9 ottobre 2017

Ernesto Che Guevara, il santo che non verrà mai canonizzato

“L’unica volta in vita mia, in cui ho visto piangere mio padre, è stato il 10 ottobre 1967: alla radio era stata appena annunciata la morte del Che”, mi ha raccontato un giorno un uomo di teatro originario dal Kurdistan iraniano, incontrato in un bistrot parigino. E il montanaro curdo non fu il solo a rimpiangerlo. Ma tutti non piangevano. Per i maoisti come noi a suo tempo la morte del Che significava la disfatta – forse definitiva – della teoria del foco (il focolaio di guerriglia rurale creato da un piccolo gruppo di combattenti), popolarizzata nell’Europa di allora da Régis Debray.


Come partigiani della “guerra popolare prolungata” – il modello cinese messo in pratica dai vietnamiti sotto la direzione del geniale generale Giap, l’artigiano della vittoria di Dien Bien Phu-, eravamo dell’idea che ogni ripetizione dell’esperienza cubana sarebbe destinata a fallire. Gli uomini del Granma avevano tratto beneficio dall’effetto sorpresa, dalla corruzione che affliggeva il regime di Batista e suscitava una scocciatura generalizzata e dalla neutralità dell’impero yankee. La loro vittoria aveva suscitato delle contromisure di tutti gli apparecchi della contro-insurrezione stabiliti nelle Americhe, sotto la guida della CIA, della DIA e della Scuola delle Americhe, a suo tempo ancora insediata a Panama.
Il gruppo di guerriglieri sotto la guida dell’asmatico argentino in Bolivia lo avrebbe scoperto rapidamente sette anni dopo, come l’avevano già sperimentato in Congo due anni prima. L’impero ormai era deciso a non farsi più cogliere di sorpresa. E a Mosca era stata decretata la fine della guerra fredda, inaugurando l’era della coesistenza pacifica con il nemico atavico. Le conseguenze per i combattenti della “zona delle tempeste” (Asia, Africa, America Latina) furono devastanti: tutti i partiti comunisti allineati al Cremlino, optarono per la “via pacifica verso il socialismo”, rinunciando alla lotta armata ed escludendo tutti quelli, in generale nelle loro organizzazioni giovanili, che la propagavano, etichettandoli come “militaristi, sinistristi, putschisti, maoisti, hitlero-trotzskisti, anarchici”, ed altri epiteti infamanti.

Nel 1965 i generali indonesiani fecero un colpo di stato contro il presidente Sukarno, commettendo un vero e proprio genocidio, deportando e massacrando un milione di comunisti e supposti tali. Il partito indonesiano PKI, allineato a Mosca, considerava i comunisti cinesi e i loro simpatizzanti comme avventuristi, avendo rinunciato alla lotta armata, aveva scelto di appoggiare l’ “aspetto positivo” del regime Sukarno, rappresentante della “borghesia nazionale”. Rifecero dunque l’esperienza fatta a due riprese, nel 1923 e nel 1936, dai comunisti cinesi, del fronte unito costituito su ordine del Piccolo Padre dei popoli, il geniale compagno Stalin, con il Kuomintang, anch’egli il rappresentante della borghesia nazionale. I due fronti uniti si erano dimostrati dei fallimenti sanguinari.

In tutto il terzo mondo e anche nel primo mondo giovani rivoluzionari alla ricerca della “via giusta” si erano entusiasmati per le prese di posizione cinesi contro il grande fratello sovietico. Contro l’impero e i suoi vassalli locali la lotta armata era l’unica via praticabile. Ma non una lotta armata qualsiasi.
Una giornata di gennaio del 1966 all’Havana, mentre in occasione della Conferenza di Solidarietà con i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, un uruguaiano si rivolse al delegato vietnamita che scendeva dal palco doveva aveva preso la parole, sotto applausi frenetici. “Compagno, ammiriamo la vostra lotta eroica, ma da noi non ci sono montagne”, disse l’uruguaiano. 

La risposta del vietnamita fu la seguente: “Compagno, la montagna più alta è il popolo”. Era un sunto geniale di tutti gli aspetti della “guerra popolare prolungata”. Se i cinesi e i vietnamiti avevano vinto le loro guerre di liberazione, era perché erano sostenuti dal popolo, perché avevano organizzato delle zone liberate e autogestite che fungevano da base alimentare per la resistenza e che avevano accerchiato le città, controllate a livello militare, politico ed economico e soprattutto ideologico dal nemico, a partire delle campagne, perché si appoggiavano alle masse “fondamentali”, ai contadini e alle minoranze etniche, gli indigeni, in breve i “selvaggi”.

Questo, il Che Guevara, bianco e urbano, non lo aveva capito. E lo pagò con la vita. Altri militanti bianchi e urbani venuti più tardi l’hanno capito e messo in pratica, innanzitutto ci sono riusciti gli zapatisti messicani, il cui primo nucleo era costituito da sopravvissuti di gruppetti della guerriglia urbana, ma anche Alvaro Garcia Linera, oggi vicepresidente della Bolivia, che ha approfittato dei suoi cinque anni di galera (1992-1997) per la sua partecipazione all’Esercito guerrigliero Túpac Katari per riflettere sull’esperienza collettiva dei movimenti popolari boliviani, di maggioranza indigeni, e tirare delle conclusioni “gramsciane” (aspirare all’egemonia culturale, prima di aspirare a una qualsiasi presa di potere).

Ma il fallimento militare del Che è stata la sua vittoria culturale, in quanto lo ha reso il Martire Supremo della rivoluzione e non solo in America Latina. I popoli di tradizione cattolica lo hanno reso un santo e quelli di cultura musulmana un shahid (=testimone, martire). La dimensione umana, troppo umana, umanista del suo combattimento rimane una fonte di ispirazione un po’ ovunque. La sua ultima foto, quella di un Cristo laico circondato da assassini e Giuda, ha segnato in modo durevole la memoria umana. E questo santo rimarrà laico. Anche se João Pedro Stedile, il leader del Movimento dei senza terra brasiliani propone al suo amico, il Papa argentino, di canonizzare Ernesto Che Guevara – ha già proposto al Vaticano di canonizzare … Antonio Gramsci! -. la Curia Romana non rischia di seguirlo. Non esageriamo, Dio mio!


Per concessione di Tlaxcala
Fonte: https://bastayekfi.wordpress.com/2017/10/08/ernesto-che-guevara-le-saint-qui-ne-sera-jamais-canonise/
Data dell'articolo originale: 08/10/2017
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=21756

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