La drammatica e apparentemente inarrestabile ascesa dell’Isis ha
riportato l’attenzione mediatica sul martoriato Iraq, caduto nel
dimenticatoio dopo il ritiro delle truppe americane. I mezzi di
informazione sono prodighi di informazioni nel descrivere le atrocità
del Califfato, ma reticenti nel raccontare chi siano i suoi membri e
quale sia la sua origine. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria (questo il
nome completo) non è una forza apparsa improvvisamente dal nulla, ma il
figlio diretto delle politiche dell’imperialismo americano in Medio
Oriente che ha le sue radici nel conflitto siriano e nel caos dell’Iraq
post-Saddam, ricorda Riccardo Maggioni, secondo cui per capire meglio
qual è il ruolo dell’Isis occorre fare un salto indietro di almeno
trent’anni, dal momento che l’islamismo politico «è l’alleato oggettivo
dell’imperialismo americano nel Medio Oriente» a partire dai lontani
anni ‘80, quand’era il pretesto perfetto per consentire agli Usa di intervenire per aiutare i “buoni” e punire i “cattivi”.
Negli anni ’80, durante la guerra fredda, l’Islam conservatore era l’alleato degli Usa nel contenere la diffusione del comunismo e dell’influenza dell’Urss nel mondo arabo, scrive Maggioni in un post ripreso da “Informare per Resistere”. Sotto la presidenza Reagan, gli Usa
«armarono e addestrarono i Talebani in Afghanistan» per rovesciare la
repubblica popolare afghana e contrastare il successivo intervento
sovietico. «Al-Qaeda nasce qui, con i soldi e il supporto americano,
tanto che lo stesso Bin Laden (ricordiamolo: proveniente da una famiglia
di affaristi sauditi in stretti rapporti con gli Usa)
combatteva in Afghanistan e veniva intervistato da quotidiani
occidentali come “The Indipendent” i quali lo definivano “freedom
fighter”». I Talebani, aggiunge Maggioni, «vennero addirittura
glorificati in film come “Rambo 3”», mentre «vari leader islamisti
afghani furono ricevuti alla Casa Bianca da Reagan, che li definì
“leader con gli stessi valori dei Padri Fondatori”».
La medesima strategia è proseguita negli anni novanta con Clinton,
«che poté intervenire in Jugoslavia al fianco dei narcotrafficanti
dell’Uck in Kosovo spacciati come difensori del proprio popolo da non
meglio precisati genocidi». Con Bush la strategia cambia: complice l’11
Settembre, gli amici di ieri diventano i nemici di oggi. Scatta così una
campagna propagandistica mondiale, secondo cui l’Islam ha dichiarato guerra alla civiltà occidentale e ci sono arabi dietro ogni angolo pronti a farsi esplodere. «Con questa scusa parte la cosiddetta “guerra al terrore”, grazie alla quale vengono eliminati gli ex-alleati Talebani ora sfuggiti al controllo e si invade l’Iraq». Una guerra
«totalmente priva di senso anche per la logica di Bush», in teoria,
considerato che il governo di Saddam Hussein «apparteneva alla corrente
del baathismo laico e di tutto poteva essere tacciato tranne che di
islamismo».
Con Obama la strategia cambia ancora: non esiste più la minaccia
islamica, ma gli Stati Uniti devono intervenire per difendere i giovani
della “primavera araba” in lotta contro i “dittatori”, «termine
indicante tutti i capi di Stato non graditi all’America». E Bin Laden,
«tenuto in vita come spauracchio durante l’epoca Bush», viene «fatto
fuori in un lampo, ovviamente prima che possa parlare dei suoi passati
legami con gli Usa».
Gli islamisti di oggi sono nuovamente alleati dell’America. E tutti i
peggiori integralisti, dal Fronte Al-Nusra siriano ai Fratelli
Musulmani, vengono trasformati dai media
in giovani nonviolenti, in lotta contro la dittatura. «Con questa
scusa, Obama arma delle milizie islamiste in Libia e interviene in loro
supporto per eliminare
Gheddafi: ora la Libia è un inferno a cielo aperto in preda a gang
islamiche, mentre gli americani ne saccheggiano il petrolio».
Il copione viene replicato in Siria, dove gli Usa
appoggiano «animali assetati di sangue come Al-Nusra e il famigerato
Isis», presentati però sempre come «studenti che manifestano per i
diritti umani». Fallito l’assalto al regime di Assad, però, i “bravi
ragazzi” tornano utili ugualmente, sotto forma di “cattivi ragazzi”.
Vengono infatti presentati come terroristi: la vecchia propaganda sulla
“minaccia islamista” viene riciclata da Obama per giustificare l’inizio
di operazioni militari in Iraq. «La situazione fa quasi sorridere –
sottolinea Maggioni – considerando che l’Isis sostanzialmente sono i
ribelli siriani presentati come sinceri democratici e a fianco dei quali
meno di un anno fa lo stesso Obama voleva intervenire militarmente. Le
stesse persone, al variare degli interessi
in gioco, passano da combattenti per la libertà a sanguinari
terroristi, a seconda che si trovino ad ovest o ad est del confine tra
Siria e Iraq».
L’Isis? E’ un gruppo integralista sunnita, che si propone l’obiettivo
di creare uno Stato islamico, il Califfato, che comprenda i territori
di Siria e Iran per portare avanti la jihad contro lo sciitismo. Il
terreno fertile per la sua espansione è stato creato dall’intervento
militare americano in Iraq del 2003, continua Maggioni: il rovesciamento
di Saddam ha causato la caduta di uno dei pochi Stati laici della
regione e fatto saltare il delicato equilibrio interno tra la
maggioranza sciita e la minoranza sunnita. Nel caos e nell’anarchia
seguenti, l’islamismo politico è potuto tornare a operare alla luce del
sole, con spazi di manovra di cui prima era privo. «I gruppi islamisti
sono riusciti in breve tempo a raccogliere un ampio consenso all’interno
delle minoranze etniche sunnite», in un Iraq a maggioranza sciita: «Il
che ha portato,
dalla caduta di Saddam in poi, all’affermazione di governi guidati da
forze politiche sciite, quale quello del presidente Al-Maliki».
A partire dal 2011, questo quadro si è incrociato con lo scenario della guerra
civile siriana, con in primo piano le infami milizie dell’Isis, un
“mostro” «che cresce e si sviluppa grazie al supporto economico,
diplomatico e militare di Washington», espandendosi a macchia d’olio in
Iraq, «dove si guadagna un consistente supporto tra la popolazione
sunnita e inizia una guerriglia contro il governo del presidente
Al-Maliki». L’Isis, insiste Maggioni, è funzionale agli interessi
americani anche in Iraq: dopo la caduta del sunnita Saddam, il paese si
è avvicinato ai correligionari dell’Iran e di conseguenza anche alla
Siria, alleato storico di Teheran, «creando negli Usa
il timore di perdere la propria influenza sul paese». Basta osservare
una cartina geografica per capire che si verrebbe a creare in questo
modo un asse sciita filo-iraniano che si estenderebbe con continuità
territoriale nel cuore del Medio Oriente, da Teheran fino agli Hezbollah
libanesi alle porte di Israele. «Questo scenario è ovviamente
inaccettabile per la Casa Bianca».
Avendo come obiettivo della sua “guerra santa” l’Iran e gli sciiti, l’Isis fa dunque il gioco degli Usa.
E Washington, prosegue Maggioni, vorrebbe rendere controllabile l’Iraq
balcanizzandolo in tre aree (sunnita, sciita e curda), come apertamente
auspicato dal vicepresidente americano Joe Biden. «Per questo l’Isis è
stato lasciato agire fino a mettere alle strette il governo di
Al-Maliki». Con la scusa dell’avanzata del Califfato, gli americani
hanno potuto rientrare militarmente in Iraq, rimettendo in equilibrio il
governo di Baghdad e lo “Stato Islamico”. «Un intervento volutamente
tardivo, che se ne ha fermato l’avanzata ha permesso al Califfato di
consolidare le posizioni già conquistate». Poi, approfittando del
drammatico genocidio delle minoranze da parte del Califfato, gli Usa
hanno cominciato a rifornire di armi i curdi Peshmerga, alleati degli
americani durante l’invasione del 2003 e animati da intenti
secessionisti. «La scelta di bypassare il governo iracheno e fornire
armi direttamente ai curdi non è casuale, ma ha lo scopo di creare nella
regione una forza armata filoamericana e separatista nei confronti di Baghdad, indebolendo ancora di più la posizione del governo centrale iracheno».
Il risultato di tutto ciò, conclude Maggioni, è un Iraq
sostanzialmente diviso in tre parti: una frazione sciita, debole e alla
mercé degli aiuti militari americani, una regione curda che vada a
costituire una sorta di “gendarme” americano locale, e poi il Califfato
islamico, «formalmente avversato da Washington ma in realtà tollerato»,
dal momento che «continua la sua guerra regionale contro due Stati sgraditi agli Usa»,
cioè Siria e Iran, «facendo il lavoro sporco al posto degli americani».
I “bravi ragazzi” dell’Isis potranno funzionare da alibi per consentire
agli Usa
di intervenire militarmente anche in Siria, dove un anno fa furono
fermati dall’opposizione russo-cinese. Intanto, per bocca del proprio
leader, il califfo Al-Baghdadi, l’Isis ha già indicato la Cina come
“Stato nemico dell’Islam”, promettendo in un prossimo futuro
di fornire aiuto ai gruppi islamisti Uighuri dello Xinjiang.
«Casualmente – chiosa Maggioni – il principale avversario geopolitico
degli Usa
rientra tra gli obiettivi degli islamisti», che tra parentesi «durante
tutto il periodo dei bombardamenti a Gaza non hanno detto una sola
parola contro Israele». Miracoli della geopolitica, sotto il regno di
“Barack Osama”.
Fonte: LibreIdee
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