15 gennaio 2016

La libertà di impresa che uccide la libertà

Sullo scandalo banche si potrebbe azzardar a dire che lo sviluppo della vicenda abbia perfettamente  seguito il percorso gradito al potere ed al capitale. Qualcuno potrà non essere d'accordo sul punto.

Si potrà obiettare che lo scandalo è venuto alla luce, che il partito di regime è stato costretto al salvataggio vergognoso di un ministro colto in un più che sgradevole conflitto di interesse, che i risparmiatori si stanno "organizzando" supportati dalle onnipresenti opposizioni, che la Procura sta indagando, che insomma i corrotti, se non ancora puniti, sono identificati, che il re è nudo….


Proprio quest'ultimo punto consente di affermare che il giudizio di cui sopra è vero.Se la ragione di scandalo delle banchette del centro Italia sarà stata individuata solamente nelle patologie della mancata vigilanza, nei conflitti di interesse tra gestione della banca e clientele politiche e non, insomma, nella malagestione e nella corruzione, allora il capitale ancora una volta avrà vinto.

Nessuno si è infatti chiesto se una dinamica come quella verificatasi nella crisi di Banca Marche, Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, CariChieti e Cassa di Risparmio di Ferrara, col sacrificio dei risparmiatori che ne è seguito, non fosse indicativa di un andamento fisiologico del sistema, uno sviluppo necessitato e voluto dalle forze economicamente egemoni e dai centri di potere ad esse strumentalmente legate.

In poche parole: il capitalismo funziona così.

Il fallimento o l'emarginazione economica delle microbanche locali od il loro nuotare in ogni anfratto illegale per raggiungere la salvezza non è nient'altro che il funzionamento del corpo, non la malattia.

Soprattutto quando ciò avviene in una fase economica fortemente globalizzata, in cui non solo il capitale finanziario è in grado di essere egemone di fatto, ma ha al suo servizio organizzazioni burocratiche sovranazionali che impongono lo ius capitalis, anche, in luogo ed al di sopra dei diritti dell'uomo, dei popoli, degli stati.

Per chi correttamente fa uso del marxismo, questi fenomeni - spesso erroneamente catalogati come "neoliberismo" o capitalismo tossico o cattivo -  altro non sono che la fisiologia della "fase suprema dello sviluppo capitalista", analizzata ed indicata da Vladimir Lenin come "Imperialismo"

Egli riassumeva i cinque noti "contrassegni" di tale fase, individuandoli nei seguenti : "1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo "capitale finanziario", di un'oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall'esportazione di capitale in confronto con l'esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche."

Con riguardo a quella che già nel 1913 egli indicava come "nuova funzione" delle banche, egli osservava come lo sviluppo degli istituti bancari procede necessariamente verso una loro concentrazione, il che trasforma tale tipo di impresa da modesta mediatrice di mezzi di pagamento  a potente monopolista che via via arriva a disporre (insieme agli altri pochi soggetti della concentrazione) di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e dei piccoli industriali e così anche giunge a controllare la massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese o di una serie di paesi.

Muovendo dai dati dell'economia tedesca dal 1907 al 1913, Lenin dimostrava il processo di accorpamento e concentrazione delle banche germaniche: non solo le grandi banche finivano per eliminare quelle piccole, ma le banche minori finivano per trasformarsi in banche "annesse" sotto il controllo delle grandi monopoliste, attraverso rapporti di partecipazione e debito finanziario. Ciò che rileva in tale processo, è il fatto che le grandi monopoliste "si assoggettano le operazioni industriali e commerciali dell'intera società capitalista, giacché, mediante i loro rapporti bancari, conti correnti e altre operazioni finanziarie, conseguono la possibilità anzitutto di essere esattamente informati sull'andamento degli affari dei singoli capitalisti, quindi di controllarli, di influire su di loro, allargando o restringendo il credito, facilitandolo od ostacolandolo e infine di deciderne completamente la sorte, di fissare la loro redditività, di sottrarre loro il capitale o di dar loro la possibilità di aumentarlo rapidamente e in enormi proporzioni, e così via." (V.I.Lenin, Imperialismo fase suprema del capitalismo, Cap. II, Le banche e la loro nuova funzione)

Controllare e dirigere è quindi il fine ultimo della concentrazione bancaria: ciò può avvenire laddove vi siano regole e sovrastrutture le quali, non solo consentano, ma in un certo modo favoriscano ed inducano tale processo di concentrazione.

L'UE è una delle sovrastrutture che servono tale fase e realizzano attraverso il sistema giuridico europeo quei cambiamenti nei rapporti di produzione che sono funzionali al raggiungimento degli scopi dell'egemone potere economico.

Come ciò avvenga nella vicenda banche è ben spiegato in un recente pezzo di Domenico Moro e Marco Rosati (1), nel quale si pone l'obiettivo sulla genesi e la realizzazione di quella che viene denominata come "Capital Market Union", vale a dire il progetto della suprema integrazione economica, finanziaria e valutaria dell'area Euro. Questa altro non è che la promozione della concentrazione bancaria, vale a dire dei monopoli bancari, nell'area della moneta unica. Il fine che viene propagandato è la "libertà di circolazione dei capitali" e la "stabilizzazione" del mercato finanziario. In realtà, questi valori nascondono l'aspirazione degli operatori più forti - i monopolisti - ad avere campo libero per  attuare ed esercitare la loro supremazia, onde poter essere informati, controllare, influire sull'andamento degli affari di un sempre maggior numero di capitalisti.

Soccorrono, a titolo di analisi, alcuni dati sulla concentrazione del sistema bancario in Italia ed in Europa. Basta osservare alcuni studi di tecnici interni al sistema bancario per comprendere tra le righe l'estrema importanza del fattore della concentrazione.

A partire dagli anni novanta del secolo scorso, l'industria bancaria europea ha conosciuto un forte processo di concentrazione, definito da molti senza precedenti nel secondo dopoguerra (2). Dal 1999 al 2007 il numero di banche dell'UE a 15 paesi si è ridotto del 3,1 % medio annuo, passando da un totale di 8900 a poco meno di 6900, con una riduzione del numero complessivo di banche del 22,4 %. Nonostante tale riduzione del numero di operatori creditizi, dal 2000 al 2007 il totale delle attività nel settore bancario nella UE a 15 ha continuato a crescere a tassi significativi, pari all'8,7% medio annuo, con un aumento totale del 94%. Ciò significa anche un aumento nella dimensione media delle banche, mutata - nell'intervallo dal 1997 al 2007 -  da 1,8 a 5,8 miliardi di Euro in termini di totale attivo.

Insomma, meno banche, ma molto più grandi in termine di capitale, sempre in continua crescita e sempre con maggiore influenza.

Nel sistema italiano, il processo ha avuto un andamento simile.
Dal 1995 al settembre 2007 si sono registrate 347 operazioni di fusione e 395 di acquisizione. Nel 2002 il picco è stato rappresentato da oltre 77 operazioni. Nel 2007 il processo ha subito una nuova forte accelerazione coinvolgendo i gruppi più importanti e le grandi banche popolari. Le due maggiori operazioni del 2007 hanno dato vita a due operatori (Intesa Sanpaolo e Unicredit)  le cui quote di mercato hanno raggiunto in quel tempo il 20,2 % e il 17,3% (3).

Quale potere ha generato questo processo in Europa ed in Italia?

E' sufficiente, per il sistema italiano, gettare un occhiata alla Tavola 1, nella quale si raffigurano i numeri delle banche e dei gruppi bancari in Italia al 30/6/2012 e la relativa quota di mercato che possiedono nell'attività di prestito alle imprese, attività che consente una pesante influenza ed eterodirezione sul tessuto economico.


Fig. 1: Numero di Banche o gruppi e quota di mercato nei prestiti alle imprese, da Cristina DEMMA, Localismo e crisi finanziaria, Banca d'Italia, Questioni di Economia e Finanza, n. 264, https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2015-0264/QEF_264.pdf, dati dalle segnalazioni di vigilanza e Centrale dei Rischi (CR).

I primi cinque gruppi bancari italiani detengono più della metà della quota di mercato per i prestiti alle imprese. Insieme alle filiali ed alle filiazioni di banche estere, ne detengono oltre il 63%.

Nel citato recente articolo di Moro e Rosati viene ricordato come lo stesso Governatore della Banca d'Italia avesse già in precedenza enucleato i cambiamenti strutturali di tale disciplina economica bancaria: aggregazioni delle banche popolari e di credito cooperativo e loro trasformazione in società per azioni, nascita di una o più bad bank dove concentrare e gestire i crediti deteriorati o in sofferenza (circa 350mld di euro), ottimizzazione del recupero crediti sulla pelle degli operatori economici finanziati (che vengono in questo modo tratti in altro baratro economico) per giungere alla nuova procedura di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto "Bail-In".

Nel bail-in, il debito o la crisi del singolo istituto finanziario in difficoltà non può essere incamerato dalla sovranità finanziaria dello Stato (bailout) ma deve essere risolto attraverso il mercato privato, con la vendita cioè di nuove obbligazioni che forniscano ulteriore liquidità. Tali obbligazioni - essendo ovviamente emesse da un operatore in crisi -  acquistano un rischio elevato. Nelle famigerate "obbligazioni subordinate" il rischio economico è giuridicamente stabilito: esse saranno soddisfatte solo dopo la soddisfazione dei crediti obbligazionari primari e di quelli privilegiati, se resterà ancora capitale.

Sappiamo che la sovrastruttura giuridica europea ha proceduto nelle epoche precedenti a realizzare la privatizzazione di ogni forma di istituto bancario, svincolandolo da ogni afflato discrezionale della sovranità politica, in nome della libertà del mercato finanziario.

Condotti gli istituti finanziari nell'area di diritto e dominio privato, restava da esautorare l'esercizio della sovranità statale con riferimento alla risoluzione delle crisi di liquidità, le quali prevedono spesso la garanzia statale, soprattutto con riferimento alla tutela dei correntisti.

Una serie di direttive europee  - cui lo Stato è obbligato a dare interna applicazione mediante la propria legge -  dispone che di una crisi bancaria devono essere chiamati a rispondere gli azionisti, gli obbligazionisti non garantiti e subordinati ed anche i correntisti che hanno presso l'istituto depositi superiori a 100 mila Euro, soglia oltre la quale non è ammesso l'intervento statale di garanzia.

Lo Stato non deve pertanto più finanziare i propri istituti bancari in sofferenza: essi devono obbligatoriamente rivolgersi al mercato di finanziamento privato.  Dall'altro lato, esso non può nemmeno intervenire nella risoluzione dei default se non nella residuale copertura dei depositi minimi.

Il peso dell'eventuale default deve essere addossato agli azionisti della banca ma  non solo: esso si ripercuote anche sui depositi per la quota superiore a 100 mila Euro e sugli "obbligazionisti subordinati o non garantiti".

Chi sono e come nascono questi malcapitati?

Essi sono, anche in questo caso, parto della legislazione europea e frutto obbligato della modifica dei rapporti economici per attuare il "discarico" di un eventuale crisi sul risparmio e sulla società.

Se si fa riferimento alle comunicazioni ufficiali della stessa Banca d'Italia, a proposito della crisi delle banche popolari, i fini volti all'egemonia delle concentrazioni all'interno del meccanismo di risoluzione delle crisi sono  perfettamente e palesemente dichiarati.

Così infatti dichiarano i comunicati ufficiali della Banca Centrale della Penisola:

"Le perdite accumulate nel tempo da queste banche, valutate con criteri estremamente prudenti, sono state assorbite in prima battuta dagli strumenti di investimento più rischiosi: le azioni e le "obbligazioni subordinate", queste ultime per loro natura anch'esse esposte al rischio d'impresa. Il ricorso alle azioni e alle obbligazioni subordinate per coprire le perdite è espressamente richiesto come precondizione per la soluzione ordinata delle crisi bancarie dalle norme europee ("Direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie" - BRRD), recepite nell'ordinamento italiano dallo scorso 16 novembre con il Decreto Legislativo 180/2015. Tale normativa ha assegnato alla Banca d'Italia la funzione di autorità di risoluzione delle crisi nel settore bancario. 

La soluzione adottata, compatibile con le norme europee sugli "aiuti di Stato", si articola secondo il seguente schema. 

1) Per ciascuna delle quattro banche la parte "buona" è stata separata da quella "cattiva" del bilancio. 

2) Alla parte buona ("banca buona" o "banca-ponte" o bridge bank) sono state conferite tutte le attività diverse dai prestiti "in sofferenza", cioè quelli di più dubbio realizzo; a fronte di tali attività vi sono i depositi, i conti correnti e le obbligazioni ordinarie. Il capitale è stato ricostituito a circa il 9 per cento del totale dell'attivo (ponderato per il rischio) dal "Fondo di Risoluzione". Il Fondo di Risoluzione è previsto dalle norme europee e italiane ed è amministrato dall'Unità di Risoluzione della Banca d'Italia. Esso è alimentato con contribuzioni di tutte le banche del sistema. La banca buona viene provvisoriamente gestita, sotto la supervisione dell'Unità di Risoluzione della Banca d'Italia, da amministratori da questa appositamente designati; in tutti e quattro i casi la carica di Presidente è rivestita dal dott. Roberto Nicastro, ex Direttore Generale di Unicredit. Gli amministratori hanno il preciso impegno di vendere la banca buona in tempi brevi al miglior offerente, con procedure trasparenti e di mercato, e quindi retrocedere al Fondo di Risoluzione i ricavi della vendita. Nella tabella sono forniti i dati per ciascuna delle quattro banche buone e per l'aggregato delle stesse. 

3) Si è inoltre costituita una "banca cattiva" (bad bank), priva di licenza bancaria nonostante il nome, in cui sono stati concentrati i prestiti in sofferenza che residuano una volta fatte assorbire le perdite dalle azioni e dalle obbligazioni subordinate e, per la parte eccedente, da un apporto del Fondo di Risoluzione. Quest'ultimo fornisce alla banca cattiva anche la necessaria dotazione di capitale. Tali prestiti in sofferenza, svalutati a 1,5 miliardi dall'originario valore di 8,5 miliardi, saranno venduti a specialisti nel recupero crediti o gestiti direttamente per recuperarli al meglio. Per semplicità viene costituita un'unica banca cattiva che raccoglie le sofferenze di tutte e quattro le banche originarie. Nella tabella sono forniti i relativi dati. 

4) Lo Stato, quindi il contribuente, non subisce alcun costo in questo processo. L'intero onere del salvataggio è posto innanzitutto a carico delle azioni e delle obbligazioni subordinate delle quattro banche, ma è in ultima analisi prevalentemente a carico del complesso del sistema bancario italiano, che alimenta con i suoi contributi, ordinari e straordinari, il Fondo di Risoluzione. 

5) L'impegno finanziario immediato del Fondo di Risoluzione è, complessivamente per le quattro banche, così suddiviso: circa 1,7 miliardi a copertura delle perdite delle banche originarie (recuperabili forse in piccola parte); circa 1,8 miliardi per ricapitalizzare le banche buone (recuperabili con la vendita delle stesse), circa 140 milioni per dotare la banca cattiva del capitale minimo necessario a operare. Quindi, In totale, circa 3,6 miliardi. 

6) La liquidità necessaria al Fondo di Risoluzione per iniziare immediatamente a operare è stata anticipata da tre grandi banche (Banca Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI Banca), a tassi di mercato e con scadenza massima di 18 mesi. 

7) Le quattro banche originarie divengono dei contenitori residui in cui sono confinate le perdite e la loro copertura, e vengono subito poste in liquidazione coatta amministrativa. Le banche buone (banche-ponte) ne assumono la stessa denominazione con l'aggettivo "Nuova" davanti e proseguono nell'attività essendo state ripulite delle sofferenze e ricapitalizzate. La banca cattiva resterà in vita solo per il tempo necessario a vendere o a realizzare le sofferenze in essa inserite. 

Questa è la soluzione compatibile con le norme sugli aiuti di Stato che è emersa dopo che altre proposte erano state ritenute non compatibili durante le discussioni con la Commissione europea. Infine le Autorità italiane hanno adottato questa soluzione che ha effetti immediati ed evita il prolungamento dello stallo per le quattro banche, al fine di risolverne la crisi." (Banca d'Italia, Eurosistema, Informazioni sulla soluzione delle crisi di Banca Marche, Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, CariChieti e Cassa di Risparmio di Ferrara, 22.11.2015, sito bankitalia,https://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/documenti/info-banche-it.pdf ).

Si noti in primo luogo come l'emissione di obbligazioni subordinate sia resa obbligatoria dal sistema normativo sovratutturale europeo (Direttiva crisi bancarie attuata con D.Lgs. 180/2015).

In secondo luogo, il capitale necessario per l'operatività del Fondo di Risoluzione viene anticipata dalle tre banche monopoliste del sistema italiano, Intesa, Unicredit e Ubi Banca. Ciò consente alle massime concentrazioni di "eliminare" le banche minori in crisi ovvero di porle sotto il proprio indiretto controllo.

Questo consente alle medesime concentrazioni di incamerare altresì il controllo di un sempre maggior numero di capitalisti o di imprese.

C'è poi una cosa che non viene detta: chi mai può acquistare le c.d. "obbligazioni subordinate", posto che si tratta di prodotti finanziari ad altissimo rischio?

Nessuno.
Se non vi è costretto o se è ignaro di cosa acquista.

Lasciamo per un attimo da parte i casi in cui tali obbligazioni vengono "spacciate" ad ignari risparmiatori come "normali" prodotti finanziari, condotte che verosimilmente cadranno sotto la lente delle indagini penali, peraltro sempre di scarsa e tardiva efficacia in materie del genere.

Ciò che interessa è la diffusione "fisiologica" di tali tipi di obbligazione. A chi può essere imposto un acquisto rischioso di questo genere?
A chi ha un disperato bisogno di denaro per poter vivere o perché la propria impresa continui a vivere.
Ordinario vivere, in questi anni di crisi e stagnazione.

Generalmente, l'acquisto di obbligazioni subordinate viene imposto a chi chiede un mutuo, sia esso per l'acquisto di un immobile, sia esso finalizzato a finanziare la propria attività di impresa, ottenere fidi o castelletti.

Recentemente, alcuni colleghi avvocati mi hanno addirittura raccontato singolari casi concreti: si trattava di imprenditori ai quali veniva concesso un mutuo, poniamo di 100.000 Euro.  Di questi 100.000, all'imprenditore venivano versati in diretta disponibilità nel conto solamente 75.000. I restanti 25.000 venivano posti in un deposito sempre a lui intestato, ma indisponibile, controllato, controllabile ed aggredibile dalla banca, giustificato dalla necessità di "garanzia" in caso di sofferenza del credito. Gli interessi naturalmente venivano calcolati sulla cifra totale di centomila, nonostante la pecunia a disposizione dell'imprenditore fosse solo 75.000. A questo tipo di operazione veniva affiancato un acquisto "obbligatorio" di obbligazioni di tipo subordinato della banca emittente, di solito praticato facendo ricorso proprio al denaro prestato.

Il piccolo capitalista avrebbe dunque pagato un salato interesse imposto su centomila euro di capitale, pur disponendone di soli 75.000. Di questi egli avrebbe dovuto poi impegnarne un'ulteriore frazione nell'acquisto di obbligazioni che non rivenderà mai, e probabilmente vedrà svanire nel default della banca.

In questo modo il rischio veniva scaricato sui capitalisti più deboli o peggio sui soggetti economici più deboli della scala sociale.

Contemporaneamente, una serie crescente di attività di impresa viene ad essere attratta sotto il controllo, il condizionamento,  ovvero -  nei casi di default - sotto la proprietà degli istituti bancari emittenti, i quali a loro volta gravitano sotto il controllo del Fondo di risoluzione e quindi dei soggetti monopolisti che lo finanziano.

Questo tipo di condotte sfugge ad ogni censura di legge.  Subordinare la conclusione di contratti all'accettazione - da parte degli altri contraenti -  di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi, viene sanzionato solo a livello di diritto comunitario (art. 82 Tr. CEE) laddove l'impresa sia in posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo e "nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri".
Condizioni difficilmente dimostrabili in una situazione di questo tipo.

Al di là della qualificazione giuridica, la domanda più scottante va rivolta all'imprenditore che coltiva l'illusione della propria "libertà di impresa".
In cosa consiste questa asserita libertà, in un simile sistema?

Significa di fatto gettare il proprio capitale in una sovrastruttura dove le grandi concentrazioni monopolistiche finanziare prenderanno a poco a poco il controllo e l'influenza dell'attività di impresa che si crede di gestire.

La verità, come dice il famoso brocardo è spesso rivoluzionaria.
Tuttavia, può non essere sufficiente.

La crisi economica permanente che colpisce grandi fasce della popolazione non è solamente un fenomeno avvertito nelle sue conseguenze più spiacevoli: grave ed ulteriore impoverimento delle fasce popolari a basso reddito, impoverimento e regressione sociale di grandi fasce della classe media, perdita dei beni di necessaria sussistenza ed inaridimento delle prospettive migliorative della vita.
Esso costituisce un'opportunità conoscitiva.

Anche ad una riflessione superficiale, appare evidente la caduta di tutti gli dei che l'egemonia culturale capitalista offriva come culto di progresso fondato sui rapporti economici di competizione come opportunità di riscatto sociale.

I monopoli finanziari ed industriali hanno tratto a se' i frutti di un'economia sempre più globalizzata, prendendo la direzione politica ed economica delle vecchie forme di stato nazionale, annullandone la sovranità nelle istituzioni regionali - come l'UE in Europa -  imponendo regole statutarie internazionali dettate dalle centrali tecniche dei monopoli - come è il caso del TTIP per il settore europeo - imponendo alle classi lavoratrici dei singoli stati uno statuto di precarietà sociale e sudditanza istituzionalizzata, reclamabile dai padroni davanti ai giudici territoriali.

Mai come ora l'individuo appartenente ad una classe di reddito disagiata, sprovvisto del potere finanziario sufficiente a condurre un'esistenza dignitosa, può comprendere che la situazione di permanente sacrificio proviene dai rapporti economici di sfruttamento e dagli spietati binari della competizione sociale.

Nulla di buono proviene dal tralaticio mito della concorrenza quale asserito anelito di libertà e promozione sociale secondo il merito. Ciò viene sperimentato dall'ingente moltitudine di persone che la "concorrenza" l'ha letta nelle proprie lettere di licenziamento, che ha sperimentato la globalizzazione con la chiusura degli stabilimenti, che ha sentito su di sé la proclamata indipendenza delle banche dal potere statale nel momento in cui il fallimento di una banca soccombente ha azzerato risparmi, azioni, obbligazioni, in qualche caso anche il conto corrente.

Il tutto in nome della libertà del mercato, che non consente la privatizzazione delle banche e le vincola alla raccolta di fondi solo sul mercato privato.

Persino l'altrettanto tralaticia narrazione dell'iniziativa di impresa intralciata dal malvagio interventismo dello Stato, cantata da quegli Einaudi che si usava appendere dietro le casse delle botteghe (4), è rovinosamente caduta di fronte alla stessa impotenza dello Stato e della politica tradizionale di fronte ai dettati di austerità.

La tragedia della classe media in disfacimento è in realtà la caduta dei propri dei e della propria visione del mondo. Quella libertà di impresa che appare in un primo momento soddisfare la sete di arricchimento diviene in poco tempo veleno che uccide la libertà, costretta tra le ganasce finanziarie del recupero crediti che si mangia case, professione, bottega e in molti casi anche l'esistenza.
Da questo avvelenamento la classe piccolo e medio-borghese passa spesso direttamente alla sottoproletarizzazione.

Per le restanti classi economicamente subordinate cade anche il mito della democrazia quale autodeterminazione dei popoli. Il controllo sempre più pregnante e potente sull'economia da parte di grandi operatori privati svuota la sovranità popolare e compie terra bruciata di ogni Carta Fondamentale interna.

Viene intanto del tutto cancellata ed archiviata persino l'illusione socialdemocratica del "capitalismo regolato" o di quello che autori come Minsky nella citazione di Giacchè chiamano "capitalismo interventista" (interventionist capitalism), "in cui ha un ruolo rilevante lo Stato (Big Government)" e "si oppone al modello di capitalismo che lasciava al mercato il compito di regolare l'attività economica"(5) prevedendo che il Governo giochi un ruolo chiave nel regolare l'attività economica stessa.

Nella Carta italiana, a fronte degli enormi leviatani giuridici costituiti dai trattati europei e dai trattati internazionali come il TTIP, salta la possibilità anche teorica di "controllare dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell'attività economica, senza accedere totalmente ad una economia collettiva o collettivizzata, e senza d'altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole al fine di raggiungere determinati obiettivi sociali"(6), obiettivo che, al tempo dei lavori preparatori, Amintore Fanfani indicava a nome della Democrazia Cristiana.

Sul TTIP e gli altri trattati bilaterali regionali si rinvia al recente articolo di Prabhat Patnaik, "Verso il dominio delle multinazionali globali", http://www.resistenze.org/sito/os/ec/osecfn07-017223.htm , ma anche ad alcune considerazioni nel mio pezzo "Qual è l'Impero del Male? Ci viviamo dentro", http://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmpfn08-017222.htm, entrambi apparsi sul numero 568 di Resistenze.org.

Ma l'impossibilità di regolare il mercato si porta via anche ogni concetto, fondato o meno, di democrazia progressiva e sovranità popolare, nel quale lo stato democratico ha il compito di promuovere con strumenti concreti e misure di intervento l'eguaglianza e la libertà sostanziale dei cittadini. Il controllo dell'economia da parte degli operatori più forti all'interno della libertà di mercato non ammette diritto al lavoro, non ammette diritto alla casa, non ammette ruolo attivo delle rappresentanze politiche nei giochi dell'economia.

I "giochi dell'economia" non sono però affatto una stanzetta separata dal mondo, sono quelli che Marx chiama "rapporti di produzione". Disegnano la società: la libertà del mercato, delle merci e dei capitali sono la vera dittatura del capitale sull'uomo.

A ben riflettere, di solito, coloro che propugnano a gran voce la libertà di merci e capitali non sono i singoli individui che anelano all'autorganizzazione attraverso la libertà di imprendere, ma sono i dominatori di quei mercati. Coloro che, per mezzo dell'assoluta libertà, della deregolamentazione e dell'annullamento delle sovranità politiche ed economiche degli Stati, impongono la propria legge del più forte.

Molto intelligentemente Alberto Bagnai ricordava in un recente convegno che Adam Smith scrisse La Ricchezza delle Nazioni solo quando l'Inghilterra divenne padrona degli scambi commerciali.
E' sempre il più forte a volere le mani libere.

Di fronte a questo scenario, ben si comprende la piccola importanza delle singole vicende politiche o delle corruttele retrostanti ad ogni singolo scandalo.

A che scopo additare la nomenclatura del potere, se non si mutano radicalmente i rapporti che hanno consentito lo sviluppo e l'incrostazione fisiologica di tali fenomeni di malversazione?

I conflitti di interesse politico all'interno di Banca Etruria rappresentano solamente il tentativo di compensare illegalmente la spietatezza legale del mercato.

La corruzione, il servilismo e la malversazione dei politici, sono i sintomi del capitalismo, non le sue malattie. Essi appaiono - nei conflitti tra capitalisti -  o come mezzo del piccolo per combattere il grande, oppure come mezzo del grande per ampliare la propria efficacia al riparo da rischi.

In questo scenario, a rimanere nudi non sono però solo il re e l'assassino, ma anche l'illusione di poter controllare i rapporti di produzione capitalistici, magari con l'ingenua convinzione che la "pulizia dai corrotti" possa restituire una dimensione economica ugualitaria con le regole del gioco rispettate e le opportunità riazzerate.

E' nel seguire queste regole del gioco che si perde.

Il vero avvento della libertà arriverebbe finalmente comprendendo ed accettando l'unico modo  possibile per essere liberi: programmare e costituire una società di eguali in cui la produzione non sia di alcuno, non debba soddisfare l'aspirazione di imprendere, di competere, di veder soddisfatto un fantasma che viene nominato "merito" mentre il suo vero nome è azzardo, furbizia e spietatezza, mentre il suo cognome è profitto. Una società fondata su un modo di produzione demandato a realizzare ciò che serve a tutti, dove serve a tutti, nel modo accettato da tutti, perché tutti ne abbiano godimento secondo le loro necessità ed i loro bisogni.

Il fantasma di un'economia pianificata, collettiva, sotto il controllo dei veri produttori e finalmente affrancata da un'anarchia concorrenziale che divora esistenze e pianeta.

Questo è il fantasma che si aggira per l'Europa.

A tutti gli offesi, umiliati, derisi, reificati presenti e futuri dovrebbe finalmente spettare il compito di agitare nuovamente lo spettro, comprendendo finalmente che non esiste dignità dove esistono classi e competizione economica e sociale e che l'indegnità - prima o poi -  può toccare a tutti, nella presente o nella futura generazione.

Di capitalismo si muore, così come si moriva di fascismo e nazismo.

Note: 

1) Domenico Moro, Marco Rosati, Le vere crisi delle banche popolarihttp://www.resistenze.org/sito/os/ip/osipfn22-017301.htm.

2) Corrado Passera, Il processo di concentrazione del sistema bancario, Voce dell'autore sull'enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/il-processo-di-concentrazione-del-sistema-bancario_(XXI_Secolo)/

3) Andrea F. PRESBITERO, Il consolidamento del settore bancario, fatti e teorie, Dip. di Economia, Corso di Economia Monetaria, Università Politecnica delle Marche, http://utenti.dea.univpm.it/presbitero/notes/Sistema_bancario.pdf

4) Spesso era uso di negozianti appendere una celebre frase di Luigi EinaudiI: "Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi." (da Dogliani, Dedica all'impresa dei Fratelli Guerrino, 15 settembre 1960)

5) H. Minsky Finance and Stability: The Limits of Capitalism, citato in Vladimiro Giacchè, Costituzione italiana contro trattati europei, il conflitto inevitabile, Imprimatur, 2015 p.

6) Amintore Fanfani, Relazione nel corso dei lavori preparatori alla Costituzione, citato in V. Giacchè, op. cit. nota 4.

Di Enzo Pellegrin

Resistenze.org

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