Era il 18 febbraio 2014, ed era già buio quando ho attraversato il Ponte della Baia di San Francisco e parcheggiato la mia auto nel centro di Oakland.Le strade erano deserte, con l'eccezione di alcuni senzatetto accasciati a mucchio contro un negozio chiuso.Due auto della polizia corsero passando col rosso, a sirene spiegate. Mi diressi a piedi verso il municipio di Oakland.Anche da lontano, ho potuto vedere che qualcosa di insolito stava succedendo lì.Una fila di macchine della polizia di stanza circondava l'isolato, e i presentatori e le squadre di telecamere della televisione si spingevano per il posto migliore.Un numeroso gruppo di persone si affollavo vicino all'ingresso, alcuni sventolando quello che sembrava un enorme topo di cartapesta, presumibilmente inteso come simbolo di spionaggio. Ma la vera azione era dentro.Diverse centinaia di persone riempirono la sala decorata e sormontata da una cupola del Consiglio comunale di Oakland.Molti di loro portavano cartelli.Era una folla arrabbiata, e la polizia era allineata ai lati della stanza, pronta ad evacuare tutti se le cose sfuggivano di mano.
Introdotto da Apple nel suo iPhone X, il riconoscimento facciale sta per invadere la nostra vita quotidiana. Che si tratti di identificare le persone sui social network o di pagare con un sorriso piuttosto che con una carta di credito, l'aumento di questa tecnologia sembra avvincente, a causa del suo ovvio potenziale commerciale. Ma dobbiamo davvero rassegnarci a vivere in un mondo di sorveglianza totale e di pubblicità sempre più mirata? In questo forum, il giornalista Fabien Benoit, collaboratore regolare di Usbek & Rica, invoca la "santuarizzazione del diritto all'anonimato" e chiede l'apertura di "Stati generali di biometria e privacy", sul modello del grande dibattito nazionale sulla bioetica che si è appena aperto.
Dovunque si guardi l’alta tecnologia è nell’oblò di qualcuno. Si prenda la Apple. All’interno grandi investitori sono preoccupati degli effetti dei suoi prodotti sui bambini. All’esterno attivisti liberali mugugnano per i miliardi all’estero che può ora rimpatriare grazie alla riforma fiscale del Partito Repubblicano. Persino conservatore solitamente contrari alla regolamentazione presso la National Review stanno chiedendo perché la Grande Tecnologia non sia disciplinata come la Grande Industria Petrolifera o la Grande Industria del Tabacco. Questi esempi, che tutti recentemente fanno notizia, confermano la tendenza ma si limitano a sfiorare la superficie. Un nuovo sondaggio nazionale ha rilevato che l’opinione pubblica sta passando da un caldo abbraccio a uno scetticismo crescente. Non è soltanto il modo in cui le cosiddette notizie false sui media sociali hanno avuto un ruolo nelle recenti elezioni negli USA e hanno condotto a inchieste del Congresso. E non sono solo appelli a iniziative federali antimonopolio mirate ai più popolari curatori di informazioni, Facebook e Google.
Nel corso del week-end Sputnik ha pubblicato un articolo sull’accordo dal valore di 800.000 dollari siglato tra il leader tecnologico della Silicon Valley e la UK Press Association per il progetto «Digital News Initiative», un progetto triennale di Google dal valore di 170 milioni di dollari, che comprende tra i suoi numerosi obiettivi, la creazione di «informazioni» automatizzate o scritte dai robot. Questo specifico programma è formalmente conosciuto con il nome di «Reporters and Data and Robots», o RADAR, e, in base a quanto è stato già scritto, i «giornalisti robot» progettati da Google si serviranno di open source paragonabili a quelle impiegate dei governi e dalla polizia per produrre dei rapporti che in seguito invieranno agli altri media per la loro diffusione o che serviranno da base per articoli scritti da persone in carne e ossa.
Questo post dovrebbe essere letto come Parte 3 della serie che sto scrivendo sulle infamità compiute da Google, per cercare di comprendere dove potrà arrivare la nostra società se consentiremo ad una minoranza di miliardari-tecnocratici, estremamente ricchi e potenti, di prendere il controllo sociale della cultura, per adattarla alla loro visione ideologica usando la coercizione, la forza e la manipolazione. Ecco i link per la Parte 1e laParte 2.
Ho dovuto pensarci parecchio per scegliere il titolo di questo pezzo perché, dopo le elezioni del 2016, l’uso del termine “stato profondo” non è mai stato troppo associato ai cheerleaders di Trump e non mi sto riferendo a quelle persone che hanno votato per Trump – persone che posso comprendere e rispettare – sto parlando di quelli che hanno un “culto per Trump”. Parlo di quella gran parte di persone che in modo irragionevole ed entusiastico si attaccano a certe figure di politici, tanto da sembrare idioti, se non solo opportunisti.
Joseph Stiglitz (Indiana, 1943) non è radicale. Il suo carattere, rivestito di un cauto ottimismo, e il suo impressionante curriculum, fanno di lui tanto un uomo d'ordine, quanto un riformatore. Eppure, il premio Nobel, che fu capo economista della Banca Mondiale alla fine degli anni novanta, dopo aver presieduto il Consiglio dei Consulenti Economici di Bill Clinton, è diventato un forte critico dell'establishment. Per qualcuno del suo pedigree, prendere posizione in favore del "no" al referendum greco sul piano di salvataggio, o gridare contro gli accordi di libero scambio, lo sfruttamento dei lavoratori, l'estorsione dei fondi avvoltoio alle nazioni indebitate e ciò che egli chiama la "depravazione morale" del settore finanziario, suggerisce un rinnovato slancio progressista, o forse una rivelazione. Eppure le posizioni di Stiglitz non sono cambiate molto - è il mondo che le mantiene che è cambiato. La marcia verso destra inarrestabile dell'ortodossia economica, insieme alla crescita della disuguaglianza, posizionano questo professore della Columbia University in contraddizione con i suoi presunti alleati, e anche con i suoi colleghi. Non sembra curarsene troppo. Stiglitz riceve CTXT nel suo ufficio alla Columbia per discutere del suo nuovo libro, The Great Divide: Unequal Societies and What We Can Do about Them (2015), che affronta le cause, le conseguenze e i pericoli del crescente divario tra ricchi e poveri. E perché niente di tutto questo è inevitabile.
Al loro posto arriva Abacus: lo smartphone ci sorveglierà in continuazione per assicurarci che siamo proprio noi. Da qualche anno in qua Google ha iniziato a mostrare insofferenza nei confronti delle password, considerate (non a torto) l'anello debole della catena della sicurezza. Ha provato così a irrobustire i sistemi basati su password, introducendo per esempio l'autenticazione in due passaggi o sostituendo le password costituite da caratteri con un'identificazione biometrica. Però Google non è ancora soddisfatta. Il 2016, però, dovrebbe essere l'anno della svolta grazie a Project Abacus, creato per cestinare per sempre l'incerta sicurezza delle password per sostituirle con un sistema a prova di hacker. Abacus si basa non su un unico dato biometrico per identificare l'utente, ma su tutta una serie di dati biometrici che, combinati insieme, danno origine a un punteggio di fiducia (trust score). Se questo punteggio è abbastanza alto, l'identità dell'utente è confermata e questi può accedere allo smartphone, al PC e via di seguito. La chiave di Abacus è il monitoraggio costante: lo smartphone, dispositivo d'elezione per questo compito dato che ognuno tende a portarlo sempre con sé, sorveglia continuamente il proprio utente registrandone comportamenti, dati biometrici e abitudini come il modo di parlare, di camminare e di digitare.
La società californiana, egemonica e tentacolare, è un’impresa dal potere quasi sovrano. Ma dietro il predatore economico si cela anche un progetto di una società ultra-individualista, basata sulla meritocrazia e la scienza per governare l’umanità di domani. Eric Schmidt, presidente e direttore generale di Google, non si presenta come un dirigente d’impresa. Non parla di affari, ma di una rivoluzione e di una visione del mondo. Nella conclusione del suo penultimo libro intitolato The New Digital Age si legge: “La nostra ambizione consiste nel creare il miglior mondo possibile”. E Google non si accontenta di parafrasare Aldous Huxley. Infatti trova anche i mezzi del suo potere. Innanzitutto con una base economica incredibile. Un tesoro di guerra di quasi 60 miliardi di dollari, ben piazzato nel caldo clima delle isole Bermuda e delle risorse abissali, generate dal monopolio quasi perfetto nel settore della pubblicità su internet grazie a Adword ed Adsense. Ma questo settore non è che una piccola parte della sua attività. L’impresa è spinta perpetuamente da una logica di creazione e di conquista, perseguendo lo scopo di espandere di continuo. Allora Google crea e distrugge a colpi d’innovazione tecnologica. Nel corso di questi ultimi anni ha investito somme ingenti nei settori della sanità, della robotica, dell’intelligenza artificiale, della cultura e persino nel settore automobilistico …