25 settembre 2009

LA PRIVATIZZAZIONE DEL MARE


di Gustavo Duch

Prima della creazione della Organizzazione Mondiale del Commercio o dei trattati sul libero commercio, già si contava su uno strumento fantastico per arricchirsi alle spalle delle risorse naturali e dei beni di uso pubblico dei paesi del Sud: le mono coltivazioni. Con esse si poteva estrarre il massimo profitto economico tanto dagli ecosistemi come dai lavoratori locali. Questa è stata la strada per il dominio e la dipendenza durante l’epoca coloniale. Lì ci sono i cicli dorati- e le sue rispettive cadute strepitose- della canna da zucchero, il caffè o il caucciù, sommati adesso a milioni di ettari destinati alla coltivazione della palma di olio o di soia.

Ma tra le mono coltivazioni industriali emergenti, figlie del nuovo colonialismo del mercato, ne esiste uno a base di pesce carnivoro introdotto nelle acque incontaminate del sud del pianeta: la monocoltura intensiva di salmoni nel sud del Cile, la cui produzione nel 98% ha come destinazione i mercati del Giappone, Stati Uniti e UE. Questa industria è cresciuta fino a raggiungere i 2.400 milioni di dollari nel 2008, portando il Cile ad essere il secondo produttore dopo la Norvegia. Però, in meno di due anni, l’ipotetico miracolo del salmone ha mostrato tutta la sua fragilità. Più di 17.000 lavoratori sono stati licenziati, solo il 20% dei 550 centri di coltivazione continuano ad essere operativi, le produzioni sono calate di un 60% e l' industria accumula un debito con le banche che supera i 1.600 milioni di dollari. Cosa ha fatto fallire questo miraggio del falso sviluppo? Qualcosa di sottile come il virus dell' Anemia Infettiva del Salmone.

Con una presenza significativa delle multinazionali norvegesi, giapponesi e spagnole (Pescanova), i pregiati e sconosciuti fiordi, baie e canali interni tra l’arcipelago di Chiloè e la Patagonia cilena si trovano attestati di gabbie circolari di 30 metri per 60 di profondità dove si ingrassano i salmoni. Un sistema di monocoltura intensiva, con alti costi ecologici e sociali, esternalizzati, e miliardi di dollari di profitti privati. Come dice il mio amico e collega veterinario Juan Carlos Cardenas, direttore della ONG Ecoceani, “nel sud del Cile le multinazionali del salmone fanno tutto quello che non gli è concesso nei loro paesi”. Cardenas spiega che il Cile rappresenta per l’industria del salmone straordinari vantaggi comparati al nord Europa. Sia negli aspetti ambientali, come nelle politiche governative d’incentivi all’investimento estero. Questo, assicura l’accesso a fonti di farina e olio di pesce, mano d’opera a basso costo, sussidi ed una legislazione ambientale e sanitaria abbastanza debole. Crescere salmoni come se stesero in barattoli di sardine è l’equivalente a porcili flottanti o l’allevamento industrializzato di galline.

Si trovano così insaccati che, per le stesse fonti del servizio Nazionale della Pesca, rispetto alla produzione di salmoni prodotti in Norvegia l’industria ha usato 600 volte in più antibiotici per tonnellata. Preoccupano anche i salmoni, che impauriti per il loro futuro, riescono a fuggire dalle loro prigioni minacciando la sopravvivenza di varie specie autoctone di pesci e, quindi, la pesca artigianale. Pesca che, dall’altra parte, si è ridotta molto, dato che per alimentare i salmoni a domicilio si usano tracuri, acciughe e sardine. Per produrre un chilo di salmone in confinamento si necessita tra cinque e otto chili di queste specie di pesci silvestri abituali nella dieta umana. Un disastro a livello energetico, un disastro per migliaia di pescatori su piccola scala. Se state pensando che loro almeno potranno pescare i salmoni fuggiti, vi sbagliate. Nel sud del Cile è proibito pescare e vendere i salmoni che si trovano nel mare, perché continuano ad essere proprietà delle multinazionali di salmone prima citate.
Salmoni con codice a barre?

Perché il piatto di salmone costi così poco lo stesso sarà costato il personale che lavora in mare e nelle piante di lavoro. Raul Zibechi, dell' organizzazione Programa de las Américas, scrive sulle cattive condizioni di lavoro delle 50.000 persone impiegate nel settore: “Due terzi delle aziende del salmone violano la legislazione lavorativa. Le donne, che costituiscono il 70% dei lavoratori del settore e l’80% in pianta stabile, soffrono il freddo, l’umidità, il sovraffollamento e ostacoli per andare in bagno”. Dicevo che la mono coltivazione del salmone è molto significativa, perché, con qualche anno d’anticipo, sta attraversando delle fasi che adesso ci sembrano di routine. Nel 2007, prima della crisi finanziaria mondiale, è arrivata la crisi al settore per l’entrata del virus nei centri di produzione e poco dopo il governo cileno si è lanciato nel riscatto dell’industria del salmone attraverso due vie: la consegna senza condizioni di una linea di credito e una polemica modifica della Legge di Pesca e Acquicoltura per permettere la cessione perpetua dei diritti sul litorale alle compagnie dei salmoni ( incluse le multinazionali), permettendo che le compagnie debitrici potessero ipotecare con la banca creditizia le concessioni di acquicoltura. Cioè, beni nazionali di uso pubblico con i quali le banche potranno speculare, comprare e vendere. Le banche principali creditizi sono la BBVA, Rabobank e Itaù. In altre parole, si privatizza una risorsa pubblica, si privatizza il mare. Un' altra monocoltivazione in rapido declino.

Gustavo Duch è ex direttore di Veterinari Senza Frontiere e collaboratore dell’Università Rurale Paulo Freire.

Fonte: http://blogs.publico.es/dominiopublico/1552/la-privatizacion-del-mar/

Tradotto per Voci Dalla Strada da Vanesa

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