21 dicembre 2018

Basta retorica: Antonio Megalizzi non è morto per l’Europa!

Era nel posto sbagliato nel momento peggiore. Contro gli sciacalli di ogni parte e partito, qualche dubbio sui fatti di Strasburgo
È il momento degli sciacalli. Di destra. Di sinistra. Di centro. Dotati di intelletto o portatori inconsapevoli di neuroni in numero imprecisato e collegamento dadaista, un sirtaki di sinapsi in libera uscita. Antonio Megalizzi è morto, riposi in pace. Mi hanno insegnato a fare così di fronte all’ultimo passo, al miglio definitivo: si piange in silenzio, da soli. Fuori, dignità. I quattro quinti abbondanti di quelli che hanno già proclamato il 29enne giornalista trentino un martire d’Europa, santo patrono delle Commissione UE e del Trattato di Schengen, immaginetta laica dell’Erasmus e di quanto è bello girare senza dogane e senza dover cambiare i soldi a ogni destinazione. Roba da pro loco globale, la Mastercard delle meravigliose sorti e progressive che ci spettano. “È morto per l’Europa”, dicono gli uni. “È morto per le porte aperte di questa Europa, vittima del terrorismo islamico”, controbattono gli altri. L’unica certezza, a casa mia, è che sia morto. A 29 anni. Con un proiettile sotto la nuca, alla base del cranio. Inestraibile. Inoperabile.
Sicuramente amava l’Europa. Amava viaggiare. Amava il giornalismo. Amava la sua fidanzata. Sarà stato, immagino, entusiasta ed eccitato per quel viaggio, breve ma intenso. Sotto Natale, particolarmente magico nelle città del Nord. È morto, colpito da un proiettile in testa. Non al fronte. Né per combattere chi vuole distruggere l’Europa in nome dell’egoismo e dei nazionalismi, né per contrastare l’avanzata dei nuovi Saladino, dei cui kebab sono piene proprio le città, aperte e cosmopolite, che forse per questo piacevano tanto ad Antonio. Città che cozzano contro la guerra di civiltà. Ma anche contro la miopia da Trattato di certe istituzioni, incapaci di vedere la fame perché storicamente sazie. E, in quanto tali, chiamate a decidere il menù per tutti. Ça va sans dire.

A mio avviso, più prosaicamente, Antonio è morto perché era nel posto sbagliato al momento sbagliato: lo so, non c’è eroismo, né epica nel fato, nel caso, nella fatalità. Ma tant’è. Antonio è morto, perché era al mercatino di Natale invece che in un bistrot o in una libreria o in Chiesa o chissà dove. Magari, dentro all’Europarlamento, bloccato da un contrattempo o intrattenuto da una discussione che lo appassionava. O solo da una colite per colpo di freddo. Se però vogliamo scendere sul piano ideale, allora bisogna avere il coraggio di dirla tutta. 

O non dico la verità, perché non mi arrogo il diritto di averla a portata di mano. Quantomeno, l’intera narrativa, però. Perché c’è un punto di connessione fra i due sciacallaggi in atto: ovvero, il contesto tragico in cui si è inserita la morte di Antonio ha molto a che fare sia con la presunta minaccia islamica all’Europa, sia con la sopravvivenza della stessa nella forma che conosciamo. Se Antonio è morto per l’Europa, lo ha fatto inconsapevolmente. E non per un’ideale alto di Europa, popolare, democratica, basata su lavoro e merito, solidarietà ma anche doveri, arte e libertà. No, è morto non cercando affatto la bella morte, per garantire allo status quo, rappresentato a meraviglia dai contrapposti sciacallaggi, di restare tale.

Quando ci si muove lungo i confini incerti delle oscure vie in cui lo Stato, inteso come potere e non come governo, si autoperpetua e supera le crisi, il rischio è sempre lo stesso: essere bollato, sic et simpliciter, di complottismo. Ovunque si innalzano sopraccigli accusatori e beffardi, sarcastici sorrisi di compatimento e le mani cominciano a roteare nell’aria, mimando il gesto della tua fantasia da scrittore di spy-stories che vola, libera e in preda ai suoi deliri, nell’ìperuranio della dietrologia, nel mondo parallelo dell’irrazionale. Un po’ insultante, un po’ caso psichiatrico. Spesso, a ragione, giova dirlo. Perché c’è chi di questa patologia ha fatto una professione, intravedendo complotti giudaico-massonici anche nello sfortunato caso in cui calpesti una merda sul marciapiedi, sicuramente piazzata lì dalla CIA per oscure finalità che si scopriranno solo decenni dopo, ad archivi aperti. C’è però dell’altro. C’è il fatto che appare strano come, i medesimi fustigatori di altrui paranoie, ad ogni livello di credibilità esse compaiano all’orizzonte, siano però i primi a citare, ogni qualvolta il calendario della loro gioventù mal invecchiata glielo ricordi, gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini per inchiodare al muro delle responsabilità da sceneggiato televisivo lo Stato per ogni nefandezza anti-democratica dal 1945 ad oggi. 

Quel io conosco il nome, io so di Pasolini risuona come il più scontato ma anche azzeccato dei j’accuse da aperitivo impegnato, da vernissage per rivoluzionari carenti di mobili propri per fare le barricate, come li definirebbe Ennio Flaiano, da saggio di fine anno per orgogliosi detentori di superiorità morale, declinata in modo e tempo di sopportazione delle prime cinque righe di un editoriale di Eugenio Scalfari. Scusate l’ardire ma Pier Paolo Pasolini, nel tratteggiare in punta di sanguinante e dolente sacrificio morale e civile le responsabilità dello Stato e dei suoi uomini in stragi come Piazza Fontana o la stazione di Bologna o Piazza della Loggia o l’Italicus o Ustica o il rapimento Moro, cosa faceva di diverso da quelli che vengono con scherno definiti ‘complottisti’? 

Dava basi scientifiche al suo pensiero? No, meramente morali e politiche. Acqua nell’acqua, sabbia che si mischia alla spiaggia quando i castelli crollano, per i soloni del realismo, per coloro i quali ‘lo Stato non fa certe cose’. Almeno, i maratoneti del complotto 2.0 studiano, si informano, diventano alla bisogna artificieri, ingegneri, piloti d’aereo, periti balistici, medici autoptici: tutto da autodidatti, tutto sulla Rete. Ma, almeno, ci provano a dare basi scientifiche ai loro dubbi. 

Eppure, c’è il gap: il j’accuse senza nomi di Pier Paolo Pasolini è Vangelo, il resto è lestofante letame che tenta di insozzare la nobile battaglia. Quale, di grazia? Ma quella che vede Antonio ‘martire d’Europa’ o ‘martire dell’invasione jihadista’: a scelta, intercambiabile. Un po’ deboluccia, come accusa. Non tanto a livello assoluto, quanto nel più triviale riscontro con il minimo sindacale di intelligenza necessaria a mettere in fila le discrepanze e le anomalie dell’ennesimo ‘attentato islamista’ nel cuore d’Europa. Ammesso e non concesso che si abbia la voglia e il coraggio di farlo, questione differente e ben più delicata. Vediamolo, per sommi capi, questo ‘attentato’.

Solito copione: delinquente comune, radicalizzato in galera, noto a polizia e servizi di sicurezza e bollato, per questo, con la lettera ‘S’ sul dossier criminale. E non un criminale alla prima rapina: 27 condanne in 36 anni di vita tra Francia, Germania e Svizzera. Solitamente, uno così quando succede qualcosa è il primo che la polizia va a cercare: perché o c’entra qualcosa o, comunque, sa qualcosa. E infatti, doveva essere arrestato martedì mattina, il giorno dell’attentato. Hanno fatto irruzione a casa sua ma hanno trovato solo delle armi, fra cui delle granate, pare: lui era già latitante. Per poco, perché la sera è riemerso dall’ombra e ha colpito al cuore, nel centro cittadino, nell’affollatissimo mercatino di Natale (grazie al cielo, non così pieno, trattandosi di in un giorno feriale).

Perché, sapendo che un pericoloso latitante era in circolazione e probabilmente con un piano da compiere (visto cosa hanno trovato in casa), cui il blitz del mattino ha impresso giocoforza un’accelerazione, non si è chiuso il mercatino, bersaglio privilegiato della città alsaziana, insieme all’Europarlamento e alla vicina Cattedrale? Non si voleva turbare l’atmosfera natalizia e gettare nel panico la gente? 

Meglio il panico o i morti e i feriti stesi per strada? O magari si dava per certo il fatto che il blitz lo avrebbe fatto desistere dal suo intento? In questi casi, non si ipotizza. Perché le ipotesi uccidono. E che dire del fatto che il nostro attentatore, il nostro lupo solitario, sparasse alla testa con perizia da cecchino, pur agendo con la concitazione imposta dall’accelerazione del piano programmato, in penombra, di fretta, da solo e con bersagli più o meno in movimento, almeno dopo il rumore del primo colpo? Sparava alla testa. E in due casi, con precisione tale da aver ucciso: un turista thailandese e Antonio. Pare, poi, che dopo l’attacco, l’attentatore fosse ferito a una mano. Vero? Falso? Poco importa. Si sa per certo, invece, che è fuggito dal luogo dell’attentato in taxi, ovviamente dopo aver gridato il rituale ‘Allah Akbar’. Magari lo ha anche pagato, il taxista. 

Certamente, lo stesso taxista appare strano come personaggio: accompagni a casa un terrorista islamico che ha appena fatto una strage e poi non dici nulla alla polizia? Già, perché prima di ammazzarlo fra le vie in cui viveva, gli inquirenti hanno mobilitato 700 uomini per un giorno e mezzo, ipotizzando che fosse riuscito a fuggire in Germania. Il taxista forse non si era accorto di aver accompagnato a casa un tipo sospetto, che aveva appena gridato ‘Allah Akbar’, fuggendo dalla scena di una sparatoria piena di gente urlante, forse con una mano ferita ma, soprattutto, con una pistola in mano? O forse la polizia non ha ascoltato il taxista, se non dopo 36 ore? Fatica a rintracciarlo? Eppure si tratta di Strasburgo, non di Città del Messico o Los Angeles.

Io so, come Pasolini, che un terrorista che deve compiere un attentato, non rischia di farsi beccare e mandare tutto a monte per fare una rapina pochi giorni prima (oltretutto essendo stranoto alle forze dell’ordine, proprio per reati comuni), motivo che invece aveva fatto scattare la perquisizione del mattino nel suo alloggio, stando alla versione ufficiale.

Vogliamo prendere in esame, in linea teorica, l’ipotesi che fosse riuscito a fuggire oltreconfine? In quel caso, io so che devi essere Mandrake per superare il confine, se sei solo, ferito, a piedi (dubito potesse aver optato per l’espatrio in taxi), con le frontiere blindate e qualche centinaio di poliziotti che ti sta dando la caccia. Oppure, puoi godere di una rete di supporto di livello straordinario. Molto, molto straordinario. Quasi istituzionale. O militare. Perché se il blitz mattutino ha accelerato il piano dell’attentato, significa che quella rete è in grado di attivarsi ai massimi livelli praticamente in tempo reale, anche con cambi di piano criminale quasi dell’ultimo minuto. Viene da pensare. Ma solo pensare. Perché, come tutti gli altri ‘lupi solitari’, a parte lo strano Salah Abdelslam (cui immagino sarà, prima o poi, riservata una silenziosa ‘cura Stammheim’ stile Baader-Meinhof), l’attentatore è morto.  

Ammazzato in un blitz, nel suo quartiere. Da dove non si era mai mosso. E, cosa più importante, fra gli applausi della gente, finalmente sicura e libera dal male. E i morti, si sa, non parlano. Se non nelle autopsie. Ma quelle non fanno notizia. Ma quelli perbene, i realisti, la gente che non cede al pressapochismo del dubbio un tanto al chilo, soprattutto quando non conviene, loro non hanno dubbi: Antonio è morto per l’Europa. O per mano dello jihad che vuole minareti al posto del Duomo. Eppure, questi stessi proclamatori di martiri laici a cadavere ancora caldo, lo sanno chi c’era in via Fani la mattina del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta. Lo sanno che andò via la linea della SIP. Che non c’era la solita macchina di pattuglia all’angolo ma, in compenso, c’era il capo addestratore di Gladio nei paraggi. È storia degli atti giudiziari, non dietrologia. 

E lo sanno che non si scomodano sicari in trasferta per sparare – con Browning celate nei sacchetti del supermarket per non lasciare in giro bossoli rivelatori – a Fausto e Iaio, una fredda sera di marzo del 1978 al Casoretto, Milano operaia di nebbia e rabbia. E, soprattutto, non gli si spara come killer professionisti per un dossier sullo spaccio di eroina. Ma per ragioni di toponomastica legata a una strada, via Montenevoso: al numero civico 9 abitava Fausto Tinelli, mentre al numero 8 – proprio di rimpetto rispetto alla sua camera da letto – si trovava il covo milanese delle Brigate Rosse, dove il 1 ottobre dello stesso anno furono ritrovate le carte originali del memoriale Moro. Lo sanno, i nostri difensori del buon senso e del pensare onesto, che qualcosa quadra poco.  

E lo sanno che il DC9 dell’Itavia in viaggio da Bologna a Palermo la sera del 27 giugno del 1980 non fu abbattuto da un piccione kamikaze o da una bomba così intelligente da calcolare anche i ritardi cronici dei trasporti italiani. E lo sanno che i servizi segreti, nostrani e non, giocarono sporco con la strage di Piazza Fontana, quantomeno a livello di despistaggi. Lo hanno scritto sui loro giornali. Qualcuno andò oltre, scrisse che la strage era di Stato e che Calabresi era responsabile della morte dell’anarchico Pinelli. Il tutto, in tempi in cui il piombo era pane quotidiano e sassolino che la Storia si levava volentieri dalla scarpa bucata e oversize dell’innocenza.

Ora, però, negano. Negano che ciò possa accadere anche altrove, più in grande, più schematico e malvagio, istituzionalmente accettabile. Forse, perché erano piromani e ora sono pompieri, la meglio gioventù si è fatta grande, si è fatta classe dirigente. E certe cose, sono come le dita nel naso: si fanno ma non in pubblico. E, soprattutto, non si ammettono. 

Come l’eskimo ben riposto nell’armadio, al fianco di un fila di grisaglie. Ma il cuore è lo stesso di allora! Tutti complottismi, Antonio è morto per l’Europa! No, Antonio è morto per fatalità. O, volendo andare oltre e affidandosi alla buona fede, per una sesquipedale catena di incompetenze, incapacità, leggerezze e dilettantismi degli apparati di sicurezza francesi. E ho detto buona fede, perché quella è la migliore delle ipotesi. La peggiore ma non poi così peregrina – se si è appunto creduto in passato che a Piazza Fontana non sia esplosa una caldaia o che appare un po’ lunare che cervelloni dell’intelligence vadano a Gradoli invece che nella più vicina e probabile (e conosciutissima ai Servizi, ivi domiciliati in incognito) via Gradoli – è quella che esista non un piano, magari ma una strategia, sì. Proprio come quella della tensione, programmata a tavolino per contenere il ‘pericolo rosso’ e, magari, porre le basi per la svolta autoritaria, se la situazione l’avesse richiesto. È normale. Solo spietata e machiavellica ragion di Stato, non un complotto. 

Ne è piena la Storia, a volerla leggere tutta e non saltando le pagine scomode. Addirittura, uscendo dai patrii confini e planando nel sonnacchioso Belgio, ontologica patria della nebbiosa noia dell’essere e del mal di vivere, intervallata solo da segrete e peccaminose perversioni di provincia magistralmente narrate dalla penna di Georges Simenon, si scopre che lo Stato copulò a lungo con il peccato originale della Brabante Vallone, banda sui generis di rapinatori di supermercati che si scoprì poi essere l’emanazione criminale di Gladio per destabilizzare il Paese in chiave filo-Nato attraverso la solita, ritrita, polverosa ma sempre efficace coltre della paura permanente da stendere sui corpi tremanti dell’opinione pubblica. È Storia, anche questa.  

Come è storia il Bataclan e la strana proclamazione dello stato di emergenza in Francia, già pronta sul tavolo di un François Hollande di ritorno in auto blindata e con scorta dallo Stade de France, quando però ancora nella sala concerti fischiavano i proiettili. È cronaca, se preferite. E ad avere tempo e voglia, fra Londra e Bruxelles e Barcellona, di incongruenze che hanno il sapore antico della riproposizione pedissequa – ancorché attualizzata in chiave jihadista (unica eredità lasciata dai neocon al mondo, prima di dar vita al loro morphing) – dello schema destabilizzatore, ce ne sono a quintali. Altro che Scritti corsari, ci si potrebbe scrivere l’Enciclopedia britannica! E nella mia infinita bontà, in questo caso rasente l’oltraggio al buon senso, evito di citare la stranissima coincidenza che ha visto la quinta giornata di protesta nazionale dei ‘Gilet gialli’ tramutarsi in un rumoroso incontro fra pochi intimi, anni luce dal caos della settimana precedente. Nel mezzo, un Emmanuel Macron in versione mea culpa ma con nel taschino un bel sondaggio spazza-Front National e lo stato di emergenza, pronto a essere ripristinato. E Strasburgo. 

Ma lo evito, è solo una coincidenza. Non è però che questa storia del complottismo da irridere e scacciare come lebbrosi dal tempio della buona creanza democratica non sia altro che incapacità di vedere oltre il proprio naso o, peggio, connivenza con una narrativa che fa comodo, come pattine per evitare che la merda schiacciata dall’ospite insozzi il tuo tappeto?  

Non è che, in punta di onestà – merce rara! – non si voglia guardare conradianamente in faccia l’Orrore e si preferisca travisarlo, spesso in maniera caricaturale, con la kefiah e la sciabola oltraggiose e mediaticamente piene di allure del nemico jihadista? Quanti mesi è stata l’Europa senza attentati ‘islamici’ nelle sue capitali? Tanti. La gente se ne era scordata. Perché cominciava a perdere il poco lavoro che c’era, perché temeva l’erosione del potere d’acquisto più che il Califfato, il lavoro in nero e la paga da fame più che i kamikaze, l’incertezza economica e sociale più che l’islamizzazione dei nostri valori (fra cui, appunto, lo sfruttamento di massa). Tanti mesi, nel tranquillo silenzio dei quali cominciavano a circolare cattivi pensieri nella testa della gente. Dubbi. 

Domande. Addirittura, messe in discussione. Forse troppi giorni e mesi, a ben pensare, perché sia credibile la vulgata della guerra dichiarata da Allah contro i nostri valori e la nostra civiltà. Che cazzo di guerra è, quella che vede una battaglia ogni sei mesi? L’IRA o l’ETA facevano passare mesi fra un attentato e l’altro, per caso? O le stesse Brigate Rosse? E qui parliamo di un Califfato intero, un network mondiale che può contare, stando a quelli che sanno come gira il mondo, su migliaia e migliaia di militanti, fra cui addestratissimi foreign fighters di ritorno da Siria e Iraq. E non ditemi, per carità del buonsenso, che nel frattempo le intelligence hanno sventato un ‘enne’ numero di attacchi, senza che noi nemmeno lo si sappia: altrimenti, spiegatemi il capolavoro di stupidità di Strasburgo, ultimo di una lunga fila. E magari, dopo averlo proclamato martire d’Europa o della novella Lepanto, a vostra scelta, spiegatelo a parenti e amici di Antonio, i quali infatti hanno chiesto disgustati il rispetto della privacy. E del dolore.  

Io non so chi fosse Antonio. Probabilmente era il bravo e intelligente ragazzo che raccontano. Io so però che si è trovato suo malgrado nel posto sbagliato al momento sbagliato. E che magari sì, è morto per l’Europa. Ma non proprio nel senso eroico che le contrade contrapposte dello sciacallaggio intendono. Perché, piaccia o no, lorsignori del negazionismo e della versione ufficiale come unica realtà, branditori di comodi, acuminati ma al tempo stesso tranquillizzanti rasoi di Occam per anime troppo sensibili e barbe da accorciare per non pungere, hanno ragione. Lo Stato non fa certe cose. Ne fa di peggiori.

Mauro Bottarelli - Pangea

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