Ormai è un tormentone noioso quanto inutile: “Dobbiamo farlo per l’Europa”, “Ora andiamo avanti sulla via dell’unità europea”, “E’ il momento di rilanciare l’unità d’Europa”…
Ricorrentemente, un gruppo di “europeisti di professione” (Giuliano
Amato, Mario Monti, Romano Prodi, etc) si esercitano nel solito
esercizio retorico sul tema dell’unità politica
europea che giustifica tutti i sacrifici di una austerità priva di
senso e di prospettive. E’ un mantra buono per tutte le stagioni ed ora
ci si esercita Massimo D’Alema (“Il Sole 24 Ore”, 4 settembre). Ma
questi piccoli azzeccagarbugli abusivamente assurti al ruolo di
“statisti” (udite udite!) non fanno i conti con una piccola verità:
quello che vegliano amorevolmente non è un ammalato grave e neppure un
corpo in coma irreversibile, ma un cadavere ormai in stato di
decomposizione. Il disegno europeo è morto e non c’è più niente da fare.
Continuare con questa stucchevole litania serve solo a mantenere la
costosa, vuota e barocca eurocrazia (Ue, Bce, Commissione Europea,
Parlamento di Strasburgo, Consiglio) la cui ultima esilarante invenzione
è quel
tale signor “Pesc” di cui non abbiamo più notizia alcuna. Il progetto
europeo, soprattutto quello federalista, fu una grande idea molto
seducente. Ma fu impostata molto male sin dall’inizio: troppo affidata
alle élite diplomatiche, finanziarie, militari e politiche. Un progetto
freddissimo che non è mai diventato carne e sangue dei popoli europei,
sempre rimasti estranei anche psicologicamente a questa costruzione
astratta e senza anima. I progetti politici, soprattutto quando aspirano
alla grandezza dei grandi passaggi storici, non possono essere basati
solo su freddi calcoli di ingegneria istituzionale.
Costruire l’Europa avrebbe richiesto creare, prima di tutto, un’opinione politica
europea, quel che avrebbe richiesto, con la dovuta gradualità,
affrontare e risolvere il problema linguistico, perché non esiste
nessuna opinione pubblica comune se ciascuno continua a parlare la sua
lingua. Al massimo questa si concreta in un ristrettissimo bacino di
classi colte, abituate a leggere la stampa in più lingue, a viaggiare, a
frequentare incontri plurilingui. Roba che riguarda meno dell’ 1% della
popolazione. Ma si preferì non affrontare il tema, più che altro per
non darla vinta alla Francia che, in quel momento, poteva candidare il
suo come idioma comune. Né si pensarono soluzioni che andassero al di là
di una lingua nazionale. E la fragilità del progetto senza vita dell’Europa delle cancellerie si manifestò assai presto con il naufragio del progetto della Comunità Europea di Difesa (1954).
Il progetto dell’unità politica
ne venne seriamente scosso e la via scelta fu quella di aggirare il
problema, puntando tutto sulla costruzione dell’unità economica del
continente. Fu la linea di Jean Monnet che prometteva l’unità politica
come prodotto dell’integrazione economico-finanziaria. Nei decenni a
venire, l’unità economica fece effettivamente passi in avanti, ma
parallelamente l’unità politica
ne faceva indietro. Le burocrazie politiche nazionali non avevano
alcuna intenzione di rinunciare al proprio ruolo ed il tema dell’unità politica
era continuamente spostato in avanti mentre, nello stesso tempo, tutte
le classi dirigenti nazionali facevano a gara a chi era più
filo-americano. E gli americani volevano una Europa unita economicamente, come proprio principale mercato di sbocco, ma assolutamente non gradivano alcuna sua unità politica, per timore che questo rompesse l’equilibrio bipolare.
La sconfitta definitiva dell’unità politica non è di oggi o di dieci anni fa, ma risale al 1965, quando la Francia restò isolata nella sua battaglia sul superamento del dollar standard
e sulle ingerenze americane ed uscì da sola dalla Nato (pur restando
nell’Alleanza atlantica). Il ceto politico europeo era ormai totalmente
asservito agli Usa,
dal cui cono d’ombra non si sognava di uscire. La prova definitiva del
loro nullismo politico venne un quarto di secolo dopo, quando crollò
l’Urss e, con essa, la ragione stessa di esistenza della Nato: la scelta
degli europei fu quella di confermare la partnership euro-americana,
anzi allargarla ai paesi dell’Est europeo. L’Europa rinunciava a qualsiasi ruolo autonomo, accontentandosi di un modesto ruolo caudatario dell’Impero americano.
In nessuna delle grandi crisi internazionali avvenute dopo il crollo del muro di Berlino (I° Guerra del Golfo, Somalia, Kossovo, Afghanistan, II° guerra
del Golfo e successiva occupazione dell’Irak, primavera araba, Mali,
etc) i paesi europei hanno avuto una posizione univoca ed in nessuna
hanno parlato con la voce della Ue. Soprattutto, è andato squagliandosi
l’asse portante della costruzione: l’intesa franco-tedesca. L’entusiasmo
per l’euro è stata l’ultima stagione “felice” del progetto
euro-tecnocratico. L’idea della moneta senza Stato era una balordaggine
sin dall’inizio, ma ebbe qualche fortuna iniziale, soprattutto per il
clima di euforia dei primi del secolo e per effetto delle guerre di Bush che, deprimendo il dollaro, consentirono all’euro di galleggiare.
Poi è arrivata la crisi che ha tolto tutti i veli: la Ue è stata incapace di una gestione comune della crisi; soprattutto in riferimento al debito pubblico, ancora una volta non ha avuto alcuna voce comune in nessuno dei G20, G8 e G-quel che vi pare,
succedutisi dal 2008 in poi. Ed, anzi, la Germania (tratti tutti i
vantaggi politici ed economici che poteva avere dall’Unione Europea) ha
iniziato a chiedersi se valga la pena di insistere o andarsene, libera
di navigare per i mari del mondo globale. Il progetto europeo è finito
ed invocarlo serve solo come alibi alle politiche rigoriste il cui unico
scopo è garantire i creditori, anche a costo di strangolare interi
popoli. Il tardo europeismo è diventato il rifugio degli europeisti
tardi. E allora, cari eurofili, fateci un segnalato piacere: smettetela
di romperci le scatole con questo asfissiante ritornello di una unità politica in cui nessuno crede più.
Fonte: http://www.libreidee.org/
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