9 ottobre 2017

9 ottobre 2017: 50 anni senza Ernesto «Che» Guevara

"Ciò che rimane di Guevara non è nei sogni ormai ingialliti di un marxismo agonizzante, ma il rovesciamento radiale della società. Rivoluzione come atto assoluto, gesto puro" (Massimo Fini)
 

Ernest Mandel, uno dei maggiori teorici del marxismo della seconda metà del Novecento, intervenne nel numero 39 del settimanale comunista rivoluzionario belga “La Gauche” pubblicato il 21 ottobre 1967, non appena giunta in Europa la notizia dell’uccisione del “Che”, con l’editoriale che riproduciamo qua sotto.


Ernesto «Che» Guevara (Rosario/Argentina, 14 giugno 1928 – La Higuera/Bolivia, 9 ottobre 1967) non c’è più. E’ morto in combattimento, come Jaurès, come Karl Liebknecht e Rosa Luxembourg, come Durruti e Trotsky. Per come era, non sperava altra morte che questa.
La rivoluzione cubana e latinoamericana perde uno dei suoi principali dirigenti: noi perdiamo un compagno che ci è molto caro. Tutti coloro che l’hanno avvicinato sono stati colpiti dal suo idealismo, dal suo coraggio, dalla sua sincerità e dalla sua semplicità. Con Fidel Castro, e più di chiunque altro nel mondo di oggi, ha saputo reincarnare le virtù fondamentali del rivoluzionario che lo stalinismo aveva sostituito con una caricatura respingente: la lealtà prioritaria nei confronti dei diseredati di tutto il mondo; la lucidità senza macchia che non rispetta nessun dogma; la determinazione feroce di conformare atti e convinzioni.
Direttore della Banca di stato cubana, firma i biglietti di banca con il suo pseudonimo «Che», per manifestare tutto il disprezzo di fondo che ogni socialista deve avere nei confronti del denaro. Convinto che la via delle guerriglie è la sola adeguata per andare verso la vittoria della rivoluzione in America latina, parte lui stesso in lotta, al fianco dei suoi compagni boliviani. Marx, che lottò per tutta la vita per l’unità tra la teoria e la pratica, sarebbe stato fiero di lui.
I cinici o i rassegnati si meraviglieranno del fatto che un dirigente come il «Che» combatta in prima fila e sospetteranno una qualche «macchinazione politica»; ma dimostreranno semplicemente di non conoscere né di poter comprendere uomini come Guevara. Altri vedranno nella sua morte la conferma del fatto che lui non sarebbe stato che un «avventuriero irresponsabile»; i «responsabili» degni di lodi non sono certo quelli che, nelle loro poltrone, non si assumono mai dei rischi.
Altri ancora diranno che, «predicando la violenza, è morto con la violenza». Non comprenderanno che è morto perché amava appassionatamente gli uomini e la vita, che è morto per salvare i vietnamiti da una pioggia ininterrotta di bombe omicide, che è morto per salvare milioni di bambini del suo continente da morte precoce, centinaia di milioni di oppressi da sofferenze inumane e inutili a cui li condanna un regime già condannato dalla storia.
La reazione trionfa. I generali boliviani, con le mani lorde di sangue dei minatori del loro paese, celebrano la morte «dell’intruso straniero». I lavoratori boliviani custodiranno la memoria di questo «straniero», perché ha dato la sua vita per la loro liberazione.
Le grida di vittoria degli agenti imperialisti esprimono bene il loro panico e la loro vigliaccheria. «La guerilla era un grave pericolo; ora la guerilla è vinta». Imbecilli! Potete uccidere un uomo. Non potete uccidere un’idea che affonda le radici nella realtà sociale più profonda.
Migliaia di boliviani, di peruviani, di colombiani, di argentini, di operai, di studenti, di contadini, di intellettuali latinoamericani raccoglieranno il fucile che è caduto dalle mani del «Che» morente. Il suo nome è già diventato una bandiera e un programma, un appello alla rivolta che risuona attraverso i cinque continenti. Le vostre miserabili mascherate non riusciranno a ritardare di un solo giorno il vostro crollo.
L’esempio del «Che» inciterà milioni di rivoluzionari in tutto il mondo a raddoppiare l’ardore delle lotte contro l’imperialismo e il capitalismo.
Noi piangeremo un grande amico, un compagno esemplare, un militante eroico. Ma sappiamo che la sua causa è invincibile. E’ entrato vivo nella storia che ricoprirà di disprezzo il nome dei suoi assassini. Perché incarna questa Rivoluzione, quella emancipazione definitiva del lavoro e dell’uomo che tutta la realtà della nostra epoca reclama.
Anche per il «Che» usiamo l’epitaffio che già fu di un’altra grande vittima di feroci carnefici, Rosa Luxembourg: Ero, sono, sarò!

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