Doveva
essere “l’ultimo
atto di redenzione” della guerra contro il terrore degli USA, la
promessa elettorale di un Barak Obama che nel 2012 accusava Mitt Romney
di non avere un calendario per portare a casa le truppe
dall’Afganistan. Ora il presidente statunitense vuole mantenere in
quel paese circa 16.000 soldati in forma ufficiale, e non si sa quante
altre migliaia sotto quali nomi e quali incarichi, e
prolungare ancor più quella che è stata la guerra più lunga del
paese. Alla fine, Obama soffre di quello che i greci chiamavano akrasia, debolezza
della volontà.
Il
nuovo presidente del
paese invaso e occupato dovrà legalizzare lo status di colonia che
Washington gli ha preparato. Né il presunto assassinio di Bin Laden in
Pakistan, né la rivelazione (del segreto di cui tutti
parlavano) del presidente Hamid Karzai, quest’uomo della CIA, del
fatto che “Al Qaeda è un mito”, hanno fatto sì che gli USA smettessero
di sottostimare l’intelligenza di chi li
ascolta.
“Non
possiamo lasciare adesso l’Afganistan. Ha bilioni di dollari in
minerali” disse il generale David Petraeus, smontando i motivi umanitari
(salvare
gli afgani dagli integralisti talebani) o di sicurezza (salvare
l’umanità dai terroristi di Al Qaeda) dell’invasione. Alla tentazione
delle risorse naturali dell’Asia Centrale si
aggiungono la posizione strategica del paese, che per secoli ha fatto
da cerniera tra Cina, Russia, Iran e India.