9 maggio 2022

Mafia, 'ndrine, Gladio: tutti i punti oscuri del caso Moro

9 maggio 1978 - Alle 13.30 in via Caetani viene trovato il corpo del presidente Dc ucciso dalle Br

Ci sono due storie parallele che raccontano il delitto Moro. La prima è quella terribile ma rassicurante contenuta nelle versioni ufficiali e nei racconti dei brigatisti che hanno sequestrato e ucciso il presidente della Dc. La seconda è una infinita, interminabile, rizomatica proliferazione di piste, complotti, misteri, bugie, tradimenti, depistaggi, che parte da domande serie e dubbi inaggirabili, passa attraverso mille ricostruzioni giudiziarie, parlamentari, storiche e giornalistiche, e arriva fino ai bordi estremi del terrapiattismo e della paranoia.

Sono passati 44 anni da quel fatale 9 maggio 1978 in cui il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato in via Caetani a Roma. La storia semplice è quella di un’organizzazione comunista armata, le Brigate rosse, che realizza in proprio, con “geometrica potenza”, un’operazione militare che cambia la politica e la storia d’Italia. Chi doveva proteggere Moro e trovare i suoi rapitori sembra restare attonito e imponente, riesce solo a ordinare centinaia di (inutili) posti di blocco e perquisizioni a tappeto eseguite in tutto il Paese, o poco di più. Di certo c’è che i due investigatori esperti di terrorismo che lo Stato aveva a disposizione in quel momento, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa e il prefetto Emilio Santillo, sono esclusi dalle indagini. Tutti i capi degli appartati investigativi e d’intelligence, in particolare sulla piazza di Roma, sono invece uomini poi risultati iscritti alla loggia P2. Di certo c’è che in questa storia troppe cose non tornano, troppe domande restano aperte.

A partire dall’agguato di via Fani del 16 marzo 1978, in cui vengono uccisi i cinque uomini della scorta. Quanti sono i brigatisti che partecipano all’azione? Quante sono le armi che sparano? Erano presenti altri uomini, non brigatisti? Leggende, per gli irriducibili del partito armato e del “sappiamo già tutto”. In una vecchia foto, all’angolo tra via Fani e via Stresa, è stato riconosciuto (chissà?) Antonio Nirta detto “Due nasi”, uomo della ’Ndrangheta e confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino. Ma le indagini su questa pista sono state chiuse con una archiviazione. Archiviata anche la presenza di Giustino De Vuono, calabrese, legionario, e di Camillo Guglielmi, colonnello del servizio segreto militare e istruttore di Gladio.

Uno dei fondatori delle Br, Alberto Franceschini, ricorda che per il sequestro Sossi, incomparabilmente più semplice di quello Moro, furono impiegati ben diciotto brigatisti. In via Fani invece solo nove, poi diventati dodici, forse quattordici. Sentite che cosa scrive uno che se ne intende: “L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il partito comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. È un fatto che si vuole che ciò non accada. Poiché è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè del leader dell’eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industrializzato. Ciò non è gradito agli americani. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a Palazzo Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare rappresenterebbe (…) la fine dello stesso sistema imperiale moscovita”. A scrivere queste parole non è oggi uno storico esperto di geopolitica, ma Mino Pecorelli, giornalista con ottime fonti nei servizi segreti, sulla sua rivista, Op, il 2 maggio 1978, sette giorni prima della morte del presidente della Dc.

Poi ci sono i dubbi sui luoghi dove Moro è stato tenuto prigioniero. Un solo “covo”, in via Montalcini 8, dicono i suoi carcerieri. Ma come sono spiegabili le tracce di “sabbia, catrame, parti di piante” provenienti dalle spiagge del litorale laziale trovate sui vestiti e sotto le scarpe del prigioniero? La mente del sequestro, Mario Moretti, abitava intanto in un appartamento in via Gradoli. Mai perquisito, malgrado qualche segnale arrivato anche dall’oltretomba. E malgrado i vicini di casa. Pensate: a Roma gli appartamenti sono circa un milione. Ebbene: Moretti pone la sua base proprio in via Gradoli, in una palazzina in cui ben 24 dei 66 miniappartamenti erano di proprietà di tre società dei servizi segreti (la Monte Valle Verde srl, la Caseroma srl e la Gradoli spa). L’amministratore unico della Caseroma srl, Domenico Catracchia, amministratore anche della palazzina e dal 1980 amministratore unico della immobiliare Gradoli spa, il 6 aprile 2022 è stato condannato a 4 anni per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini, nel processo sulla strage di Bologna. E il “covo-prigione” di via Montalcini? Era in una zona controllata dalla Banda della Magliana, aveva segnalato a suo tempo l’indimenticato storico dei servizi segreti Giuseppe De Lutiis. Uno dei capi della Magliana, Danilo Abbruciati, abitava in via Fuggetta 59, a 120 passi da via Montalcini; Danilo Sbarra e Francesco Picciotto, uomo di Pippo Calò, abitavano in via Domenico Luparelli 82, a 230 passi dal covo (50 se si tiene conto dell’ingresso secondario); in via di Vigna Due Torri 135 (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, compare di Calò. Inoltre, in via Montalcini 1, vi è villa Bonelli, di Danilo Sbarra, riciclatore di Pippo Calò.

Anche l’allora capo di Cosa nostra, Stefano Bontate, cercò di trovare una strada per salvare Moro, ma Pippo Calò, il suo rappresentante a Roma, a sua volta legato alla Banda della Magliana, gli disse: “Stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero”. Moro era meglio morto che vivo. Anche per gli americani e i sovietici: gli uni e gli altri non volevano il Pci nell’area di governo. Lo ha ammesso il consulente Usa Steve Pieczenik, componente del comitato di crisi voluto dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. E Walter Laqueur, direttore del Centro studi strategici internazionali di Washington, ha sostenuto che le Br ricevevano armi e denaro dai servizi cecoslovacchi, dietro cui si muoveva il Kgb. Ma questa resta ancora una storia tutta da scrivere. Abbiamo tante domande, poche risposte certe.

Tratto da:
 Il Fatto Quotidiano

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