino...
In fin dei conti tutti questi elementi che, di per sè
stessi, meriterebbero la stesura di volumi a parte, rinviano ad una
vicinanza, una contiguità e perfino complicità fra quei servizi
segreti organizzati per contrastare la "minaccia comunista"
con mezzi non ortodossi e le BR, la punta apparentemente avanzata
dell'offensiva "rivoluzionarie" di quel Partito Armato che
si richiamava al "marxismo leninismo" e, quindi, al
"comunismo". Un paradosso che pochi hanno tentato di
spiegare mettendo da parte pregiudizi e questioni ideologiche. Per
quanto riguarda la direzione e il coordinamento dei servizi di
informazione e di sicurezza e delle forze armate basterà rammentare
per l'ennesima volta che, all'epoca, i vertici erano tutti iscritti
alla Loggia P2 e, di diritto, erano entrati a far parte dei famosi
Comitati di Crisi del Viminale voluti e istituiti dal Ministro
Cossiga per affrontare l'emergenza.
Forse
la chiave principale per spalancare la porta dell'affaire Moro rinvia
a quanto disse la segretaria del Venerabile, Nara Lazzerini secondo
cui la mattina del 16 marzo Licio Gelli ricevette alcuni ignoti
personaggi – fra cui, presumibilmente, il socio Umberto Ortolani –
presso la suite all'Hotel Excelsior. In quell'occasione qualcuno
avrebbe proferito, riferendosi con ogni probabilità ai drammatici e
sanguinosi eventi di quelle ore, che "il
più è fatto, ora si attendono reazioni".
La testimonianza della donna è stata accolta dal Giudice Istruttore
bolognese Libero Mancuso, nel corso del procedimento sulla strage
alla stazione di Bologna, ma è stata respinta in sede di Commissione
d'Inchiesta per la sua "scarsa moralità", come amante del
Venerabile.
E se quelle parole spiegassero una buona parte della
tragedia di Moro ? Qualcuno decide di consentire il rapimento di Moro
supportando i brigatisti, ma, nonostante la dimostrazione di grande
efficienza militare le cose poi si complicano...
Ma tutto questo non è che un altro romanzo del caso
Moro, perchè ogni conclusione è provvisoria come lo stesso
Cucchiarelli ammette a più riprese nel suo ultimo libro...
Ancora deve essere scritto il libro definitivo
dell'affaire Moro.
Saluti
HelterSkelter
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Paolo Cucchiarelli "Morte di un Presidente",
Edizioni Ponte alle Grazie
Sergio Flamigni "La tela del ragno", KAOS
edizioni
Sergio Flamigni "Patto di omertà", KAOS
edizioni
Sergio Flamigni "Il covo di Stato" KAOS
edizioni
Sergio Flamigni "Convergenze parallele", KAOS
edizioni
Sergio Flamigni "Le trame atlantiche", KAOS
edizioni
Carlo D'Adamo "Chi ha ammazzato l'agente Iozzino",
Pendragon
Stefania Limiti "Doppio livello",
Chiarelettere
Stefania Limiti "L'Anello della Repubblica",
Chiarelettere
Stefania Limiti e Sandro Provvisionato "Complici",
Chiarelettere
Giuseppe De Lutiis "Il golpe di via Fani",
Sperling & Kupfer
Aldo Giannuli "Il noto servizio",
Castelvecchi
- Aldo Giannuli "Il noto servizio, Giulio
Andreotti e il caso Moro", Marco Tropea editore
Alessandro Forlani "La zona franca",
Castelvecchi
Alfredo Carlo Moro "Storia di un delitto
annunciato", Editori Riuniti
Emmanuel Amara "Abbiamo ucciso Aldo Moro",
Banda Larga editore
Manlio Castronuovo e Romano Bianco "Via Fani ore
9.02", Nutrimenti
Philip Willan "I burattinai", Tullio Pironti
Giuseppe Ferrara "Misteri del caso Moro"
Massari editore
Alberga – imperterrito – un ‘basso continuo’ popolarissimo anche tra i più fini e sagaci ‘analizzatori’ del caso Moro che vuol glossare l’elisione di Aldo Moro quale goal volto a scongiurare l’entrata alla soglia della governance di un Italia in pieno regime atlantico/NATO. Ma ciò contrasta antiteticamente – antifrasticamente – colla realtà dei fatti di allora, come ampiamente dimostrato in un saggio documentatissimo, risalente addirittura agli anni Settanta, per altro tradotto pure in italiano da Vallecchi, a firma di Charles Levinson, un esponente del sindacalismo internazionale, intitolato Vodka-Cola.
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