22 luglio 2009

COLPO DI STATO NEL CORTILE U.S.A.

Sapevate che Obama avrebbe preparato un colpo di Stato? La teoria del coinvolgimento degli Stati Uniti, o almeno dei suoi settori più conservatori, aumenta di peso.



di Decio Machado

Nonostante il fatto che l' Honduras può sembrare un piccolo paese con appena 7,5 milioni di abitanti, il 60% di loro in condizioni di povertà e di uno dei più alti tassi di omicidio nel mondo, rimane un settore di importanza geopolitica agli Stati Stati Uniti d'America.

Secondo Cesar Lazo, segretario generale della Unione Scrittori e Artisti dell' Honduras (UAEH), "coloro che credono che il colpo di Stato in Honduras è il risultato di una semplice lotta di potere tra gruppi dell'oligarchia nazionale hanno una visione ridotta della cosa ". E aggiunge: "L'intervento americano in Honduras è parte del piano che cospira contro ALBA al fine di fermare i piani redentori dei nostri popoli."

Anche se ci sono diverse ipotesi circa il colpo di stato, tra i ricercatori e analisti, ha sottolineato che la partecipazione degli Stati Uniti, secondo Manuel Freitas, uno specialista di intelligence strategica, "ci sono due letture che sono il bersaglio del golpe, uno che è stato un manovra interna dei falchi conservatori contro Obama utilizzando l' Honduras come un teatro di operazioni, l'altra, che era una operazione di doppia facciata volta a posizionare la strategia di Obama nella regione, principalmente in relazione con i presidenti di sinistra, che formano l' ALBA ".

Allo stesso modo la pensano i settori mobilitati in Honduras. Juan Barahona, uno dei leader del Blocco Popolare in Honduras, ci dice che "sembra impensabile che il golpe in Honduras è stato alcun sostegno da Stati Uniti, ed è ancora più impensabile che, senza tale sostegno abbiano resistito all' unanime pressione internazionale e la pressione del popolo dell' Honduras, che sta paralizzando il paese."

In contrasto con altri golpe nella regione, la reazione della comunità internazionale è stata immediata. In soli 24 ore hanno risposto presidenti e cancellieri di 34 paesi latino-americani. Immediatamente, sono stati sostenuti da 192 delle Nazioni Unite. In una mossa senza precedenti, tutti i governi del mondo hanno condannato il golpe e hanno chiesto il ritorno del legittimo presidente.

Nelle sale della OSA e la Casa Bianca era facile ascoltare conversazioni che indicavano che se fosse vero che il Presidente Obama non era a conoscenza del colpo di stato, in aggiunta ad un' insubordinazione militare in Honduras, vi era anche una forma di insubordinazione o di un colpo di stato negli Stati Uniti nei confronti del Presidente Obama, con protagonisti i settori ultraconservatori del Pentagono e del Dipartimento di Stato, con l'obiettivo di boicottare, attraverso l'Honduras, le sue politiche di riavvicinamento con Chavez, Cuba e i presidenti dell'ALBA.

E gli interessi degli Stati Uniti d'America?
Sebbene Honduras è stato definito come la Repubblica delle Banane, dato l'assoluto controllo esercitato dalla United Fruit Company nel paese, in questo momento gli interessi economici si basano su a presentare gli interessi economici degli Stati Uniti si basano sulle maquilas e 150 transnazionali dove hanno investimenti per più di 968 milioni di dollari.

In campo militare, mette in evidenza la base militare a José Soto Cano, uno delle tre basi subordinate al Comando Sudamericano USA, dove la task force comune 'BRAVO', è formata da membri delle forze armate, forze aeree, di sicurezza e del 1° Battaglione Reggimento n. 228 di aviazione degli Stati Uniti. La base conta 600 militari effettivi degli Stati Uniti, 18 aerei da combattimento UH-60 Black Hawk e CH-47 Chinook. Il 31 maggio dello scorso anno, il Presidente Zelaya ha annunciato che sarebbe stato utilizzato per i voli commerciali e la costruzione di un terminal civile finanziato con fondi dell'ALBA.

Allo stesso modo, nel contesto della ALBA si parla di riserve di petrolio del Rìo Patuka, stessa zona, in cui il precedente governo dell' Honduras, presieduto da Ricardo Maduro, aveva offerto agli USA per costruire un'altra base militare nella regione di Mosquitia.

Zelaya ha già avuto divergenze con il governo degli Stati Uniti. Nel dicembre 2008, ha inviato una lettera personale a Barack Obama chiedendo alla nuova amministrazione statunitense di rispettare il principio di non-intervento, accusandolo, a sua volta, ad utilizzare i visti d'ingresso negli Stati Uniti come "mezzi di pressione", oltre a respingere le dichiarazioni "inappropriate" dei suoi ambasciatori in America Latina. Zelaya ha dichiarato testualmente in questa lettera: "La legittima lotta contro il narco-traffico o altre nuove minacce, non deve essere usato come una scusa per effettuare interferenze in altri paesi". Zelaya indica anche "l'urgente necessità di rivedere e trasformare la struttura delle Nazioni Unite", pur raccomandando un dialogo per risolvere le differenze con il Venezuela e Bolivia.

Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha detto che il modo in cui gli Stati Uniti sta lavorando con i suoi partner per ripristinare l'ordine democratico e, poco dopo, Hillary Clinton indivava il presidente della Costa Rica Óscar Arias come mediatore nel conflitto.

Mentre la segretaria di Stato Usa segnala che non ha intenzione di sospendere gli aiuti economici all'Honduras, che comprende l'accantonamento per il finanziamento delle forze armate, di polizia e dei servizi di intelligence in Honduras, Si cerca in tutti i modi che sia un paese alleato, come la Costa Rica che dia la soluzione del conflitto, che porterebbe alla rinuncia delle posizioni radicali sulla sovranità e democrazia partecipativa da parte di Zelaya, ed inoltre eviterebbe che fosse l'ALBA a capitalizzare la vittoria della democrazia in America Latina.

MANUEL ZELAYA, DA FIGLIO DI PROPRIETARI TERRIERI A LEADER POPOLARE
Manuel "Mel" Zelaya, figlio di terrieri, prima di dedicarsi alla politica, fece affari con forestali e l'allevamento di animali. Nel 1987 è stato nominato direttore del Consiglio di imprese private honduregno e presidente della associazione di categoria del legname. Ha aderito nel Partito Liberale Honduregno nel 1970 essendo deputato varie volte e dove svolse cariche pubbliche. Nel 2006, è entrato in carica come presidente dell' Honduras. Durante la campagna è stata presentata come un uomo di campagna, di linguaggio diretto e schietto, disconnesso dalla politica, credente, e con una mano ferma per combattere la corruzione.

Come presidente ha sostenuto il Trattato di Libero Commercio (TLC) tra la Repubblica Dominicana, l' America centrale e gli Stati Uniti (NAFTA), in mezzo alle forti mobilitazioni popolari contrarie. Nonostante questo, si avvicinò al governo Chavez e ha introdotto in Honduras Petrocaribe, alleanza in materia petrolifera marcata da vari paesi dei Caraibi per l'acquisto di carburante da Venezuela di finanziamento a condizioni di finanziamento preferenziali, pagando il 50% entro 90 giorni e il resto in 25 anni, con un interesse dell'1%.

Nel corso del tempo, il suo discorso si è evoluto verso il liberalismo socialista, la critica all'intervenzionismo degli Usa e il sostegno a Cuba e i richiami a Dio.

Di fronte a un paese povero, Mel corona la sua conversione ideologica incorporandosi all'ALBA. Durante i primi 32 mesi di governo, Zelaya ha affrontato 722 conflitti sociali di varia entità, compresi i civili scioperi. Definito dalla oligarchia come "un traditore della sua classe," Zelaya finisce di colmare l'ira dei poteri del suo paese, alzando il salario minimo e istituendo un referendum popolare non vincolante, che aveva la finalità di sapere se la cittadinanza era d'accordo che alle prossime elezioni ci fosse una quarta urna per votare un referendum volto ad introdurre un processo costituzionale.

Fonte: http://www.diagonalperiodico.net/Golpe-de-Estado-en-el-patio.html

21 luglio 2009

PIANO CASA: COME SVENDERE L'ITALIA PER FARE CASSA

IL PIANO CASA E' UNA ROVINA IRREVERSIBILE



"Stanno svendendo l'Italia solo per ricavare un utile immediato. Sul paesaggio, sul territorio italiani non c'e' piu' da nutrire preoccupazione: ma autotentica disperazione. Sara' una rovina irreversibile di cui soffriranno le nuove generazioni. E poi ne risentiranno il turismo, che abbandonera' il nostro Paese, e' gia' sta avvenendo. Poi la salute, l'identita', le radici stesse degli italiani".

Lo ha affermato Giulia Maria Crespi, presidente del Fondo ambiente italiano in un'intervista al quotidiano 'Il Corriere della Sera': "I soprintendenti calano di numero e hanno sempre meno mezzi a disposizione - ha continuato Crespi - Ora c'e' questa proroga del Codice dei Beni culturali che consente ai soprintendenti di pronunciarsi solo a cose fatte, a progetto varato. Intanto le regioni stanno approntando i loro piani.
Ora i comuni - ha aggiunto - permettono ai costruttori di autocertificarsi l'idoneita' del progetto. Sono insegnamenti che definirei di gravissimo scadimento morale all'intero sistema italiano. Senza il Codice completo, il Piano Casa potra' avere effetti divastanti, purtroppo irreversibili sul paesaggio.
Il Piano Casa prevede - ha proseguito - la possibilita' di abbattere vecchi edifici, di aumentare la cubatura, di stravolgere insomma interi panorami".
"Io credo che circoli un ragionamento trasversale: fare soldi subito. E poi, dopo di me il diluvio. Lo disse Luigi XV, ma dopo ci fu la Rivoluzione francese. E, dopo, per noi, ci sara' solo un territorio devastato per sempre - ha detto ancora Crespi - E qui nessuno e' piu' sensibile. Non lo e' la destra. Ma non lo e' nemmeno la sinistra: neanche l'attuale opposizione colloca l'ambiente tra le sue priorita'. Anzi se ne disinteressa totalmente. Rimaniamo solo noi associazioni: Fai, Italia Nostra, Lipu, Wwf. Siamo visti da tutti come scomodi cretini.Lo ripeto stanno svendendo la nostra Italia davanti all'indignazione del resto d'Europa".

Fonte: http://www.clandestinoweb.com/

OBAMA VIETA ALL'FBI DI TESTIMONIARE SULL' 11 SETTEMBRE 2001



Portate in tribunale dalle famiglie delle vittime degli attentati dell’11 settembre 2001, le compagnie aeree hanno sostenuto che anche se fossero aumentate le misure di sicurezza, gli attacchi avrebbero avuto successo.

Secondo i loro avvocati, l’inerzia delle autorità è sufficiente a spiegare i risultati di quel giorno disastroso. Per sviluppare la loro tesi, gli avvocati difensori hanno voluto chiamare a testimoniare degli agenti dell’FBI.

Infatti, dopo gli attentati l’FBI ha condotto una vasta inchiesta. Delle prove dimostrano che il governo non ha preso, in quel giorno, le misure regolamentari che avrebbero potuto impedire il moltiplicarsi degli attentati.

Tuttavia, attraverso l’intervento del Procuratore Generale degli Stati Uniti, Eric Holder, il giudice Alvin Hellerstein ha vietato l’audizione degli agenti dell’FBI, impedendo in tal modo alle compagnie aeree di sviluppare la loro difesa. L’udienza riprenderà il 28 luglio.

7 anni dopo i crimini, l’indagine dell’FBI, che comprende 155.000 reperti e 167.000 minuti d’interrogatori, non è stato esaminato da alcun tribunale. Il suo contenuto è noto solo attraverso dei processi su questioni connesse [1] e le dichiarazioni dei funzionari alla stampa. Essi assicurano che le loro indagini negano la versione del governo dell’evento[2].

Contraddicendo le parole dei funzionari della CIA e dei successivi segretari alla giustizia, l’FBI si è rifiutato di attribuire gli attentati a Osama bin Laden, che non è ricercato a questo titolo.

Note
[1] Ad esempio, durante il processo al francese Zacarias Mousaoui, accusato di cospirazione per la partecipare al dirottamento del volo American Arlines 93, l’FBI ha respinto le conversazioni telefoniche scambiate in quel giorno tra i passeggeri degli aerei dirottati e i loro familiari a terra. I funzionari, sotto giuramento, asseriscono - come indicato dalle loro indagini- che queste chiamate, così spesso citate, non sono mai esistite e sono false.

[2] "41 ex responsabili statunitensi dell’anti-terrorismo e dell’intelligence mettono in discussione la versione ufficiale dell’11 settembre 2001", di Alan Miller, Réseau Voltaire, 9 giugno 2009.

Fonte: http://www.voltairenet.org/

20 luglio 2009

CINQUE SECOLI DI GUERRA...CHE ANCORA CONTINUA

Intervista al senatore aymara Lino Villca (nella foto)

di Franz Chávez

LA PAZ, 22 giugno 2009. I popoli indigeni dell’America Latina vivono in una guerra continua da 517 anni, nel tentativo di ottenere il potere politico per autogovernarsi e spodestare gli stati coloniali, spiega il senatore boliviano Lino Villca parlando delle recenti proteste e violenze scoppiate nella foresta amazzonica peruviana.

In un’intervista, Villca sostiene che la lotta organizzata dagli indigeni è ripresa nel 1992, e osserva che la resistenza allo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei nativi a Bagua, nella regione peruviana nordorientale amazzonica, rappresenta una rinascita dei popoli ispirata al pensiero del presidente della Bolivia, l’indigeno aymara Evo Morales.

Il senatore Villca è un agricoltore di coca della regione semitropicale degli Yungas, nel nord del dipartimento di La Paz, ed è stato uno degli attori del processo di formazione del Movimiento al Socialismo oggi al governo, in funzione dell’identità culturale e delle antiche organizzazioni precoloniali. Come Morales, è di etnia aymara.

“Non accetto e condanno la versione dello stato peruviano, che vuole incolpare di ingerenza politica il fratello Morales, e della morte di 50 indigeni nella foresta del paese”, ha osservato Villca riferendosi agli scontri di Bagua. Le autorità hanno dichiarato che tra le vittime vi erano 24 agenti di polizia e 10 nativi, ma i capi delle comunità parlano di decine di manifestanti uccisi.

IPS: Qual è l’origine delle lotte dei popoli indigeni in America Latina?

LINO VILLCA: Dal Venezuela, passando per Colombia, Ecuador, Bolivia, Perú, Argentina, parte di Paraguay e Cile, siamo storicamente un solo popolo, rappresentato dal grande (impero del) Tahuantinsuyo.

Nel 1533 avevamo un leader politico di nome Atahuallpa, e i nostri popoli non conoscevano frontiere fino all’arrivo degli spagnoli, che divisero il territorio americano in vicereami. Noi però eravamo organizzati come un unico popolo.

Nel 1781, è stata organizzata una grande insurrezione contro la corona (spagnola) nell’altopiano, che oggi è territorio boliviano, da Tupak Katari e Bartolina Sisa, mentre i fratelli Nicolás e Tomás Katari capeggiarono la rivolta fino a Tucumán, oggi Argentina.

La zona andina che oggi appartiene al Perù è stata lo scenario delle lotte di TupacAmaru, che si sono estese fino alle regioni che oggi comprendono l’Ecuador.
Quello fu il grande grido libertario in America. In seguito, all’inizio del XIX secolo, ci sarebbe stato lo spezzettamento dei nostri territori in repubbliche.

IPS. Da dove nasce il desiderio di unificare le lotte dei popoli indigeni americani?

LV: Oggi gli aymara e i quechua sono ancora un unico popolo all’interno degli stati coloniali divisi dalle frontiere, con una storia millenaria che va al di là dei 517 anni dall’invasione spagnola.

Per questo, oggi lavoriamo a livello internazionale per il rispetto dei popoli aborigeni, perché vengano consultato sull’uso delle risorse naturali.

Si tratta di rispettare la Dichiarazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, che riconosce la libera determinazione sulle loro risorse, la loro economia e organizzazione.

In questo quadro, dal 1992, i popoli aztechi, maya, dell’antico Tahuantinsuyo e Kollasuyo, abbiamo organizzato grandi incontri, chiedendo agli stati coloniali il diritto ad autogovernarci.
Ci chiediamo: chi siamo, dove andiamo e chi ci governa? Crediamo che hanno tagliato i nostri rami, il fusto, ma non sono mai riusciti a tagliare le nostre radici. Un popolo senza identità è un popolo senza destino.

IPS: Come si è tradotto questo pensiero nelle organizzazioni sociali in Bolivia?

LV: All’origine di questo pensiero, in Bolivia abbiamo costruito uno strumento politico con un processo di formazione di leader con identità di popoli indigeni. Da quella fase sono nati leader illustri come Felipe "Mallku" Quispe, Alejo Veliz e lo stesso Evo Morales, il primo presidente indigeno nel continente, mentre cadono i neoliberali.

I popoli indigeni riconoscono Morales come loro presidente, al di là dei presidenti dei loro stati.

I popoli indigeni di Ecuador, Perù, Colombia e Bolivia riconoscono il mandato di Morales, e speriamo che in questi stati nasceranno altri leader indigeni per governarci.
Abbiamo avuto presidenti coloniali come Gonzalo Sánchez de Lozada (1992-1997 e 2002-2003 in Bolivia), che si è sporcato con il sangue indigeno e poi è stato espulso, e un prefetto (governatore) del dipartimento di Pando, Leopoldo Fernández, che ha commesso un genocidio con la morte di 15 indigeni nel settembre 2008.
Non accetto e condanno la versione dello stato peruviano, che vuole incolpare di ingerenza politica il fratello Evo Morales, e della morte di 50 indigeni nella foresta del paese. Siamo un unico popolo in lotta per i nostri diritti, e cerchiamo l’autodeterminazione di fronte agli stati coloniali.

IPS: Un messaggio di Morales rivolto all’incontro dei leader aymara americani, anche chiamato Abya Ayala, ha prodotto una reazione nel governo di Lima.

LV: Questo incontro si tiene dal 1992, è la grande crociata intercontinentale, e poi abbiamo creato il Consejo Andino dei cocaleros di Bolivia, Perú e Colombia. Il nostro presidente Morales ha sempre partecipato a tutti questi forum.

IPS: Qual è la natura e l’origine del riconoscimento dei popoli indigeni alla leadership di Morales?
LV: Che è un leader di identità, di nazione, di fronte ad uno stato istituito e, implicitamente, diffonde un pensiero (tra i settore aborigeni), e questo non significa ingerenza politica. È un richiamo del sangue, che si esprime senza bisogno di un contatto verbale con il leader. Anche in Perù nascerà un dirigente così, perché c’è un risveglio nella coscienza dei popoli indigeni.

IPS: Dopo diversi secoli di sacrificio umano e di spargimento di sangue indigeno, quando finirà questa lotta?

LV: È una guerra che dura da 517 anni. È la lotta per una nazione, con milioni di morti, dallo sfruttamento delle miniere d’argento con lo sterminio di indigeni, passando per le rivolte del 1871 da Quito a Tucumán, e il sacrificio di vite umane nella lotta per l’indipendenza, in cui gli attori erano gli indigeni, e non creoli e meticci.
È una guerra permanente, finché non ci sarà un consolidamento. In Bolivia è già cominciato questo processo.

IPS: Il raggiungimento del potere politico in Bolivia non implica la fine della guerra?

LV: Oggi non siamo consolidati in Bolivia, abbiamo puntato sul terreno giuridico della democrazia e dobbiamo avanzare ancora molto. Il riconoscimento delle 36 nazionalità nella nuova Costituzione deve essere ribadito nel nuovo riordinamento giuridico.
La destra resiste e continua a dominare sui popoli; in Perù lo scontro che ha visto più di 50 morti ha rotto il ghiaccio e sconvolto la politica di repressione dello stato coloniale che proibiva le manifestazioni pubbliche.
Domani saranno gli aymara di Puno (dipartimento del Perù), dopodomani saranno i quechua di Cusco (antica capitale dell’impero inca) e poi si uniranno le nazionalità del Perù, seguendo i passi della rivolta degli indigeni dell’Amazzonia.

©IPS (FINE/2009)

Fonte: http://ipsnoticias.net/nota.asp?idnews=92498

19 luglio 2009

RECRUDESCENZA DI BARBARIE AI CONTROLLI DELLE FRONTIERE IN EUROPA: IL CASO ITALIANO



Intervista con Fulvio Vasallo Paleologo, professore di Diritto all’Università di Palermo, esperto in immigrazione.

di Mayela Barragan Zambrano

Dedicato a Amir Rohol, 15 anni, afgano, a cui risultò fatale l’intenzione di raggiungere il nord Europa.

Ho potuto conversare con un esperto in materia di stranieri, clandestini e rifugiati, l’avvocato italiano Fulvio Vasallo Paleologo, professore di Diritto Privato, Diritto di asilo e Statuto Costituzionale dell’estero presso la Facoltà di Giurisprudenza all' Università Palermo. E’ membro dell' Associazione Italiana di Studi Giuridici sull' Immigrazione, ASGI.

Collabora con Fortress Europe e Border-line Europe. Ha scritto la prefazione del libro “Mamadou va a morire” del giornalista Gabrielle Del Grande, e i suoi articoli possono essere letti su Meltingpot e Il Manifesto.

Professore, i rifugiati colombiani che scappano dall’ Ecuador sono conosciuti come l’ombra del popolo degli invisibili perché a causa dell' assenza di un' identificazione molti non possono ottenere un permesso per essere scappati dal loro paese senza avere il tempo di prendere qualche documento, non possono ricevere l' assistenza alla quale hanno diritto, non possono lavorare e non possono frequentare la scuola. Ma è vasto e il numero dei popoli invisibili. Qui in Italia la realtà ancora più ignorata dai mass media nazionali è la frontiera italiana dell’Adriatico, il tragico finale di ragazzi come Amir Rohol che tentano di entrare in Italia e che muoiono tragicamente perché cadono dalla fine del camion al quale si erano aggrappati per arrivare in Italia. Lei che è uno dei principali attivisti che, quotidianamente, lottano per dare visibilità a questi avanzi di esseri umani senza identità, mi parli di questo popolo degli invisibili che cercano di arrivare al nord Europa attraverso la porta di frontiera dell’Adriatico, chi sono?

Sono persone che hanno subito molta violenza nel loro paese d’origine. In Afganistan i talebani, che controllano gran parte del paese, perpetuano il reclutamento forzato e spesso le famiglie afgane, per evitare che i suoi figli commettano atti terroristici, li fanno fuggire, perché in questo modo evitano che siano reclutati dalle milizie talebane.
Sono questi i ragazzi che arrivano in Italia attraverso la frontiera greca, e come chiunque può vedere dalle fotografie della homepage Meltignot, questi ragazzi presentano i segni della violenza che hanno ricevuto in Afganistan. Ma, per disgrazia, presentano anche le cicatrici che la polizia greca ha causato loro, soprattutto quando questi vengono riconsegnati a Patras per i porti italiani di Ancona, Brindisi o Venezia.
A Patras, e per settimane, la polizia greca, li rinchiude in contenitori prima del rimpatrio forzato e lì soffrono infinite torture e ogni tipo di violenza fisica. Abbiamo visto ragazzi con le falange delle dita rotte per i colpi coi bastoni, giovani con cicatrici in tutto il corpo. Purtroppo sono persone difficili da difendere.
Negli ultimi due mesi, la polizia greca, come parte di un piano più ampio del governo greco, ha incentivato la recrudescenza delle barbarie per lottare contro l’immigrazione illegale, desidero ricordarle che la Grecia è uno dei paesi più esposti all’arrivo di immigrati illegali, più che Spagna e Italia, per questo la Grecia ha messo in moto una politica di smantellamento dei campi abusivi che sono sorti a Patras, campi di fortuna rimediati da persone che sperano di entrare in Europa.
Di fatto la polizia greca realizza retate giornaliere e detiene, anche, i minori che dopo deportano in Turchia e in Afghanistan. Queste persone che la polizia greca deporta, che sono scappate dai contesti nei quali hanno sofferto violenze terribili, sono persone che hanno perso tutto: la loro famiglia e i loro margini di sopravivenza. Il rimpatrio forzato dei ragazzi afgani che vengono mandati indietro da Brindisi, Ancona e Venezia e che la polizia greca esegue, avviene senza seguire una prassi ufficiale; non resta un registro di quello che la polizia fa e quindi queste persone non possono ricorrere ad un giudice di pace, perché semplicemente vengono rifiutati nei porti adriatici col ritorno del capitano.
Sembra che esista un registro ufficiale, ma è segreto e resta nelle mani della polizia. Difficilmente esiste un’opportunità reale perché questi giovani possano avere l’opzione di difendersi da una pratica di questo tipo. Quindi, l’invisibilità degli afgani all’arrivo all’Adriatico è il prodotto di queste pratiche amministrative di devoluzione delle frontiere che realizza la polizia greca.
A chi entra dall’Adriatico viene negato il diritto di accedere ad un giudice di pace o il diritto di presentare richiesta di asilo, anche se questa persona è stata sul territorio italiano non può invocare le garanzie di uno Stato di diritto, resta a discrezione della polizia, per questo parlo di Stato di Polizia nel senso che questi immigrati in situazione irregolare non hanno la possibilità di accedere ad uno Stato di diritto che garantisca loro dei principi, ed è necessario sottolineare che questo succede ad un numero molto limitato di persone.
Denuncio, che in realtà, queste operazioni hanno solo un valore simbolico e pedagogico, per fermare l’immigrazione illegale in Italia.
Annualmente in Italia entrano 300.000 persone, di questa cifra chi è veramente arrivato sono circa 100-120.000, il resto entra illegalmente e dopo 3 mesi, dopo che finisce il permesso, si trasformano in illegali. Di questi 300 mila che il sistema produce ogni anno, la violenza viene usata su pochi, che possono essere 3, 4 o 5000 immigrati che cercano di raggiungere la frontiera dell’Adriatico o un basso numero di immigranti che dal Sud dell’Africa cercano di arrivare fino in Sicilia.
Il numero di stranieri illegali che entrano dal sud Italia si sono ridotti nel 2007 a 11.000, sono aumentati repentinamente nel 2008 a 36.000. Ma di questi sono più del 70 % quelli che hanno bisogno di asilo, e a più della metà è stato accettato lo stato di asilo. Quindi è un' autentica cattiveria, che si applichi questa modalità simbolica, pedagogica e strumentale che serve anche per ottenere voti durante le elezioni, come si è visto durante le ultime elezioni, ma non con il fine di eliminare gli “immigrati illegali”, perché questo problema tocca donne, bambini e chi richiede l’asilo. Purtroppo l’Italia li rimanda alla Grecia o alla Libia e queste persone spariscono senza che abbiano le garanzie di uno stato di diritto.

Professore, lei propone un monitoraggio sugli immigrati, chi dovrebbe portare avanti questa attività di osservazione, vigilanza e controllo?

Le associazioni che sono già presenti nei porti di Ancona, Venezia e Brindisi e le autorità locali che lavorano insieme con i progetti di queste organizzazioni dovrebbero essere autorizzate a presenziare il momento dello sbarco dei camion che entrano nei porti dell’Adriatico. Osservare l’arrivo dei trasbordatori che spostano i camion provenienti dalla Grecia all’Italia, veicoli che occultano dentro o sotto, molti giovani. Perché altrimenti i ragazzi sono detenuti detenuti nelle zone rosse del porto senza che nessuno osservi quel che succede, solo alcuni di loro che sono stati rinchiusi nelle officine ad un km di distanza dai luoghi ufficiali dello sbarco, potranno, dopo, essere trovati dalle associazioni indipendenti che successivamente saranno autorizzate dalla stessa polizia che è chi decide a chi , dove, come e a quale luogo avere accesso.
Le associazioni devono avere accesso libero a queste zone rosse, per vigilare e poter controllare il territorio in tutte le zone degli sbarchi. Di fatto esiste una gran militarizzazione delle zone portuali che effettuano gli espatri informali nelle frontiere dell’Adriatico, e che si giustificano ufficialmente con una forma molto debole, perché si appoggiano negli accordi bilaterali che Italia ha sottoscritto con la Grecia negli anni 90 che, in realtà, sono accordi già superati dalla nuova legislazione internazionale in materia di asilo e di protezione, anche negare l’entrata, senza alcun tipo di formalità ufficiale, è illegale perché nell’accordo bilaterale del 90 Grecia e Italia contemplavano che il rimpatrio illegale si doveva portare avanti seguendo una serie di formalità relative al registro, identificazione dei bambini, le donne e esiste anche il divieto delle deportazioni in massa.

L’articolo 10 della Costituzione Italiana recita quanto segue: L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. Ma, questo modus operandi che lei descrive dimostra che in Italia in pratica ai rifugiati viene negato il diritto alla difesa?

Il diritto alla difesa è un diritto di ogni individuo, quando viene sottomesso alla misura di un rifiuto collettivo, è evidente che siamo in un contesto di negazione del diritto all’asilo e al diritto alla difesa, perché una persona non può emergere da un gruppo per difendere la propria causa. Questo diritto che appartiene ad ognuno non può essere invocato, lo stesso succede con le deportazioni in massa che succedono nel Mediterraneo, dato che la restituzione collettiva avviene quando la barca è nel mezzo della strada tra la Libia e la Sicilia, o quando un gruppo di 10 o 15 giovani arrivano con la barchetta e collettivamente vengono assegnati al capitano della barca. Devo precisare che il rimpatrio forzato alle porte dell’Adriatico succede nell’area di Schengen, mentre che la differenza con il Mediterraneo è che le deportazioni massicce verso la Libia non appartiene all’area di Schengen, questo differenzia le cose, perché con rispetto alla Grecia si possono azionare dei meccanismi di monitoraggio per dopo avere la possibilità di scelta di ricorrere ad un giudice ed ad una sentenza.
La Corte Europea qualche giorno fa riconobbe le nostre motivazioni ed ha intimato la Grecia affinchè sia preventiva, impedisca e eviti lo spostamento di immigranti in Turchia, nonostante questa sia una decisione della Corte Europea, fino ad ieri pomeriggio, ci sono state retate in Grecia e contro la decisione del Tribunale Europeo dei Diritti Umani, la Grecia rimpatriò due giovani, uno di loro di 12 anni, giovani che avevano fatto ricorso al Giudice perché erano stati rifiutati in Italia, sono stati deportati in Turchia, e questo aumenta la responsabilità dell’Italia stessa, perché violano molti principi dei diritti umani, non solo quando un paese espelle direttamente le persone ad un altro paese dove queste persone vengono sottomesse a torture e dove, anche, perderanno la vita, ma anche quando un paese rispedisce ad un altro paese che a sua volta deporta ad un altro paese dove i rifugiati mettono in pericolo la loro vita.

La Grecia e la Turchia: cosa si deve fare per salvare i giovani afgani che cercano di entrare illegalmente dall’Adriatico?

Si deve seguire la politica internazionale. Negli ultimi mesi sono accaduti vari cambiamenti significativi, dato che la Grecia e la Turchia si sono fatte la guerra tra di loro fino a 6 mesi fa, si sono rifiutati a vicenda spesso con conflitti tra imbarcazioni con incendi, affossamenti con morti e feriti. Ma durante gli ultimi 6 mesi, dovuto alle pressioni della UE che continuano, perché l’UE considera che la Turchia non sta dando garanzie sufficienti, l'UE sta facendo la stessa cosa che ha fatto con la Romania, prima che aderisse alla UE, l' UE sta imponendo alla Grecia norme standard di detenzione e arresto di immigrati illegali, in contrasto con l’immigrazione illegale anche accettare gli immigrati deportati dall’Europa. L' UE sta cercando di imporre questo alla Turchia e quindi la relazione con la Grecia – la Turchia, che sempre è stata problematica, dall’intervento dell’UE sta convertendo in una collaborazione che si sta traducendo nella possibilità di spostare in Turchia molti immigrati che prima non venivano portati qui ma che restavano in Grecia, parlo degli afgani e iracheni, e la Turchia che confina con il Kurdistan, effettua le deportazioni forzate verso l’Afghanistan, qualcosa che direttamente non fa l’Italia ma lo fa indirettamente attraverso la Grecia e la Turchia.

Lei sostiene, che se non capiamo da dove provengono i problemi dei quali siamo testimoni, non riusciremo a trovare i mezzi per risolverli.

Perché in realtà, sembra che l’obiettivo è fermare l’immigrazione illegale come se i rifugiati fossero immigrati che si approfittano delle richieste di asilo per avere uno status giuridico, più ignoriamo o si fa finta di nulla che la situazione che oggi si vive in Afghanistan ed in Turchia ( o della Libia riguardante l’Eritrea, Sudan o Nigeria, dove ci sono colpi di Stato, gruppi militari, continue violazioni dei diritti umani), che le persone che sono fuggite o che fuggono, dopo aver visto distrutto le possibilità di sopravvivenza economica e a volte anche di quella fisica. Per questo motivo dobbiamo essere coscienti che questo flusso non è un’ invasione di milioni di persone come “strumentalmente” si vuole far credere, ma è un problema con il quale nei prossimi anni, indipendentemente dall’altezza della soglia della barriera della frontiera che venga imposta, continuerà. Tutte le pratiche di deportazione possono avere effetto durante un anno, durante un mese, come lo dimostra molto bene, l’esperienza spagnola (Marocco-Spagna), dove nel 2007 e successivamente, dopo l’applicazione del programma Hera de FRONTEX, si è prodotta una diminuzione del 50 % degli sbarchi che erano del 70 % nelle Isole Canarie e del 30% nel resto della penisola, in Italia succederà lo stesso, diminuiranno le entrate delle imbarcazioni, ma questo non è un modo di affrontare il problema, perché l’anno prossimo, come è già successo in Spagna vedremo un aumento e l’aumento di tutta una serie di irregolarità: l' illegalità, l’esclusione, svii in un modo o in un altro, e non avranno una risposta positiva alla richiesta , commetteranno un reato sul suolo italiano, un crimine.

Professore, lei parla di una nuova formula Italia–Libia, basata sulle nuove relazioni economiche, contratti di 400 milioni di euro in un solo giorno più politica di deportazione?

Si, è un fatto nuovo che probabilmente sta cambiando la relazione Libia–Italia, dato che è il risultato diretto del Trattato di Amicizia firmato a Bengasi, nell’agosto del 2008, tra Berlusconi e Gheddafi, perché gli accordi anteriori tra la Libia e l’Italia, incluso il Protocollo del 2007, l’Accordo del 2007 con il Governo Prodi, con Amato, non si basavano su risorse finanziarie nè nel sollecito di ricatti che Ghedafi esercita sul nostro paese, invece tutti gli strumenti, i modi di ammissione, le volanti, le volanti congiunte, le barche che riportano in Libia erano già condivise con il governo del Centro sinistra, era in piena continuità dal 98 (governo di centro sinistra) al 2001 (governo di Berlusconi) al 2006 ( Governo di centro sinistra) fino al 2008 (governo di Berlusconi) ; una continuità totale delle politiche di detenzione, internamento e esternalizzazione dei controlli nelle frontiere. Adesso, il fatto veramente nuovo, del 2008 sono gli accordi economici, il denaro che richiede Ghedafi, che inoltre coincide con i cambiamenti politici a livello internazionale hanno promosso il paese libico, dato che la Libia è stata accreditata nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come Presidente della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, anche se stanno succedendo le cose che stanno succedendo, la Libia ha risolto e sfinito il conflitto con le infermiere bulgare e Ghedafi ha realizzato un viaggio trionfale a Parigi, ed in termini della gran politica della lotta contro il terrorismo internazionale, la Libia ha dimostrato di essere un partner molto affidabile, anche ricevendo i prigionieri di Guantanamo. Non hanno inviato prigionieri di Guantanamo in Tunisia, Marocco e Egitto, ma li hanno inviati in Libia, ed i libici che erano a Guantanamo, la Libia è anche un partner degli Stati Uniti, con contraddizioni, ovviamente, con ricatti continui, con baratri continui.

Un socio molto affidabile?

Si, possiamo leggere gli articoli su Le Monde, ma nessun giornale italiano ha scritto sul destino e la sorte di queste 800 persone in Libia.

Qual è il destino di queste persone deportata dall’Italia in Libia?

La situazione, spiacevolmente , è quella che conosciamo grazie ai documenti internazionali sul paese libico, alcuni deportati vengono messi in prigioni presentabili alle delegazioni internazionali, ma la maggior parte di loro sparisce. Nessun deportato può presentare una sollecitazione di asilo così il governo può dire, come ha detto il rappresentante dell’ACNUR nel passato, che nessun deportato ha presentato alcuna richiesta di asilo. Ma non ha sollecitato l’asilo non perché non vuole ma perché non ne ha avuto l’opportunità di farlo. In sintesi, il governo italiano può dare come buona la modalità con la quale la Libia tratta in modo disumano gli immigranti che deporta l’Italia, se si visita il portale francese Fortress Europe, lì si incontrerà documentazione sul trattamento che la polizia libica dà agli immigranti da due anni a oggi.

Ha visitato le carceri libiche?

No, io no ma alcuni miei amici, con cui lavoro si, per esempio il giornalista Gabrielle Del Grande è stato in Libia l’anno scorso.

Sono scabrose le testimonianze sulla violenza della quale sono vittime le donne da parte della polizia libica?

Su questa realtà posso dare una testimonianza diretta perché collaboro con i medici che lavorano a Palermo e lì hanno seguito queste donne. Abbiamo casi di persone distrutte completamente per la violenza subita in Libia. Abbiamo anche casi di donne di 19 anni che lì hanno contratto l’Aids. Abbiamo anche constatato che molte donne sono fuggite perché non volevano parlare con l’assistenza sanitaria e la protezione che può dargli un servizio sociale, perché sono donne caricate di violenza e quindi hanno molta difficoltà a parlare con il personale maschile. In breve, presentano un' enorme difficoltà a relazionarsi con la violenza della quale sono state vittime e quindi l’unica alternativa che hanno è quella di vivere una fuga costante, perché è l’unico modo che hanno di scappare dalla violenza che portano dentro.

Lei sostiene qualcosa di molto importante, che si deve attivare un circuito di comunicazione per sapere il destino delle persone che sono state costrette al rimpatrio forzato, come si deve creare questo circuito di comunicazione?

Con la Grecia lo abbiamo fatto attraverso la spedizione di una delegazione di associazioni indipendenti, che hanno avuto dei problemi perché due ragazze italiane sono state detenute dalla polizia greca proprio nel momento in cui a Patras si conversava con un gruppo di immigranti a cui la polizia greca aveva smantellato il campo, è un compito molto difficile e pericoloso.
In Libia , dopo la visita di Gabrielle Del Grande, la polizia aveva detenuto un avvocato che aveva parlato difendendo i diritti umani, che aveva denunciato al giornalista alcuni aspetti della realtà della Libia contro gli immigranti di passaggio.
Riguardo la Grecia, questo canale di comunicazione si è già attivato. Tra Italia e Afghanistan, per esempio, esistono canali di comunicazione dato che i rifugiati che hanno richiesto asilo in Italia conoscono, a volte, anche le famiglie dei ragazzi che vengono detenuti a Patras; è una gran quantità di relazioni personali che in alcun modo hanno permesso la creazione di reti.
Questo obiettivo è molto più difficile da raggiungere in Libia, dato che se il cammino è Kabul- Patras–Italia o Turchia è una strada con scali precisi, è molto più difficile localizzare i punti di partenza, di ritorno, che quello del rimpatrio forzato di un somalo, eritreo sudanese o di un nigeriano che attraversa la Libia ed arriva in Italia, queste persone vengono mandate indietro in Libia e possono sparire nel nulla.
Quindi le organizzazioni non governativi devono poter attivare questi canali di comunicazione, perché sono i canali di comunicazione con gli immigranti in Italia, che dopo permettono di supervisionare la situazione nei paesi d’origine, cioè, se dentro una comunità della Somalia o dell’Eritrea si riesce a sapere che un immigrato illegale è espulso da Lampedusa, che è affogato nel mare in un altro tentativo di ritornare in Italia, come è successo, o se è morto nel deserto, o se è stato arrestato in Somalia e lì ucciso dalle forze armate del Governo di Eritrea o dalle bande che esistono in Somalia, ecc. E’ importante ricostruire un dossier su un iter, perché non esiste in nessun luogo. Un dossier con le comunità per dare loro un' identità successiva alle persone che noi allontaniamo, i governi europei con modalità che impediscono, anche l’emergere di una identità individuale a causa delle deportazioni massicce.

Lei denuncia anche che in Italia esistono campi di concentramento, rappresentati dai centri di detenzione dei senza documenti. Sostiene che esiste un razzismo istituzionale.

Penso, principalmente, alla funzione di questi Centri di Identificazione e di Espulsione con le ultime misure del Decreto di Sicurezza che condannano a sei mesi di detenzione amministrativa ed introduce il delitto dell’immigrazione illegale, i CIE si convertono in un luogo di castigo. Solo un 15 o un 20 % che è passato attraverso i CIE saranno riaccompagnati alle frontiere.
Quelli che passano da un CIE hanno commesso un delitto, tra le altre cose, gli ricordo che la penalizzazione in Italia non è nuova, che non arriva solo con la Legge in materia di sicurezza di questi giorni, perché già anteriormente, chi restava in Italia senza aver compiuto i 5 giorni lavorativi per abbandonare il territorio, chi otteneva un decreto di espulsione quando non era possibile accompagnare la persona al paese d’origine o di provenienza, anche prima di questo delitto aveva una pena di fino a 4 anni di prigione ; quindi, questi centri si continuano a riempire di immigrati che sono entrati e che sono rimasti illegalmente sul nostro territorio, persone che sono state mandate via.
Ed il problema principale dei CIE, in realtà , è che sono destinati a persone che hanno commesso un delitto, non sono luoghi dai quali dopo si accompagna alla frontiera, ma sono usati per sanzionare allo straniero per il crimine o il delitto di essere entrati in Italia senza un permesso o un visto.
Quando parlo di “campi di concentramento”, mi riferisco ai casi di persone che sono morti per mancanza di attenzione medica, che sono stati picchiati. Sono casi individuali, continui, periodici, di persone che muoiono o che vengono picchiate ; in alcuni di questi casi ci sono stati dei processi con condanne, cito il caso del CTP di Regina Pacis di Lecce e di Padre Cesare Lo Deserto, il responsabile. Agenti ed operatori di questa struttura che sono stati condannati, però dato che la maggior parte degli immigrati sono vulnerabili e facilmente ricattabili, la polizia gli obbliga con la forza, li induce a ritirare le denunce che gli immigrati illegali fanno contro la polizia di cui sono stati vittime. Ad esempio, a Trapani ho visto persone vittime di colpi che hanno rifiutato di denunciare alla polizia perché questa li minacciava con il fatto che è meglio per gli stranieri di non insistere con le denunce.

Dove sono rimasti i valori per i naufraghi del Mediterraneo? L’Italia ha perso la cultura di dare asilo?

L’Italia è un paese europeo che è arrivato tardi ad occuparsi della questione dell’asilo, mentre negli anni 90 la Germania in un solo anno ricevette 390.000 richieste di asilo dalla ex- Jugoslavia, l’Italia nello stesso periodo poteva riceverne 15 o 20.000; di fronte ad un numero basso di richieste di asilo, l’Italia ha avuto una politica di tolleranza ma anche una politica di non riconoscere i diritti, perché non abbiamo avuto una legge che permettesse applicare l’articolo 10 della nostra Costituzione, fino a, si può dire, due anni fa.
Abbiamo avuto una giurisprudenza che ha cercato di riconoscere l’efficacia diretta dell’ Art. 10 della Costituzione italiana, però perchè i richiedenti di asilo arrivassero di fronte ad un giudice, dovevano essere molto fortunati nel trovare un avvocato ed un’associazione che li sostenesse.
Dispiace ma l’Italia ha aumentato la velocità nel rifiutare gli immigrati clandestini, la natura sommaria come vengono deportati, la pratica di esternalizzazioni delle frontiere ed in questo modo sono venuti a mancare con la cultura dell’asilo. E' stato usato come propaganda il diritto di asilo e si sono anche create delle false emergenze, perché non esiste una emergenza di sbarchi in Sicilia, neanche l’anno scorso c’è stato un aumento perché sono arrivate 30 mila persone in una regione di 3 milioni di abitanti ed in un paese di 60 milioni di persone, quindi neanche l’anno scorso c’è stata una situazione di emergenza. Ma i nostri governi sempre hanno governato con strumenti di emergenza le questioni di ordine pubblico.

Quanti sono i morti nel Mediterraneo ? La morte dei clandestini ?

Secondo le statistiche del Fortress Europe, aggiornate al 2 luglio 2009, abbiamo migliaia di migliaia di migliaia di morti nel Mediterraneo. Adesso il governo dice che applicando la mano dura sull’arrivo degli immigrati illegali si ridurrà anche il numero delle vittime, questo è uno degli argomenti più sporchi, più ipocriti che ho ascoltato, perché nessuno dirà quanti immigrati sono morti nel deserto libico, come risultato delle pratiche di deportazione forzate, perché in realtà, la Libia che riceve denaro dall' UE per combattere l’arrivo degli immigrati clandestini, gli immigranti illegali li carica su un camion, li porta via e li abbandona in un paesino vicino alla frontiera con la Nigeria e lì vengono invitati ad uscire a piedi dal paese.
In realtà questo sistema alimenta in tempo reale i trafficanti di essere umani, perché con gli immigrati che espelle l’Italia la polizia libica fa i suoi affari. Lì, queste persone abbandonate nei deserti vengono vendute ai trafficanti, alcuni sopravissuti hanno realizzato questo percorso 4 o 5 volte. I pagamenti alla polizia libica si fanno attraverso intermediari o dei familiari che si trovano in Europa o nei paesi d’origine, usando la Western Union o altre aziende di questo tipo che spediscono denaro per pagare agli agenti di polizia corrotti libici, e in questo modo le persone possono continuare il loro viaggio.
Sfortunatamente, gli investigatori italiani sempre hanno detenuto persone che non avevano denaro per pagare al polizia libica corrotta, e che, solo per il fatto di essere capaci di guidare il timone di una barca, erano obbligati a partire con un carico di persone dalla Libia a Lampedusa; in Italia questa persona viene chiamata “scafista” quando, in realtà, spesso gli “scafisti” sono anche immigrati che non hanno soldi per arrivare al poliziotto libico e vengono usati in questo modo, ma noi queste persone le consideriamo colpevoli, passano molti anni in prigione e così l’Italia crede di aver trovato la soluzione al problema, mettendo in prigione lo “scafista”.

Fonte: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=88544&titular=recrudecimiento-de-la-barbarie-en-el-control-de-las-fronteras-europeas:-el-caso-italiano-

Tradotto per Voci Dalla Strada da VANESA

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17 luglio 2009

LA CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA METTE UN FRENO AL TRATTATO DI LISBONA


Il 30 giugno, la Corte Costituzionale tedesca ha emesso la sua sentenza su quattro ricorsi contro il Trattato di Lisbona, definendo "anti-costituzionale" la legge di ratifica e dando così uno schiaffo al Bundestag, il Parlamento tedesco, che l'aveva approvata con una maggioranza del 90% il 24 aprile 2008. È da ritenere positivo il fatto che la sentenza della Corte dichiari che il Parlamento tedesco ha rinunciato alla sovranità, invece di promuovere una legge che proteggesse e rafforzasse i poteri del Parlamento nazionale ed, implicitamente, del governo. Verrà dunque presentato una nuova legge che garantisca i diritti del Bundestag nelle decisioni prese dall'Unione Europea, affermando in particolare che i parlamentari nazionali dovranno votare su ogni cambiamento del trattato o ogni estensione delle competenze dell’Unione Europea. Tale legge verrà inclusa in un documento che accompagnerà il "sì" tedesco al Trattato. Fino a quel momento il Presidente tedesco è tenuto a non sottoscrivere il Trattato.


In una dichiarazione del 3 luglio, la presidente del Movimento Solidarietà tedesco (BüSo) Helga Zepp-LaRouche ha apprezzato la sentenza dichiarando che i giudici hanno "difeso la Costituzione ed interrotto la dinamica con la quale l'Unione Europea è stata progressivamente trasformata in una burocrazia imperiale votata all’auto-contenimento economico, fin dal Trattato di Maastricht" del 1992. Tuttavia, la sentenza è carente in quanto dichiara il nuovo Trattato generalmente compatibile con la Costituzione tedesca, benché il nuovo trattato trasformi il sistema di Maastricht in un regime oligarchico, come abbiamo più volte denunciato. I giudici hanno inoltre omesso ogni menzione del fatto che le sentenze precedenti a favore del sistema di Maastricht si fondassero su argomentazioni in seguito invalidate dagli effetti del crollo economico, come ha sottolineato Helga Zepp-LaRouche.


Un segnale della degenerazione della cultura politica in Germania, aggiunge la signora LaRouche, è il fatto che tra la firma del Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007 da parte dei capi di stato e di governo dell’UE, ed il voto del Bundestag dopo un dibattito in aula durato solo due ore, non sia stata messa a disposizione del Parlamento o della popolazione alcuna informazione sul Trattato, e che il Bundestag lo abbia approvato senza conoscerne i contenuti. Se Helga Zepp-LaRouche non avesse lanciato un appello per mobilitare il pubblico contro il Trattato di Lisbona il 13 febbraio 2008, e se non fossero stati presentati quattro ricorsi alla Corte Costituzionale nelle settimane successive, il Trattato sarebbe stato ratificato dalla Germania alla fine del maggio scorso e la Corte Costituzionale non sarebbe neanche stata scomodata.


L'inazione e la mancanza di princìpi del Parlamento tedesco, aggiunge Helga Zepp-LaRouche, dimostrano ancora una volta come la burocrazia dell’Unione Europea, controllata da interessi monetaristi ed ultra-liberisti che fanno capo all'oligarchia finanziaria londinese, sia già riuscita a "sdemocratizzare" gli stati membri dell'Unione. Resta da vedere se la Corte Costituzionale tedesca riuscirà a fungere anche in futuro da guardiano della democrazia e della Costituzione. Quanto al Bundestag, la signora LaRouche ha chiesto agli elettori tedeschi di punire col loro voto, alle elezioni politiche del 27 settembre, tutti i parlamentari che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona svendendo così la sovranità nazionale tedesca.


Fonte: http://www.movisol.org/


Nell'articolo "Ora più di prima, il Trattato di Lisbona è anticostituzionale" il testo del dispositivo e alcune delle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 30 giugno 2009, che ha bocciato la legge di attuazione del Trattato di Lisbona. Le riserve che la nuova legge di attuazione dovrà incorporare sono tali che la Germania si è ritagliata uno stato di eccezione all'interno del Trattato stesso. Questo significa che tutti i paesi firmatari non hanno firmato lo stesso trattato che, a questo punto, è anticostituzionale.

COSA C'E' DIETRO LA VISITA DI OBAMA IN GHANA?

Dopo aver teso la mano ai musulmani (sempre tentando di destabilizzare l’Iran), dopo avec teso la mano ai Russi, (sempre continuando a preparare, in Europa dell’Est, l’impianto dei missili puntati sopra di loro), il presidente Obama tende la mano agli Africani. Ovunque, egli propone di rifondare le relazioni con gli Stati-Uniti senza saldare i crimini del passato. Manlio Dinucci rivela cio’ che si cela dietro quell' impovvisa sollecitudine.
di Manlio Dinucci


Terminato il G8 sul tema «Africa e sicurezza alimentare», il presidente Barack Obama è partito per Accra, capitale del Ghana, dove l'11 luglio, pronuncia un discorso basato sul concetto che gli africani sono responsabili per l’Africa e vanno aiutati a sviluppare le proprie capacità economiche assicurando la democrazia [1]. Non è arrivato a mani vuote: dicono alla Casa Bianca, che sia stato lui a persuadere il G8 a stanziare 20 miliardi di dollari, distribuiti nell'arco di tre anni, per la «sicurezza alimentare» nel mondo.

I «Grandi della Terra» e gli aspiranti tali si presentano così come benefattori, destinando alla lotta contro la fame in un anno quanto spendono in armi ed eserciti in due giorni. I paesi del G8 allargato totalizzano infatti oltre l’80 per cento della spesa militare mondiale, che ha superato i 1500 miliardi di dollari annui, di cui quasi la metà è costituita dalla spesa Usa.

Non sorprende quindi se, in Africa, gli Stati uniti hanno basato la loro politica sullo strumento militare. L’amministrazione Bush ha creato un comando specifico per il continente, il Comando Africa (AfriCom) [2], che ha in Italia due sottocomandi: lo U.S. Army Africa, il cui quartier generale è alla Caserma Ederle di Vicenza, e il comando delle forze navali AfriCom, situato a Napoli. Il quartier generale di Vicenza opera nel continente africano con «piccoli gruppi», ma è pronto a operazioni di «risposta alle crisi» con la 173a brigata aviotrasportata. Il comando di Napoli si occupa delle operazioni navali: tra queste l’«Africa Partnership Station», consistente nella dislocazione di navi da guerra lungo le coste dell’Africa occidentale, con a bordo personale anche di altri paesi, compresi ufficiali italiani. Attraverso programmi di addestramento ed esercitazioni, l’AfriCom fa leva sulle élite militari per portare il maggior numero di paesi africani nella sfera d’influenza statunitense.

In tale contesto, il ruolo del Ghana è importante. I suoi agenti si sono addestrati presso il Centro di studi strategici per l’Africa, istituito dal Pentagono, e in vari programmi dello U.S. Army, in particolare l’Acota, attraverso cui sono stati addestrati 50mila soldati e istruttori africani. L’esercito e la marina Usa hanno avuto anche accesso alle basi militari e ai porti del paese. Il Ghana contribuisce così alla «sicurezza» del Golfo di Guinea, da cui proviene una parte crescente del petrolio importato dagli Usa (il 15%, che dovrebbe salire al 25% nel 2015). Allo stesso tempo, le forze armate del Ghana vengono usate per operazioni di «peacekeeping» non solo nel Darfur [3], in Congo e altri paesi africani, ma anche in Libano, Kosovo e perfino in Georgia. Di pari passo è cresciuta la presenza economica Usa in Ghana, dove però è forte la concorrenza cinese. Come documenta il Dipartimento di stato, la scoperta di grosse riserve petrolifere nei fondali ha attratto in Ghana molte compagnie Usa, mentre altre operano nel settori minerario e agricolo. Il paese è ricco di oro, diamanti, bauxite, manganese, di cui è uno dei maggiori esportatori. E’ anche un grande esportatore di cacao, prodotto da un milione e mezzo di piccole e medie aziende agricole. L’agricoltura non assicura però l’autosufficienza alimentare. E poiché lo sfruttamento delle ricche risorse del paese è controllato dalle multinazionali, la bilancia commerciale del Ghana è in forte perdita. Obama, nel suo discorso, non ha detto come potrebbe essere riequilibrata.

[1] "Intervista con il Presidente Obama AllAfrica.com", Voltaire Network, 02.07.2009.

[2] «Africom : Control militar de EEUU sobre la riqueza de África», di Bryant Hunt, Red Voltaire, il 1 ° aprile 2008. «Triste activation pour l'AfriCom», di Stefano Liberti, Réseau Voltaire, il 06.10.2008.

[3] «Africom's Covert War in Sudan», di Keith Harmon Snow, Rete Voltaire, 11.03.2009.

Fonte: http://www.voltairenet.org/article160997.html

Tradotto per Voci Dalla Strada da Federico C.

16 luglio 2009

USA: TASSO DI DISOCCUPAZIONE AL 9,5%


Persi altri 467.000 posti di lavoro.
Di Andre Damon

L'economia degli Stati Uniti ha perso molti più posti di lavoro in giugno di quello che gli economisti avevano predetto, e il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 9.5%, livello più alto dal 1983, secondo i dati pubblicati dal Ministero del Lavoro giovedì. Il rapporto di giugno sui disoccupati ha minato gli sforzi della gestione Obama e dei media di minimizzare la profondità della crisi economica e per generare le illusioni di un veloce recupero.

I lavoratori del settore non agricolo sono scesi di 467.000 unità, confrontato ai 350.000 ampiamente previsti dagli esperti in previsioni economiche. Giugno si è concluso con un calo di posti di lavoro ancora massiccia che prosegyiva da 4 mesi.

I libri paga netti sono virtualmente diminuiti attraverso l'intera economia, con un incremento soltanto nei servizi educativi e sanitari. L’industria ha perso 136.000 posti, i servizi commerciali ne hanno persi 118.000 e l’edilizia ne ha persi 79.000.

L'occupazione nel settore pubblico è scesa di 52.000, dopo la caduta dei 10.000 di maggio. L'aumento importante nella riduzione dei posti di lavoro del settore pubblico è stato dovuto in parte all'effetto dei disavanzi del bilancio, scesi a spirale, che lo stato e gli enti locali stanno affrontano.

Il rapporto dei posti di lavoro riflette un funzionamento dell’economia a livelli vicini alla depressione, generanti una miseria sociale crescente per la classe lavoratrice proprio mentre la banca segnala un impulso nei profitti e si prepara a distribuire profitti record a dirigenti e operatori. Secondo il governo, ci sono ora 14,7 milioni di persone disoccupate negli Stati Uniti. Approssimativamente uguale alla popolazione delle tre più grandi città della nazione: New York, Los Angeles e Chicago.

La truppa dei disoccupati a lungo termine è aumentata in giugno di 433.000 unità, portando il totale a 4,4 milioni – il più alto nella storia. Ciò significa che 3 su 10 persone disoccupate sono state senza lavoro per 27 settimane o più.

Il tasso di disoccupazione ufficiale del 9,5% non considera i cosiddetti operai “scoraggiati”, che hanno rinunciato a cercare un lavoro, e quelli costretti a lavorare part-time perché non possono ottenere l'occupazione a tempo pieno. Secondo il rapporto del Ministero del Lavoro, includendo anche questi, il tasso di disoccupazione sale al 16.5%.

Il Wall Street Journal ha riferito giovedì che questa misura è “al di sopra della più vasta misura che raggiunse il 15% verso la fine del 1982, quando il tasso di disoccupazione ufficiale era del 10.8%” Il Journal ha aggiunto che “… rispetto alla Grande Depressione (quando il 25% degli Americani erano senza lavoro) non può apparire così selvaggio, anche se l'attività economica generale è sostenuta meglio”.

Gli Stati Uniti hanno perso 6,5 milioni di lavoratori da quando la recessione è iniziata ufficialmente nel dicembre del 2007. Tutto lo sviluppo nei lavori durante gli ultimi nove anni ora è stato eliminato e ci sono oggi meno lavori negli Stati Uniti che nel maggio del 2000, secondo un rapporto dall'istituto di politica economica.

La portata globale della crisi è stata sottolineata dai nuovi dati dall’Europa, che indicano che la disoccupazione nell' Eurozona dei 16 paesi ha colpito il 9.5% in maggio, il più alto tasso in 10 anni.

La relazione del giovedì ha seguito similmente le spaventose forme di disoccupazione per le maggiori città degli Stati Uniti rilasciate mercoledì dal Ministero del Lavoro. I tassi di disoccupazione si sono alzati in tutte le 372 aree metropolitane esaminate nel corso dell'anno scorso. Di queste, 15 regioni hanno avuto tassi di disoccupazione del 15% o più.

Non meno significativi delle forme di disoccupazione sono le cifre sugli stipendi e sulle ore lavorate. Il rapporto di giugno ha rispecchiato un' iniziativa sistematica della grande azienda per sfruttare la crisi del lavoro e spingere giù gli stipendi riducendo i costi della manodopera riducendo drasticamente la settimana di lavoro. In media gli operai non hanno veduto aumenti di stipendio in giugno, mentre attualmente i guadagni settimanali medi sono caduti dai loro livelli di maggio.

Il ritmo di crescita dello stipendio è significativamente rallentato. Nel 2008, i guadagni medi orari (come segnalato dal Ministero del Lavoro) sono cresciuti in media dello 0.057% ogni mese. Per i primi sei mesi di quest' anno, tuttavia, gli stipendi sono cresciuti di meno di un quinto di quel tasso. (Vedi la tabella allegata). È significativo che nel mezzo di quello che è stato accreditato come l'inizio di un recupero, gli stipendi, una volta corretti per l’inflazione, stanno cadendo ancora più velocemente che durante il massimo del crollo.

Il rapporto del Ministero del Lavoro ha indicato che le industrie compresi i grossisti, rivenditori, programmi di utilità, svago e ospitalità hanno tagliato la media del costo orario il mese scorso. “I rapporti sparsi di completa deflazione salariale stanno diventando più diffusi” ha detto Ian Morris, economista principale degli Stati Uniti alla HSBC Securities USA, in una nota ai clienti. “Gli operai sembrano disposti ad avere i tagli di stipendio, che rende questa recessione molto insolita” ha aggiunto.

Fra le aziende importanti che riducono drasticamente i lavori e gli stipendi, Gannett Co., il più grande proprietario di giornali, ha detto che taglierà circa 1.400 posti nelle pubblicazioni e ridurrà questo mese gli stipendi per gli impiegati della radiodiffusione fino al 6%. Exelon (ndt ente distribuzione energia elettrica) ha detto che progetta di ridurre di circa 500 lavoratori.

La media della settimana lavorativa è scesa a 33 ore, la più bassa mai registrata da quando sono iniziati i rilevamenti nel 1964.

Altri indicatori congiunturali inoltre continuano a peggiorare. Le vendite di nuovi veicoli in giugno sono cadute del 28% rispetto all’anno precedente, secondo Autodata Corp. di anno in anno, le vendite della Chrysler rallentavano del 42%, di GM del 33% e di Toyota del 32%.

I prezzi delle case sono caduti dello 0.6% in aprile, secondo l'indice di S&P/Case-Shiller di 20 città importanti. I prezzi della casa sono scesi del 18.1% di anno in anno, secondo lo stesso indice. I ritardi nei pagamenti stanno inoltre aumentando, con il numero dei ritardi nelle ipoteche principali, il mese scorso del 2.9%, dall’1.1% un anno fa, secondo la ricerca citata da Bloomberg.com.

Tutto questo ha trovato la sua riflessione nell’ultima forma di fiducia del consumatore. Il Confidence Board ha segnalato questa settimana che il relativo indice di fiducia del consumatore è caduto al 49.3% questo mese, giù dal 54.8% di maggio. Soltanto il 17.4% delle persone esaminate hanno detto che pensano che più lavoro sarà presto disponibile, giù del 19.3% dal mese precedente.

Più analisti ora stanno riconoscendo che nessun “recupero” sarà marginale e richiederà anni di alta disoccupazione. William Gross, il capo della società di bond Pimco, ha detto giovedì che “stiamo guardando la stagflazione o un certo tipo di ristagno in termini di 1 – 2% di sviluppo per un certo numero di anni”.

Il parigrado di Gross alla Pimco, Mohamed EL-Eran, ha scritto in una colonna del Financial Times di giovedì, “nonostante il relativo impulso recente, il tasso di disoccupazione è in probabile aumento anche oltre il 10% per la fine di questo anno e potenzialmente oltre. Effettivamente, la percentuale non si può alzare del 10.5-11% fino al 2010; e probabilmente rimarrà là per un po’ di tempo…”.

Il presidente Obama ha risposto alle ultime cifre con un discorso superficiale giovedì sul prato inglese della Casa Bianca, fiancheggiato dai CEO dell’energia verde. Obama ha sollecitato il suo pacchetto di stimolo ed ha fatto chiaro che non ha programmi per fornire sollievo ai milioni che sono stati devastati dalla crisi. Ha indicato i dirigenti d’azienda milionari allineati dietro di lui come quelli “che contribuiranno a condurci fuori da questa recessione e in un futuro migliore”.

La politica economica della gestione Obama è stata riassunta in una colonna insolitamente franca pubblicata il mese scorso dal cronista Ed Wallace del BusinessWeek. Ha scritto: “La cosa più insidiosa di questa corrente di rallentamento è che molte organizzazioni non stanno solo ridimensionando i loro dipendenti, ma stanno tagliando gli stipendi per quegli individui abbastanza fortunati da mantenere il posto di lavoro… Più probabilmente, la paga degli operai rioccupati in avvenire sarà in conformità con gli stipendi recentemente ridotti dei loro colleghi… Washington ha avuto una 2 scelte: o permette che tutti i prestiti che non sono vitali sotto le attuali condizioni economiche possano essere riscritti a livelli più trattabili, o permette agli operai e gli stipendi di essere tagliati per liberare abbastanza contanti per fare effettuare quei prestiti. Ormai dovrebbe essere evidente ai più quale strategia Washington ha scelto”.

Le ultime cifre dei disoccupati esprimono l'intenzione dell’amministrazione ad un imminente recupero come una manovra artificialmente puntata ad alimentare una corsa al rialzo sul mercato azionario. Lo scopo principale di questa campagna era di permettere all’elite finanziaria di recuperare alcune delle relative perdite, generare le condizioni affinchè le banche tornino al profitto e creare un ambiente in cui il governo potrebbe evitare di imporre tutte le limitazioni alle attività speculative di Wall Street.

Fonte: http://www.wsws.org/articles/2009/jul2009/econ-j03.shtml

Tradotto per Voci Dalla Strada da andreaatparma

14 luglio 2009

IL NEMICO DELLA STAMPA


Il premier vuole imbavagliare l'informazione. E nella nostra società malata la maggioranza degli italiani sembra pronta ad accettare anche questo strappo. Ma il famoso intellettuale dice: 'Io non ci sto'.


di Umberto Eco

Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).

E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto

Fonte: http://espresso.repubblica.it/

GIU' LE MANI DAL MICROSCOPIO DI MONTANARI


To: Sostenitori della ricerca sulle nanoparticelle

Premessa. Il 13 marzo 2006 parte una sottoscrizione (*) per raccogliere fondi da impiegare per l'acquisto di un microscopio elettronico da destinare “alla ricerca dei dott. Stefano Montanari e Antonietta Gatta sulle nanoparticelle”. L'appello vine pubblicato anche sul Bolg di Beppe Grillo (*) Si decide di fare raccogliere i fondi ed effettuare l'acquisto alla Associazione Carlo Bortolani ONLUS.
Attenzione!!! la ONLUS fa l'acquisto, i donatori offrono fondi per "la ricerca di Stefano Montanari e Antonietta Gatti" come è ben chiarito nell'appello (*): http://www.beppegrillo.it/2006/03/la_ricerca_imba/index.html

Ora si viene a sapere che la ONLUS citata, senza avvertire nessuno, in totale solitudine, dona il microscopio all'Università di Urbino stravolgendo in toto le motivazioni che hanno spinto i donatori a finanziare l'iniziativa.

Se siete contrari alla donazione del microscopio all'Università di Urbino, se pensate che il microscopio debba stare dove si trova ora, cioè nel laboratorio di Nanodiagnostics per permettere a Stefano Montanari e Antonietta Gatti di continuare le ricerche sulle nanoparticelle, allora firmate questo appello: GIU' LE MANI DAL MICROSCOPIO


Articoli correlati: STEFANO MONTANARI SENZA MICROSCOPIO?

OGGI SCIOPERO DEI BLOGGERS CONTRO IL DDL ALFANO

Sciopero contro DDL Alfano

Clicca sul logo della campagna per aderire anche tu,
o per avere maggiori informazioni.

Per la prima volta nella storia della Rete i blog entrano in sciopero. Accade oggi, con una giornata di rumoroso silenzio dei blog italiani contro il disegno di legge Alfano, i cui effetti sarebbero quelli di imbavagliare l'informazione in Rete. Il cosiddetto obbligo di rettifica, pensato sessant'anni fa per la stampa, se imposto a tutti i blog (anche amatoriali) e con le pesanti sanzioni pecuniarie previste, metterebbe di fatto un silenziatore alle conversazioni on line e alla libera espressione in Internet.






13 luglio 2009

G8 DOMINATO DALL' AGGRAVARSI DELLA CRISI FINANZIARIA

Di Stefan Steinberg
C’è un tragico simbolismo nella convocazione del vertice dei leader delle nazioni industrializzate di quest 'anno (G8) nella città italiana di L'Aquila. All'inizio di quest'anno la piccola città italiana è stata scossa da un terremoto che ha lasciato il suo centro medievale in rovina e ha causato la morte di oltre 300 persone.
La decisione del Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi di spostare il vertice dalla sua sede prevista, una nave di lusso al largo delle coste della Sardegna, alla caserma della Guardia di Finanza nella periferia della città in rovina di L'Aquila, è stata una cinica manovra volta a deviare l’attenzione dei media dall’intensificarsi della crisi sociale del paese. Tuttavia, per molti aspetti il nuovo contesto è del tutto appropriato.

Più di un quarto di secolo dopo la sua fondazione, anche il club delle nazioni del G8 si trova in rovina. In seguito alla crisi finanziaria internazionale, le nazioni del G8 si sono dimostrate completamente incapaci di elaborare una qualsiasi risposta comune per contenere la più grande crisi che ha afflitto il sistema capitalista dagli anni ‘30. Al contrario, gli antagonismi nazionali e regionali tra i principali membri del G8 si stanno rapidamente inasprendo.

Originariamente fondato nel 1975, sulla base di una iniziativa dei leader della Germania e della Francia di creare un coerente quadro finanziario a seguito della devastante crisi petrolifera del 1973, il gruppo è composto da: Canada, Francia, Germania, Stati Uniti, Italia, Giappone, Russia e Regno Unito. Un altro posto alla conferenza annuale del G8 è destinato all'Unione europea che non può ospitare o tenere un vertice.

Per decenni, la premessa per la riuscita collaborazione del G8 è stato il dominio economico, militare e politico degli Stati Uniti. Ora, l’aggravarsi della crisi finanziaria ha rivelato l'entità della crisi economica e sociale degli Stati Uniti e gettato le relazioni politiche internazionali nel caos. L’intero quadro dei rapporti politici del dopoguerra si sta disgregando, e i capi di governo dei paesi membri del G8 ora ammettono apertamente che il gruppo non rappresenta più lo stato attuale delle relazioni internazionali, e che è ormai un anacronismo.

Il G8 attualmente esclude un certo numero di stati la cui economia è in rapida crescita, in particolare la Cina, ora la quarta maggiore potenza economica mondiale, l'India e il Brasile, che hanno un PIL di dimensioni equivalenti alla Russia, membro del G8.

Il governo italiano ha cercato di aggiustare lo squilibrio della composizione del G8 invitando non meno di 40 nazioni e organizzazioni internazionali per la riunione, e per la prima volta il G8 ha in programma di rilasciare una dichiarazione congiunta con il gruppo di nazioni emergenti, G5 - Cina, India, Messico, Brasile e Sud Africa più Egitto.

Il frenetico ordine del giorno stilato dal governo italiano - una serie di incontri in tre giorni tra 40 diverse nazioni- non può nascondere il fatto che il G8 non è in grado di accordarsi su eventuali decisioni vincolanti o di vere e proprie misure per affrontare le implicazioni sociali e politiche della crisi finanziaria.

Commentatori politici più esperti stanno già liquidando eventuali aspettative sul vertice. Secondo Milena Elsinger, un’analista presso il Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik e.V. (DGAP—Consiglio Tedesco sulle Relazioni con l’Estero), il vertice produrrà solo "vaghe dichiarazioni di intenti".

Per quanto riguarda il G8 stesso, solo una settimana prima del vertice il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dichiarato apertamente al parlamento tedesco che il forum non è più in grado di affrontare le sfide future. "Stiamo vedendo che il mondo sta crescendo insieme e che i problemi che abbiamo di fronte non possono essere risolti dai soli paesi industrializzati", ha detto la Merkel. Ha poi retrocesso il G8 a un forum per le discussioni preliminari: “decisioni globali e rilevanti che vengono prese in una più grande configurazione”.

Merkel e altri leader europei intendono creare una nuova struttura economica e politica che aumenti il peso specifico dei principali paesi europei nell’economia mondiale-in particolare, contro il persistere di una posizione dominante dell'America. A questo proposito, il rafforzarsi delle relazioni con le economie emergenti come la Cina, l'India e il Brasile è di importanza cruciale. Prima di partire per il vertice di L'Aquila, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha organizzato una visita di alto livello del Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva.

La posta in gioco è alta. Nonostante gli strenui tentativi da parte di Berlusconi e degli altri capi di Stato del G8 di mostrare il lato migliore della crisi e sottolineare l'importanza di presunti "verdi germogli" di crescita, il vertice è dominato dalla crisi finanziaria che diventa più profonda.

Alla vigilia del vertice, il primo ministro britannico Gordon Brown ha dichiarato che era imminente una seconda ondata della crisi finanziaria, mentre il capo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio Pascal Lamy ha ammonito che "il peggio della crisi in termini sociali deve ancora a venire, il che significa che c’è da aspettarsi il peggio della crisi anche in termini politici. "

Dietro le quinte del G8, è in corso una corsa selvaggia per stabilire nuovi allineamenti politici e nuove alleanze. In particolare, molti stati in tutto il mondo sono intenti ad intensificare le relazioni politiche e commerciali con l’economia emergente in più rapida crescita - la Cina, la cui partecipazione è stata considerata di vitale importanza per il successo del G8.

Il monito di Lamy è stato prontamente confermato il primo giorno del vertice del G8, quando il presidente della Cina, Hu Jintao, è stato costretto a tornare in patria, a causa degli sconvolgimenti sociali e dei conflitti etnici nella provincia dello Xinjiang.

Prevalgono gli antagonismi nazionali e regionali

Mentre le principali nazioni rappresentate al vertice del G8 sono intente a stabilire nuove alleanze politiche, la loro pratica nell'attuale crisi economica è sempre più caratterizzata da interessi ed egoismi nazionali. Questo è stato chiaro fin dal primo giorno di discussione in occasione del vertice (mercoledì), che è stato in gran parte dedicato alle questioni ambientali e al cambiamento climatico.

Già prima del vertice, alti diplomatici dal piu’ ampio Forum delle Maggiori Economie a 16 nazioni hanno abbandonato un punto di riferimento nel comunicato di bozza di vertice a raggiungere l'obiettivo di dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050. La Cina e l'India hanno espresso obiezioni al traguardo, citando la mancanza di progressi compiuti dal più grande inquinante del mondo di CO2: gli Stati Uniti.

Il recente progetto di legge sul cambiamento climatico e sul risparmio energetico approvato dal Senato e la Camera dei Rappresentanti non prevede eventuali riduzioni delle emissioni di CO2 fino all'anno 2050. Il disegno di legge comprende anche disposizioni protezionistiche favorendo il commercio e l'industria americani.

Sulla base della proposta di legge degli Stati Uniti sull’ambiente, l'amministrazione Obama è considerata come un’anatra zoppa sulle questioni climatiche. Il comunicato rilasciato mercoledì non ha fatto proposte concrete e ha semplicemente confermato la totale incapacità del G8 di ottenere qualsiasi tipo di accordo valido sul calo delle emissioni dei gas serra.

Anche all'ordine del giorno di mercoledì, e senza dubbio a dominare le discussioni per il resto della settimana, è stato il come rispondere alla crisi finanziaria mondiale. Negli ultimi mesi, le reazioni a questa crisi da parte delle principali potenze del G8 sono state completamente divergenti e le differenze continuano a crescere. Un asse europeo incentrato sui governi francese e tedesco ha richiesto l'adozione di una "strategia di uscita" dalla crisi ed una azione efficace al fine di regolamentare le pratiche speculative delle grandi banche.

Contrari a un tale atteggiamento sono i settori finanziari e i governi di Stati Uniti e Regno Unito, che sono invece favorevoli ad ulteriori misure di salvataggio per le banche e sono contrari a qualsiasi controllo efficace sulle strategie di investimento bancario.

La differenza tra le due parti e’ scoppiata in occasione della riunione dei ministri delle finanze del G8 a giugno come parte della preparazione per il vertice corrente. Al vertice del G8 dei ministri delle finanze, il Ministro delle Finanze tedesco Peer Steinbrück ha richiesto una rapida fine alla spirale del debito e ha sottolineato il pericolo di inflazione. Egli ha dichiarato che ulteriori programmi di stimolo non sono "né necessari né opportuni". Egli è stato sostenuto dai delegati di Francia e Italia.

Steinbrück è stato contrastato nel corso di tale riunione dal Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner. Quest’ultimo è stato sostenuto dal direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn, che ha dichiarato che i governi devono essere disposti ad aumentare i loro programmi di salvataggio per le banche e l'industria. La posizione degli Stati Uniti e Strauss-Kahn, è stata anche sostenuta anche dal primo ministro britannico Gordon Brown.

Dal meeting di giugno, le differenze tra le due parti si sono intensificate. Solo pochi giorni prima del vertice de L'Aquila, Steinbrück ha accusato il Primo Ministro Brown di prendere la posizione della lobby finanziaria di Londra a discapito delle pianificate autorita’ regolatrici dell’UE. Le ultime dichiarazioni di Brown, che avvertono su una seconda ondata della crisi, devono essere viste come la risposta del suo governo a quello tedesco. Queste dichiarazioni sono inoltre un cenno di approvazione alle banche britanniche che Londra è pronta a liberare ulteriore denaro per il salvataggio del malato sistema finanziario del paese.

Ulteriori e più dettagliate discussioni su come rispondere alla crisi economica si terranno giovedi e venerdì, ma se ci si basa sul passato, tutti gli indicatori segnalano un intensificarsi delle tensioni tra i rivali dell’asse anglo-americano e le nazioni leader europee. L’antagonismo tra queste due fazioni, assieme ai segnali di un protezionismo rampante da parte degli Stati Uniti, la Cina, e altre grandi nazioni, presagiscono la fine del ciclo di Doha dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio. I capi del G8 avevano promesso di finalizzare queste trattative finalizzate a ridurre le barriere commerciali in tutto il mondo al vertice di quest’anno.

A solo un giorno dalla sua riunione e con tali questioni controverse come la guerra in Afghanistan condotta dagli Stati Uniti e le relazioni con l'Iran anche all'ordine del giorno, questa edizione del G8 già rispecchia l'enorme portata della discordia politica e la rivalità tra le grandi potenze.

Fonte: http://www.wsws.org/articles/2009/jul2009/g8-j09.shtml
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