6 dicembre 2025

Nuovo Studio Scientifico ➤ I test PCR hanno sovrastimato significativamente le infezioni effettive

Una recente analisi scientifica getta nuova luce sui parametri utilizzati durante la pandemia. I ricercatori delle università di Stoccarda, Coblenza e Vilnius (Lituania) hanno analizzato i dati dei "Laboratori accreditati di medicina" (ALM), raccolti per conto dell'Istituto Robert Koch (RKI). Il risultato: solo il 14% circa - forse anche solo il 10% - delle persone risultate positive al test erano effettivamente infette da SARS-CoV-2, come dimostrato dal rilevamento degli anticorpi (IgG). I ricercatori mostrano anche che alla fine del 2021, oltre il 90% della popolazione aveva già avuto almeno un contatto con il virus, una cifra confermata dai rilevamenti di anticorpi dell’RKI.

Da un lato, lo studio mostra che l'equazione "test PCR positivo = infezione" non è scientificamente sostenibile. Tuttavia, è stata proprio questa equazione a diventare la base per decisioni politiche di vasta portata. I risultati compaiono in un momento in cui la commissione d'inchiesta del Bundestag sulla pandemia ha iniziato i suoi lavori. Sono anche in netto contrasto con le recenti dichiarazioni, come quelle fatte da Christian Drosten nella commissione d'inchiesta sassone, secondo cui ogni test PCR positivo è sinonimo di infezione. Particolarmente esplosivo: l'Infection Protection Act (§22a IfsG) ha stabilito durante la pandemia che solo un test PCR positivo è considerato prova di infezione o recupero. Sono stati espressamente esclusi i test anticorpali in grado di rilevare effettivamente un'infezione.

In secondo luogo, gli scienziati criticano l’ancoraggio dell’"incidenza di sette giorni" nella legge sulla protezione delle infezioni (§28a IfsG) come base per interventi drastici sui diritti fondamentali. "Questa misura dipende esclusivamente dal numero di test effettuati e non è quindi un indicatore oggettivo dell'incidenza dell'infezione", afferma Michael Günther dell'Università di Stoccarda, l'autore principale dello studio. Il coautore Robert Rockenfeller dell'Università di Coblenza aggiunge: "Il salto da mezzo milione a due milioni e mezzo di test a settimana crea un aumento di cinque volte dell'incidenza semplicemente a causa del numero variabile - senza che l'effettiva incidenza dell'infezione debba cambiare".

L’analisi invita a una domanda fondamentale: i dati più affidabili e i concetti più solidi sono stati davvero sempre utilizzati per giustificare decisioni di vasta portata durante la pandemia? La risposta a questa domanda non sarà decisiva solo per la rivalutazione storica, ma anche per la fiducia nella politica e nel mondo accademico nella futura gestione delle crisi.

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