Non c'è voluto poco
per rendere il mondo del lavoro italiano un lento dinosauro di fronte
alla veloce, temibile e tecnologicamente avanzata lotta di classe del
capitale. Il disarmo ideologico e politico dei lavoratori è stato un
percorso lungo, ma costantemente e pervicacemente portato avanti in modo
efficace all'interno delle loro stesse rappresentanze politiche. Lo
sfratto della contraddizione tra capitale e lavoro nella discussione
politica è stato un passo importante e grande per le classi borghesi
dominanti. Il "merito" deve essere ascritto sicuramente alle forze
socialdemocratiche revisioniste, le quali hanno fatto il grosso del
lavoro.
Tuttavia, altrettanto "merito" deve essere riconosciuto alle ultime
opposizioni italiane del re, le quali, beneficate da un suffragio
elettorale cospicuo (anche se modesto, tarata l'astensione), hanno
costruito un'alternativa politica completamente aliena dalle reali
contraddizioni di classe, fondata sul complottismo della corruttela
politica e degli sprechi, sulla mistica della legalità e della necessità
di abolire le distinzioni persino tra destra e sinistra, figuriamoci
tra capitale e lavoro. Un vero sogno per la classe dominante abbarbicata
ai monopoli finanziari ed industriali: il nemico non ha occhi per
rendersi conto dei colpi mortali che si vanno preparando.
In ogni luogo di lavoro troverete molti lavoratori che si lamentano ad
alta voce della perdita dei propri status, ma contemporneamente
archiviano alla categoria dell'antiquariato parole come "lotta di
classe", "proletariato", unità ideologica e politica, spocchiosamente
dichiarandole inadeguate ai tempi e sfoderando però come sola
alternativa un inutile grido contro l'ingiustizia e la corruzione,
dietro al sogno di un "deus ex machina" giudiziario o politico che
ripristini l'equità generale. Tanto vale darsi alla religione vera e
propria; se non altro ha una dottrina più affascinante.
Un esempio di ciò può essere visto nell'atteggiamento tenuto nei
confronti della più pesante controriforma del lavoro mai sferrata sui
lavoratori italiani: il Jobs Act., approvato a velocità inusitata negli
anni in cui alla guida del governo non è la cosiddetta destra e
all'opposizione abbiamo un sedicente gruppo rivoluzionario armato di
apriscatole. I primi schemi di decreto legislativo delegato hanno visto
la luce alla vigilia di Natale. Il primo passo della controriforma
riguarda proprio la libertà di licenziamento del padrone.
All'articolo 1 si prevede che i lavoratori che d'ora in poi verranno
assunti a tempo indeterminato, subiranno la tutela debole del jobs act
in caso di licenziamento illegittimo (1)
In un nostro precedente articolo - cui rimandiamo - avevamo illustrato i
meccanismi della tutela in caso di licenziamento. Una tutela attenuata -
cosiddetta "obbligatoria" - veniva prevista anche nei casi in cui
l'imprenditore non raggiungesse determinate dimensioni occupazionali (2)
Che succede se un imprenditore, in forza delle nuove assunzioni dopo
l'emissione del decreto, supera i quindici dipendenti e raggiunge i
limiti occupazionali per cui nella vecchia disciplina si passava alla
tutela più forte (c.d. tutela "reale")? I nuovi assunti verranno
disciplinati dal jobs act, ma i vecchi assunti potrebbero passare alla
tutela reale. Nemmeno per sogno. Il Governo ha pensato anche a questo.
Il secondo comma dell'articolo 1 prevede che i vecchi dipendenti del
padrone che, in forza delle nuove assunzioni, raggiunga il limite
occupazionale per l'applicazione della vecchia tutela reale, non godano
di quest'ultima, ma la disciplina della loro licenziabilità sarà quella
del jobs act. (3)
Tutto come prima? No. Forse un pochino peggio come avremo modo di dimostrare.
L'articolo 2 prevede che il giudice possa continuare ad ordinare il
reintegro del lavoratore sul posto di lavoro nei soli casi in cui
dichiari il licenziamento nullo o discriminatorio, ovvero intimato in
forma diversa da quella scritta. (4)
L'articolo 3 prevede invece le nuove forme di sanzione del licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.
Al primo comma si prevede che qualora venga dimostrato dal lavoratore in
giudizio che non ricorrono nè la giusta causa, nè il giustificato
motivo oggettivo o soggettivo, il giudice non reintegrerà più nessuno,
ma dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data di licenziamento,
condannando solamente il padrone al pagamento di una somma di denaro
(neppure assogettata all'imposizione previdenziale) di importo pari a
due mensilità della retribuzione globale di fatto per ogni anno di
servizio. La somma non può però mai essere inferiore a quattro
mensilità, nè superiore a ventiquattro. (5)
I casi in cui "non ricorrono gli estremi del giustificato motivo
oggettivo, soggettivo o della giusta causa" (6) sono quelli in cui il
vostro datore ha addotto un motivo di licenziamento insufficiente o
sproporzionato e il giudizio in cui l'avete citato ha dimostrato la sua
malafede e l'insussistenza dei motivi addotti per licenziarvi. In questo
caso, con il "nuovo corso" del jobs act, egli non dovrà riprendervi al
lavoro ma tutt'al più dovrà pagarvi un'indennità nella misura sopra
indicata. Su questa indennità il padrone non dovrà nemmeno pagarci gli
oneri previdenziali. Non avrete nemmeno diritto di far interrompere il
rpporto di lavoro alla data di pronuncia della sentenza: il giudice è
obbligato a dichiarare comunque estinto il rapporto a far data dal
licenziamento, anche se si è dimostrato che era assolutamente
illegittimo!
Solo nel caso in cui il datore di lavoro si sia assolutamente inventato
un fatto materiale di inadempienza o di scarso rendimento addebitato nei
vostri confronti per licenziarvi, solo in questo caso, il giudice può
ordinare il reintegro sul prosto di lavoro. L'insussistenza del fatto
deve però essere dimostrata in giudizio dal lavoratore. Facciamo
l'esempio: Carlo è dipendente di Nicola. Nicola un bel giorno lo
licenzia perchè afferma che Carlo ha mandato in frantumi un intero lotto
di bicchieri che dovevano essere venduti. Carlo e Nicola vanno davanti
al giudice Vladimiro, Carlo riesce a dimostrare che i bicchieri non sono
stati rotti da lui, anzi non sono stati affatto rotti, che sono stati
fintamente fatti passare come rotti, ma in realtà sono stati occultati e
addirittura venduti sottobanco dal padrone in nero, al fine di simulare
una perdita e licenziare il lavoratore massimizzando il guadagno. In
questo caso il "fatto materiale" addebitato a Carlo si è dimostrato
insussistente. Allo stesso modo avviene quando uno scarso rendimento
viene contestato a Carlo ma Carlo riesce a dimostrare che ha svolto il
suo lavoro con rendimento ordinario ed accettabile. (7)
Il decreto prevede che ancora lo stesso debba avvenire quando il
lavoratore riesce a dimostrare in giudizio che l'inidoneità fisica o
psichica contestata dal datore sia insussistente.
Vi sarete accorti che in tutti i casi sopra descritti si è sempre detto
"quando il lavoratore riesce a dimostrare in giudizio" l'insussistenza
della giusta causa, del GMO, del "fatto materiale" addebitatogli che sta
alla base della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
Quasi tutti i lavoratori sanno che in caso di licenziamento doveva
essere il padrone a dimostrare la giusta causa o il giustificato motivo
soggettivo! L'articolo 7 della legge 604/1966 poneva infatti a carico
del datore di lavoro l'onere di dimostrare in giudizio i fatti
costitutivi che stavano alla base della motivazione del licenziamento.
Se il lavoratore impugnava il licenziamento doveva solamente (8)
portare le prove della sussistenza di un rapporto di lavoro e di un
licenziamento. Il padrone doveva provare i fatti che motivavano il
licenziamento. Per tutti i lavoratori interessati dalla disciplina del
Jobs Act non è più così.
Quando più volte viene affermato che questi provvedimenti contengono la
summa della macelleria sociale in tema di diritto del lavoro, non è
vizio di iperbole. L'inversione dell'onere della prova a favore del
lavoratore in caso di licenziamento compensava una fondamentale
diseguaglianza economica e di potere in sfavore del lavoratore: per il
lavoratore espulso dall'azienda è difficile provare. I testimoni della
vicenda lavorativa sono di solito i colleghi di lavoro, ancora
sottoposti al potere economico e sociale del padrone e di solito restii a
testimoniare contro di lui. L'articolo 7 della legge 604/1966 era un
tampone all'abuso dominante della classe datoriale. Neutralizzava il
sopruso economico e sociale che di fatto faceva il vuoto attorno al
lavoratore che sfidava il padrone con la vertenza.
Oggi, il lavoratore del jobs act è del tutto sfornito di ogni tutela,
qualsiasi cosa egli debba contrastare, anche la più terribile, anche il
licenziamento discriminatorio più odioso, in giudizio sarà lui a dover
provare l'insussistenza del motivo di licenziamento, la sua
discriminatorietà. Se dovrà cercare testimoni nei colleghi di lavoro, si
troverà di fronte soggetti ancor più ricattabili dal datore, perchè
assogettabili loro pure a ritorsioni e licenziamenti molto più facili.
In giudizio, il lavoratore a cui viene imposto l'onere di provare
l'insussistenza dei motivi del suo licenziamento diventa un veliero
senza vela in mezzo all'oceano.
Con riferimento proprio all'inversione dell'onere probatorio, alcuni
autori (9) hanno già delineato alcune questioni di legittimità
costituzionale del nuovo dettato normativo. In particolare, con
riferimento al principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della
Costituzione, inteso nel dovere di "disciplinare in modo eguale
situazioni uguali ed in modo diverso quelle differenti, sempre che in
contrario non ricorrano logiche razionali e giustificazioni".Viene
osservato che sussiste una irrazionale disparità di trattamento tra i
lavoratori assunti col jobs act e quelli tutelati dalla vecchia
normativa. Solo in capo ai neoassunti incombe in modo sperequativo
l'onere della prova in sede di impugnazione del licenziamento. Carlo e
Giuseppe, entrambi dipendenti della stessa impresa, vengono accusati di
aver rotto i soliti bicchieri e vengono licenziati per giusta causa.
Carlo è assunto col jobs act e gli toccherà in giudizio di provare che i
bicchieri non sono stati rotti da lui. A Giuseppe basterà impugnare il
licenziamento e sarà il padrone Nicola a dover provare che Giuseppe ha
rotto i bicchieri. La differenza non ha motivazione razionale, poichè
situazioni di fatto eguali andrebbero incontro ad una tutela
completamente differente.
In aggiunta ai rilievi di tale autore, va osservato che la disparità di
trattamento emergerebbe non solo con riferimento ai neoassunti, ma anche
a quei lavoratori che, assunti prima del jobs act in una realtà
occupazionale con "tutela solo obbligatoria" (inferiore a 15
dipendenti), diventano disciplinati dal jobs act se in forza delle nuove
assunzioni avvenute dopo il decreto la realtà occupazionale supera i 15
dipendenti. In questo caso essi passerebbero da una situazione in cui
erano soggetti a tutela obbligatoria ex art. 18 l. 300/1970 in cui
potevano avere un'indennità da 2,5 a cinque mensilità, ma doveva essere
il datore di lavoro a provare in giudizio i fatti costitutivi del
licenziamento, ad una nuova realtà in cui l'indennità diventa sì di due
mensilità per anno di servizio, ma sono i lavoratori a dover provare in
giudizio i fatti costitutivi del licenziamento! Ciò anche se erano già
dipendenti anteriormente all'entrata in vigore del decreto! In questo
caso la disparità sussisterebbe persino nei confronti di altri colleghi
soggetti alla disciplina precedente per il solo fatto che la realtà
occupazionale si è mantenuta ancora al di sotto dei quindici dipendenti!
Allo stesso modo, eguale disparità vi sarebbe nella previsione del
divieto al giudice di valutare ogni sproporzionalità del licenziamento
per i nuovi assunti. Infatti, l'art. 3 comma 2 del Jobs Act, così
recita: "Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni
valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla
il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione.". In
caso di licenziamento disciplinare, solo nel caso di insussistenza
materiale del fatto può essere previsto il reintegro. Se il fatto
materiale sussiste, ma è di scarsa rilevanza (uno lieve e non offensivo
sgarbo verbale, cinque minuti di ritardo) e poteva essere applicata una
sanzione conservativa (il richiamo, la multa), al giudice viene proibito
in ogni caso di valutare il reintegro. La situazione crea disparità con
la disciplina ante Jobs Act: anche per la disciplina Fornero, in tal
caso poteva essere previsto il reintegro.
Sempre con riferimento a tale art. 3 comma 2, la possibilità di
reintegro in caso di dimostrazione dell'insussistenza materiale del
fatto posto alla base della motivazione di licenziamento. è prevista con
riferimento solo alla giusta causa e al giustificato motivo soggettivo,
ma non con riferimento ad un fatto insuissistente che sia posto alla
base di un giustificato motivo oggettivo. Ad esempio una crisi aziendale
che si riveli falsa o insussistente. In questo caso, diversamente dagli
altri due, non è previsto il reintegro. Questa disparità si rivela
ancor più marchiana, perchè incide su situazioni eguali disciplinate
dalla stessa nuova normativa, oltre che sulla disparità rispetto a
quelli ante riforma.
Particolarmente perniciosa la previsione dell'articolo 4, che stabilisce
una sanzione "attenuata" per i licenziamenti intimati in violazione dei
requisiti formali previsti dalla legge.
Dice l'art. 4: "- Vizi formali e procedurali. - Nell'ipotesi in cui
il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di
motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o
della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il
giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo
pari a una mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni
anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore
a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del
lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione
delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto"
I requisiti formali non sono sciocchi vincoli di forma, ma furono
previsti dalla legge per assicurare il diritto di difesa del lavoratore
nei procedimenti espulsivi dal luogo di lavoro.
Il primo requisito formale è l'obbligo di fornire una motivazione al
licenziamento, previsto dall'art. 2 co.2 l. 604/1966. La motivazione
consente al lavoratore la censura all'asserito provvedimento, consente
di predisporre la sua impugnazione e vieta al datore di lavoro di
inventare ex post il motivo di recesso. La violazione dei requisiti
comportava la dichiarazione di nullità del licenziamento ed il
provvedimento di reintegro. Già la Legge Fornero aveva smantellato tale
garanzia riformando l'art. 18 comma 6 dello Statuto dei Lavoratori,
prevedendo che per i licenziamenti intimati con vizi formali e
procedurali fosse prevista la sola sanzione dell'indennità (10),
riservando la tutela reale solamente per il licenziamento intimato in
forma orale. Il secondo caso di violazione dei requisiti formali
riguarda l'inosservanza delle procedure di cui all'art. 7 dello St. Lav.
per i licenizamenti disciplinari. La nuova disciplina riduce quindi
l'indennità e ribadisce il principio della tutela obbligatoria attenuata
per le violazioni procedurali. Alcuni autori sono convinti che i
profili di illegittimità costituzionale vadano ricercati nella
violazione del c.d. "diritto di difesa" di cui all'art. 24 Cost,
soprattutto con riferimento ad ogni sorta di licenziamento disciplinare,
laddove diviene principio fondamentale per chi è soggetto alla
contestazione di un'infrazione e di un provvedimento sanzionatorio,
conoscere il capo di contestazione e sviluppare in contraddittorio le
proprie difese. Certo è che tali profili coinvolgono non solo il
licenziamento disciplinare propriamente detto, ma sicuramente anche il
licenziamento per giusta causa: la giurisprudenza dominante considera
sempre di natura disciplinare il licenziamento per giusta causa,
quello intimato a motivo di una condotta colpevole del lavoratore. In
questi termini si è espressa fin dall'inizio:la Corte Costituzionale con
la sentenza 30/11/82 n. 204 che ha definito il contraddittorio ed il
rispetto delle procedure volte alla tutela del diritto di difesa il
cardine fondamentale di formazione delle regole e dei provvedimenti
disciplinari.
Poniamoci però nei panni del datore di lavoro: se io intimo un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo che è insussistente,
vado incontro alla sanzione pari a due mensilità per ogni anno di
servizio (con range da quattro a ventiquattro mensilità). Se io non
fornisco la motivazione del licenziamento vado incontro ad una sanzione
indennitaria di una mensilità per anno di servizio (con range da 2 a
12). Esattamente la metà. Converrà al datore quindi violare del tutto le
forme che cercare una motivazione censurabile. Vi è sempre la "spada di
Damocle" della possibilità per il Giudice di applicare le tutele
reintegratorie o le maggiori indennità di cui agli artt. 2 e 3, ma dovrà
far ciò "sulla base della domanda del lavoratore", il quale,
all'attacco di un testo senza motivazione alcuna, non si troverà
fornitissimo quanto agli elementi di contestazione.
Questo "corto circuito" che finisce per favorire una condotta
illegittima si manifesta come una palese disparità di trattamento che
può andare incontro ad un'ulteriore censura di costituzionalità per la
normazione in modo irrazionalmente diverso di situazioni eguali,
fornendo alla Corte una ragione per equiparare il trattamento
sanzionatorio del licenziamento senza motivazione a quello intimato in
forma orale.
Il complesso delle norme indicate soffre dunque del contrasto con il
cosiddetto principio di eguaglianza. In realtà, la disciplina del lavoro
quale emerge dal jobs act segna il definitivo tramonto del principio di
eguaglianza in tutti i significati intesi dall'art. 3 della
Costituzione. L'uso della locuzione "a tutele crescenti" nasconde in
realtà la "disarticolazione delle tutele rimanenti", già ampiamente
falcidiate dalla Legge Fornero. La disciplina ha infatti come primo
obiettivo quello di togliere ogni contrasto o tampone al libero
dispiegarsi del maggiore potere economico di sfruttamento e
sopraffazione datoriale all'interno del rapporto di lavoro. Si rende non
solo ogni licenziamento più facile, riducendo quest'ultimo un mero
costo economico. L'inversione dell'onere della prova posto a carico del
lavoratore lo rende privo di reale potere processuale, di conseguenza
sempre ed in ogni momento ricattabile, soprattutto nelle fasi iniziali
del rapporto, allorchè la sua espulsione dall'attività produttiva "costa
poco".
Una situazione di tal fatta appare completamente in contrasto con
quell'alto compito che veniva individuato nel secondo comma
dell'articolo 3 della carta del 1948: "E` compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."
Il Jobs Act è un vero percorso opposto al compito richiesto dalla norma
sull'eguaglianza sostanziale: il potere di abuso economico del datore di
lavoro è oggi vicino alla libertà naturale del mercato, quella in cui
conta il più forte e al suo sopruso la legge è in sostanza compiacente.
Del resto, questo è il tipo di eguaglianza meramente formale che piace
alla tecnocrazia europea. L'eguaglianza sancita negli articoli 20 e 21
della Carta di Nizza è infatti ben diversa dal nostro articolo 3 della
Costituzione: l'articolo 20 si limita a dire che "Tutte le persone
sono uguali davanti alla legge" l'articolo 21, al posto del principio di
eguaglianza sostanziale, prevede un generico principio di Non
discriminazione" 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione
fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o
l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la
religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. 2.
Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità
europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi
discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni
particolari contenute nei trattati stessi." Tutto qui. Nell'ambito
dei diritti fondamentali dell'UE non ci si premura di rimuovere nessun
ostacolo sostanziale alle disparità sociali. Lì hanno già tolto il
"radar" alle classi lavoratrici, così come ogni altro mezzo per
avvertire il pericolo e combatterlo. Il Jobs Act regala al datore di
lavoro il potere di sparare su soggetti disarmati. Combatterlo e
bloccarlo in ogni modo è dovere primo per la sanità e l'incolumità di
ogni lavoratore.
Enzo Pellegrin
Fronte Unitario dei Lavoratori
Scudo Legale Popolare
_________________
Note:
(1) Art. 1 comma 1: "Per i lavoratori che rivestono la qualifica di
operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento
illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente
decreto."
(2) Il licenziamento
illegittimo, ossia privo di giusta causa o giustificato motivo, prima
della "riforma Fornero" (attuata con la l. 92/2012), era disciplinato
dalla legge 108/90 o dall'art.18 della Legge 300/1970 (Statuto dei
lavoratori), o dalla Legge 108/90, ciò a seconda delle dimensioni
occupazionali del padrone. L' art. 18 dello Statuto dei lavoratori si
applicava : a) Ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti nell'unità
produttiva (o più di 5 dipendenti se impresa agricola); b) ai datori di
lavoro con più di 15 dipendenti nel territorio comunale (o più di 5 se
impresa agricola) a prescindere dal numero dei dipendenti nelle singole
unità produttive e anche se le singole unità produttive non raggiungano
la dimensione dei 15 dipendenti; c) ai datori di lavoro con più di 60
dipendenti in ambito nazionale a prescindere al numero dei dipendenti
nelle singole unità produttive. Con l' originario art. 18 del 1970 si
introdusse la c.d. tutela reale: nei casi in cui il Giudice del Lavoro
avesse riconosciuto l'illegittimità del licenziamento,
la sentenza avrebbe dovuto ordinare all'imprenditore non solo di
reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro, ma anche di
risarcirlo corrispondendogli tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento
sino al giorno della effettiva reintegrazione al lavoro, compreso il
versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali (in ogni caso
il risarcimento non poteva essere inferiore a 5 mensilità di
retribuzione). La sentenza che accertava l' illegittimità del licenziamento,
nell'ipotesi in cui il datore di lavoro avesse in seguito disobbedito
all' ordine di reintegra, era comunque produttiva di effetti sul piano
retributivo-contributivo del lavoratore, garantendo in ogni caso l'
obbligo del padrone di versare e pagare al lavoratore le retribuzioni
successive alla sentenza, nonché i relativi contributi, oltre al
risarcimento del danno per come sopra visto. La l. 108/90 si applicava
invece alle ipotesi di illegittimo licenziamento
nel caso in cui le aziende non avessero posseduto la dimensione
occupazionale per l'applicazione dell'art. 18, vale a dire: a) le
aziende che non raggiungevano i 15 dipendenti, o 6 se impresa agricola,
in ambito comunale; b) né raggiungevano i 60 dipendenti in ambito
nazionale. In questi casi l'imprenditorecolpevole di licenziamento
illegittimo poteva scegliere fra la riassunzione del lavoratore o la
corresponsione di un risarcimento del danno: non era mai obbligato alla
reintegrazione (c.d. tutela obbligatoria)
(3) Art. 1 comma 2: "Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza
di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente
all'entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito
occupazionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge
20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento dei lavoratori, anche se
assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni
del presente decreto."
(4) Art. 2 – Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.
Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del
licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri
casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di
lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente
addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro
si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio
entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in
cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente
articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al
licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il
datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il
licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l'inefficacia,
stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione
globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello
dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni
caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque
mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è
condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali.
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al
comma 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di
lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro,
un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale
di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di
lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La
richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni
dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del
datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta
comunicazione.
(5) Art. 3 – Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.
Salvo quanto disposto dal comma 2 del presente articolo, nei casi in cui
risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o
giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla
data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo
pari a due mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni
anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non
superiore a ventiquattro mensilità.
(6) La giusta causa è un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire anche in via provvisoria la prosecuzione del rapporto di lavoro (art. 2119 c.c.: le parti possono recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di preavviso
qualora si verifichi appunto una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo). La
giurisprudenza di legittimità ha specificato che la giusta causa si
sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra
sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare
l'interesse del datore di lavoro
(Cass. 24/7/03, n. 11516), al quale non può pertanto essere imposto
l'utilizzo del lavoratore in un'altra posizione (Cass. 19/1/1989, n.
244). Rappresenta nei fatti il licenziamento disciplinare per eccellenza; tale da troncare immediatamente il rapporto di lavoro senza neppure erogazione dell'indennità di preavviso. Dovrà essere necessariamente preceduta dall'attivazione dell'obbligatorio procedimento disciplinare ed in particolare dalla preventiva comunicazione delle "contestazioni di addebito" I contratti collettivi elencano normalmente le ipotesi ed i fatti ritenuti tali da costituire giusta causa di licenziamento.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO)
è rappresentato da ragioni inerenti l'organizzazione del lavoro
dell'impresa: vi rientrano la crisi dell'impresa, la cessazione
dell'attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni
cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile
il suo "ripescaggio", ovvero la ricollocazione del medesimo in altre
mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di
inquadramento. Con la riforma del 2012,
vengono inoltre ricondotte all'area del licenziamento per motivi
oggettivi i casi di licenziamento per superamento del periodo di
comporto e del licenziamento per inidoneità fisica o psichica del
lavoratore, ipotesi sulle quali la giurisprudenza non è sempre stata
unanime.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo
avviene quando il lavoratore abbia posto in atto comportamenti
disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Anche il giustificato motivo soggettivo pertanto rientra nell'ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare,
costituendo pur sempre una sanzione a comportamenti ritenuti tali da
incidere in modo insanabile nel regolare proseguimento del rapporto di lavoro.
Vengono fatte rientrare nell'ambito del giustificato motivo soggettivo
anche le figure dello scarso rendimento e/o del comportamento negligente
del dipendente. Trattandosi comunque di valutazioni sul comportamento
del dipendente, anche nelle ipotesi di "scarso rendimento", costituisce
condizione di legittimità del recesso la preventiva contestazione degli
addebiti con diritto del dipendente a svolgere adeguatamente le proprie
difese.
(7) Art. 3 comma 2: "Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per
giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni
valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla
il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione,
dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre
attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando
una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lett.
c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. In ogni caso la
misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla
pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è
condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva
reintegrazione. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui
all'articolo 2, comma 3.
La disciplina di cui al comma 2 trova applicazione anche nelle ipotesi
in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo
consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai
sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo
1999, n. 68. "
(8) L'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti
individuali pone testualmente a carico del datore di lavoro l'onere di
provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo
dell'atto di recesso, non deflettendo dalla regola generale dell'art.
2697 c.c., in quanto, come ha posto in chiaro la dottrina
giuslavoristica, onerare il datore della prova della sussistenza dei
requisiti per far luogo a licenziamento – ex art. 5 l. 604/1966 –, non
equivale ad invertire l'onus probandi, ma semplicemente a richiedergli
l'allegazione, in piena coerenza con l'art. 2697 c.c., del fatto
costitutivo della fattispecie genetica della facoltà di licenziare,
ovvero, del fatto impeditivo dell'azione di annullamento del recesso
intrapresa dal lavoratore (Grandi – Pera, Commentario breve alle leggi
sul lavoro, comm. all'art. 5 l. 604/1966, Padova, 2001, 965, Centofanti,
La Cassazione e i licenziamenti disciplinari, in Giur. it., 1977, I, 1,
Pera, loco ult. cit., Napoli, La stabilità reale nel rapporto di
lavoro, Milano, 1979, 181; contra, sul punto, la datata e superata Pret.
Milano, 28 ottobre 1981).
A riprova, la giurisprudenza ha ravvisato nell'art. 5 l. 604/1966
l'applicazione della regola generale, con l'asserire: «Nel caso in cui,
impugnando un licenziamento, il lavoratore intenda ottenere
l'adempimento in forma specifica del contratto, formulando la domanda di
reintegrazione nel posto di lavoro, causa petendi è l'inesistenza in
capo al datore di lavoro del potere di determinare l'estinzione del
rapporto. Come dimostra anche il disposto dell'art. 5 l. n. 604/1966,
peraltro meramente ricognitivo dei principi generali, il lavoratore ha
soltanto l'onere di allegare e provare l'esistenza del rapporto di
lavoro e l'evento di un licenziamento con determinate modalità, mentre
spetta esclusivamente al datore di lavoro comprovare i fatti che
radicano nel suo patrimonio il potere di determinare l'estinzione del
rapporto» (Cass., sez. lav., 27 giugno 1994, n. 6172; conf., ex aliis,
id., 5 giugno 1996, n. 5221).
Ciò nonostante, la Cassazione, ha recentemente accostato il citato art. 5
all'art. 1218 c.c., come testimonia la lettura di Cass., sez. lav., 17
maggio 2002, n. 7227, in Foro it., 2002, I, 2345:
«Fatti costitutivi dell'azione d'impugnazione del licenziamento sono
esclusivamente l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato e la sua interruzione per effetto di un licenziamento.
Fatti impeditivi degli effetti giuridici che il lavoratore intende
conseguire sono la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato
motivo. La regola della ripartizione della prova, di cui all'art. 5 l.
n. 604 del 1966 non è altro che l'applicazione alla responsabilità del
datore di lavoro della regola generale dell'art. 1218 c.c. in tema di
onere della prova nella responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i
principi generali, la conseguenza del licenziamento illegittimo dovrebbe
essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla controparte (art.
1223 c.c.)» (in termini, id., 22 novembre 1999, n. 12926, in Foro it.,
2000, I, 74). Non si dimentichi, infatti che l'art. 1218 costituisce la
grundnorm civile d'inversione dell'onus probandi (Cass., 13 gennaio
2003, n. 298; idd., 30 maggio 2000, n. 7181; Cass., sez. lav., 22 maggio
2000, n. 6664; Cass., 15 ottobre 1999, n. 11629; idd., 9 ottobre 1997,
n. 9810, 16 febbraio 1994, n. 1500). G.VANCORE, Onere della prova nel licenziamento individuale - ex art. 5 l. 604/1966, http://www.diritto.it/docs/26565-onere-della-prova-nel-licenziamento-individuale-ex-art-5-l-604-1966,
(9) R.CALIPARI, Profili di incostituzionalità del Jobs Act, http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17295.asp
(10) Con la l. 92/2012 (riforma Fornero) si assiste ad una modifica
dell' art. 18, accanto alla tutela reale, viene prevista una tutela
indennitaria. I regimi sono i seguenti : a) tutela reintegratoria piena
(disciplinato dai primi tre commi dell' art. 18); b) tutela
reintegratoria attenuata (comma 4); c) tutela indennitaria forte (comma
5) che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) tutela indennitaria
limitata (comma 6) che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità. L' odierna
formulazione dell' art. 18 prevede una tutela reale piena, consistente
nella reintegrazione e nel risarcimento del danno per l'intero periodo
che va dal licenziamento
alla effettiva reintegra, per tutti i lavoratori, a prescindere dalle
dimensioni occupazionali del datore di lavoro,nei casi di licenziamento
discriminatorio, oppure allorquando lo stesso sia intimato in
concomitanza di matrimonio (immediatamente prima o entro un anno dal
matrimonio), oppure per la lavoratrice madre entro un anno dalla vita
del bambino, ovvero nelle ipotesi in cui il licenziamento
sia determinato da motivo illecito ex art. 1345 c.c., o altrimenti
nullo ex lege. Altro caso a cui si applica la tutela reale piena è
quello del licenziamento
intimato oralmente. In caso di tutela reale piena, oltre alla reintegra
è previsto anche un risarcimento che non può mai essere inferiore a 5
volte l' ultima retribuzione percepita dal dipendente al momento dell'
illegittimo licenziamento.
A differenza dell'antico doppio binario legato alle dimensioni
occupazionali, per la tutela reale piena non c'è più il limite dei 15
dipendenti e può essere applicata indipendentemente alle dimensioni
aziendali, ed estesa anche ai dirigenti, prima esclusi. Si è poi
innovato il quadro normativo afferente al licenziamento
disciplinare, intimato ai sensi dell' art. 7 dello Statuto dei
Lavoratori. Tale disposizione regola il procedimento per giungere all'
adozione di un provvedimento disciplinare, tale percorso consta di tre
fasi : a) la contestazione al lavoratore del fatto disciplinarmente
rilevante; b) l'esperimento, da parte del lavoratore, delle proprie
argomentazioni difensive; c) l' eventuale adozione del provvedimento di licenziamento. Per il licenziamento
disciplinare la nuova versione dell' art. 18 prevede che il giudice
possa disporre la reintegra nel posto di lavoro quando accerti l'
insussistenza del fatto contestato, oppure quando il fatto rientri tra
le condotte che, stando ai contratti collettivi o ai codici
disciplinari, sarebbero punibili con le sanzioni diverse dal licenziamento
(multa, ammonizione, sospensione). In questo caso, il giudice deve, a
norma di legge, disporre il reintegro del lavoratore con un risarcimento
previsto in misura minore rispetto a quello previsto dal primo comma
dell' art. 18, in quanto può consistere in massimo 12 mensilità,
detratto ciò che il lavoratore ha guadagnato nel periodo di
disoccupazione svolgendo un' altra occupazione trovata. In questa
ipotesi si parla di tutela reale attenuata in quanto il risarcimento
potrebbe essere inferiore rispetto a quello quantificabile con la tutela
reale piena, la quale invece non ha limite massimo e può arrivare anche
alla soglia delle 12 retribuzioni. Il vero elemento di novità è
rappresentato dal comma 5 del nuovo art. 18, il quale prevede che all' infuori delle ipotesi di cui al comma 4, cioè quando il fatto sussiste, il giudice pur se riscontri l' illegittimità del licenziamento
per insussistenza di giusta causa o giustificato motivo, può solamente
condannare il datore di lavoro al pagamento di un' indennità, ma senza
che si configuri alcun obbligo di reintegra. Dunque la linea di
demarcazione tra l' applicazione del comma 4, dunque la reintegra, e
quella del comma 5, ossia la mera tutela indennitaria, è rappresentata
dall' insussistenza o meno del fatto, concetto che il legislatore non
definisce con sufficiente tassatività e tipicità, con ampie e perniciosi
varchi interpretativi.
Fonte: Resistenze.org
principio di eguaglianza?? E quando mai è esistito nel mondo del lavoro ancor prima della legge Biagi? Ma sì, facciamo finta che il Job act distrugga chissà quali tutele. La Cig? Era soltanto per alcuni, per i lavoratori in az sotto i 15 dip non è mai stato un diritto, così fu sancito dai paladini dell'eguaglianza.
RispondiEliminaIl lavoro nobilita l'uomo, è detto alla maniera antifa, come scritto in Costituzione ma hanno solo parafrasato quanto recato sul cancello della foto che hai ripreso per l'art