5 dicembre 2017

La legge israeliana contro le capre palestinesi

Un divieto israeliano contro le greggi di capre nere – con il pretesto che causano danni all’ambiente – sta per essere revocato dopo quasi sette decenni di vigore che hanno decimato le tradizioni pastorizie delle comunità palestinesi.
Il governo israeliano pare aver finalmente ammesso che, in un’era di cambiamento climatico, la minaccia di incendi dei boschi alle comunità israeliane sta rapidamente crescendo in assenza delle capre.

Le capre tradizionalmente ripulivano il sottoboscodiventato una polveriera mentre gli israeliani sperimentano siccità estive sempre più lunghe e più calde. Esattamente un anno fa Israele è stato colpito da più di 1.500 incendi che hanno causato vasti danni.
La storia della docile capra nera, che è stata quasi eliminata da Israele, non è semplicemente una storia di conseguenze involontarie. Serve da parabola delle illusioni e dell’autodistruttività di un sionismo piegato a cancellare i palestinesi e a creare una fetta d’Europa nel Medio Oriente.
La legge del 1950 sulla Protezione delle Piante, una delle prime misure israeliane, fu introdotta come modo per mettere fuorilegge la capra nera, nota anche come capra siriana, da vaste aree del paese. Le capre erano state la linfa vitare delle comunità agricole beduine.

All’epoca dirigenti dichiararono che la capra stava danneggiando la vegetazione, specialmente milioni di alberelli di pino piantati perché diventassero boschi.

Gli alberi adempivano un’importante missione sionista, agli occhi dei padri fondatori di Israele. Erano là per nascondere le macerie di più di 530 villaggio palestinesi che il nuovo stato aveva assalito distruggendoli per impedire e per impedire il ritorno di circa 750.000 palestinesi che erano stati espulsi durante la guerra del 1948 che fondò Israele, quella che i palestinesi chiamano Nakba, termine arabo per ‘catastrofe’.

Vicino alle rovine dei villaggi Israele aveva fondato centinaia di comunità esclusivamente ebree come i kibbutz e moshav per coltivare le terre già di proprietà dei profughi palestinesi.

Sia il bando alle capre sia l’impianto di massa di pini europei hanno fatto parte dei tentativi del sionismo di spacciare la pulizia etnica dei palestinesi come “ambientalismo”, una presunta agenda verde che oggi è rivelata come impostura.




Impianto di boschi di pini

Gli ebrei di tutto il mondo sono stati incoraggiati a depositare monetine di “scatole blu” di beneficienza come donazione per aiutare il giovane stato a “riscattare la terra”.

In realtà il denaro è stato usato per piantare boschi di pini sui villaggi palestinesi rasi al suolo, rendendo impossibile ai profughi tornare a ricostruire le loro case.

In aggiunta il pino è stato utile perché a rapida crescita e sempreverde, velando di oscurità tutto l’anno la prova della pulizia etnica commessa nel corso della creazione di Israele. E i boschi hanno svolto un ruolo psicologico, trasformando il paesaggio in modi progettati per farlo apparire familiare ai recenti immigrati europei e per alleviare la loro nostalgia.

Infine gli aghi di pino caduti hanno acidificato il suolo, rendendo impossibile competere agli alberi indigeni. Tali specie native – tra cui olivo, agrumi, mandorle, noci, melagrane, ciliegie, carrube e more – erano una componente vitale della dieta delle comunità rurali palestinesi. La loro sostituzione con il pino era intesa a rendere ancor più difficile ai profughi palestinesi ricostruire le loro comunità.

Responsabile dell’impianto e della gestione di questi boschi è stato il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), un’organizzazione di beneficienza internazionalmente riconosciuta. Paradossalmente il suo sito in rete esalta la sua opera in Israele come “innovatori dello sviluppo ecologico e pionieri nella forestazione e nella prevenzione degli incendi”. Il JNF afferma di aver piantato circa 250 milioni di alberi in tutto Israele.

In un’indicazione del successo di Israele nello spacciare queste politiche di colonizzazione come ambientalismo, le Nazioni Unite elencano il JNF come competente in cambiamento climatico, attività forestali, gestione dell’acqua e insediamenti umani. L’ONU consente anche all’organizzazione di sponsorizzare comitati e seminari di conferenze dell’ONU in tutto il mondo.

A settembre il JNF ha partecipato alla Convenzione per Combattere la Desertificazione dell’ONU nella qualesegnalava, avrebbe “presentato le sue attività nel creare un mondo più verde”.




Agricoltori-guerrieri ebrei

La legge del 1950, nota anche come Legge sui Danni delle Capre, proseguiva le politiche israeliane di colonizzazione della terra, questa volta non contro i profughi palestinesi, bensì contro il piccolo numero di comunità palestinesi sopravvissute alla Nakba.  

Alla fine della guerra del 1948 circa 150.000 palestinesi erano ancora aggrappati alle loro comunità, principalmente nel nord, in Galilea, e a sud nel semideserto Negev, o Naqab. Nel 1952, sotto pressioni internazionali, a questi palestinesi fu concessa la cittadinanza.  

Molte delle comunità palestinesi sopravviventi conoscevano poco altro che l’agricoltura che i loro avi avevano praticato per generazioni nella regione. Ma il credo del sionismo – che il “lavoro ebreo” avrebbe consentito agli ebrei di “far fiorire il deserto” e di ricostruire sé stessi come agricoltori-guerrieri, “Sabras” – richiedeva che i palestinesi fossero cacciati dai terreni agricoli.

Si stima che circa il 70 per cento della terra appartenente alle comunità palestinesi in Israele sia stata requisita dallo stato e sia ora detenuta in amministrazione fiduciaria per gli ebrei di tutto il mondo. Privati della terra e dell’accesso ad acqua a basso costo per l’agricoltura, la maggioranza dei cittadini palestinesi sono stati costretti a diventare lavoratori occasionali, molti dei quali impiegati nella costruzione di siti nel centro del paese.

Ma un gruppo era considerato una minaccia particolare al nuovo ethos sionista, e specialmente difficile da trasformare in manodopera asservita. I beduini vivevano in località remote delle colline della Galilea e nelle piane polverose del Negev e il loro stile di vita pastorale, allevando pecore e capre, rendeva difficile per Israele controllarli.

‘Dunam dopo dunam’

Il rapporto tra la terra e le capre – e il ruolo centrale svolto da entrambe nel mantenere l’identità palestinese e nel rafforzare una tradizione di “sumud”, o risolutezza – fu identificato ben presto dal movimento sionista.

Uno dei suoi primi slogan, con riferimento all’unità ottomana di misurazione dei terreni, era “dunam dopo dunam, capra dopo capra”. L’obiettivo consisteva nel prendersi la Palestina un pezzo alla volta, tanto gradualmente e silenziosamente da far passare inosservata la cosa nel resto del mondo.

Dopo la Nakba, Israele passò a politiche aggressive di contenimento contro i beduini che non erano stati espulsi fuori da nuovi confini dello stato. Tali politiche si concentrarono sia sulle loro terre sia sulle loro greggi.

Nel 1965, l’anno prima della fine del governo militare sui cittadini palestinesi, una Legge sulla Pianificazione e le Costruzioni disconobbe quasi tutte le comunità beduine. Le loro case furono dichiarate illegali e furono loro negati tutti i servizi pubblici.

L’obiettivo di Israele era di rinchiudere i beduini in un pugno di “distretti” urbanizzati, costringendoli ad abbandonare l’agricoltura e a diventare lavoratori occasionali in un’economia ebraica, come altri cittadini palestinesi.

La Legge sulla Protezione delle Piante sferrò un colpo particolarmente duro contro i beduini. Le capre nere fornivano loro latte per uso personale e per la vendita e le pelli erano usate per tende e coperte.

Da ministro dell’agricoltura alla fine degli anni ’70 Ariel Sharon intensificò la campagna contro i beduini, e analogamente preferì mascherare le sue politiche da finto interesse per l’ecologia.

Nel suo caso c’era un investimento privato nel successo dello stato nel “giudaizzare” il Negev e liberarsi della maggior parte dei beduini: nel 1972 aveva acquisito una vasta fattoria in quei luoghi, estesa per quattro chilometri quadrati.

La terra era in precedenza appartenuta a profughi del villaggio palestinese distrutto di Houg, oggi imprigionati a Gaza. Il medico e autore palestinese Hatim Kanaaneh segnala che la sola struttura esistente del villaggio, la moschea, serviva da “scuderia per i cavalli arabi purosangue [di Sharon]”.



La Pattuglia Verde

Cinque anni dopo aver acquistato la fattoria Sicomoro, Sharon creò la “Pattuglia Verde”, un’unità paramilitare dell’Agenzia Israeliana della Natura e dei Parchi, i cui compiti comprendevano il sequestro e la macellazione di capre nere dei beduini.

L’attivista comunitaria palestinese Maha Qupty segnala che nei primi tre anni delle operazioni della Pattuglia Verde il numero delle capre nere fu tagliato del 60 per cento, da 220.000 a 80.000. Le pratiche della pattuglia erano così brutali che un osservatorio ufficiale, la Corte dei Conti, censurò l’unità nel suo rapporto del 1980.

Il numero delle capre in Israele è sceso ancora molto di più in anni recenti. Un articolo del giornale Haaretz ha scritto che nel 2013 c’erano solo 2.000 capre a pascolare nella vasta foresta del Carmelo e nelle sue vicinanze, vicino ad Haifa, rispetto alle 15.000 esistenti prima dell’istituzione della Pattuglia Verde.

Ed è stato sul crinale di quello stesso Carmelo che il pericolo costituito dalla forzata scomparsa delle capre è diventato per la prima volta evidente.

L’estesa foresta che abbraccia le pendici del Carmelo era stata piantata per forzare e celare l’espulsione di numerosi villaggi palestinesi. Ma nel 2010 la foresta è stata travolta da fiamme che alla fine hanno reclamato 44 vite. La maggior parte erano guardie in viaggio verso il carcere di Damun, dove sono detenuti prigionieri politici palestinesi fuori dai territori occupati, in violazione della legge internazionale.

L’incendio, che ha infuriato per quattro giorni, ha imposto l’evacuazione di 17.000 persone dalle loro case, comprese parti di Haifa.

Quell’incendio è stato un preludio di incendi molti più diffusi un anno fa, alla fine di una lunga estate secca. Sono stati riferiti circa 1.700 incendi in tutto Israele e nella West Bank, molti dei quali nei boschi che Israele aveva piantato sui villaggi distrutti. Haifa è stata di nuovo pesantemente danneggiata.

Ferite autoinflitte del sionismo

Negli scoppi di incendi forestali sia del 2010 sia del 2016 la polizia e dirigenti governativi hanno accusato cittadini palestinesi di esserne responsabili senza uno straccio di prove, e di incriminazioni, a sostegno di tali affermazioni.

Le accuse di incendi dolosi sono state un’utile elusione della realtà: che gli incendi erano un obiettivo sionista. Il pericolo posto dal piantare boschi di pini europei inadatti nelle condizioni aride del Medio Oriente era stato aggravato da estati più lunghe, con l’avvento del cambiamento climatico, e dalla distruzione delle capre nere. Esse ripulivano la vegetazione attorno agli alberi prevenendo la rapida diffusione degli incendi.

In effetti c’erano stati avvertimenti molto prima dell’avvento del significativo cambiamento climatico che questi boschi di pini erano a rischio d’incendio. Quasi vent’anni fa ho visitato un kibbutz ai margini del Carmelo dove c’era stato un incendio recente.

Nir Etzion si trova nelle terre agricole di Ayn Hawd, ed era un raro esempio di un villaggio palestinese sfuggito alla distruzione, nel suo caso per essere reinventato come colonia di artisti ebrei sotto un nome simile, Ein Hod.

Il personale di Nir Etzion mi raccontò una storia familiare e paradossale: che profughi palestinesi dell’interno, che vivevano nelle vicinanze, avevano appiccato l’incendio per cacciarli dal loro kibbutz. I kibbutznik trascuravano il fatto che gli stessi profughi erano posti in un pericolo molto più grave dall’incendio.

Come ho raccontato nel mio contributo a un libro di saggi, Catastrophe Rememberedgli esperti erano chiari anche allora circa il fatto che i boschi di pini europei sul Carmelo erano pericolosi nelle condizioni secche della regione.

‘Riparazione di un’ingiustizia storica’

Ma fino a questo mese i sogni del movimento sionista – di far sparire tutte le tracce di una Palestina esistita prima della creazione di Israele – si erano dimostrati molto più potenti del pericolo degli incendi boschivi.

Paradossalmente c’è voluto Jamal Zahalka, un membro palestinese del parlamento israeliano, per sottrarre i suoi colleghi alle loro illusioni e far loro prendere atto della realtà del cambiamento climatico.

Zahalka è la forza motrice dietro il tentativo di revocare la legge del 1950, giustificando la sua revoca con uno studio di una buona istituzione sionista, la Technion, la rinomata università tecnica di Israele. La sua ricerca ha confermato un sapere che era evidente a generazioni di contadini palestinesi: che le capre si nutrono di cespugli e arbusti secchi e in tal modo sopprimono il rischio di incendi.

Zahalka ha affermato che la revoca della legge del 1950 “ripristinerà l’onore perduto della capra” e “riparerà un’ingiustizia storica” a danno dei contadini palestinesi.

Zahalka si è conquistato il sostegno del ministro dell’agricoltura, Uri Ariel, e di Ayelet Shaked, il ministro della giustizia. Entrambi sono strettamente legati al movimento dei coloni e Ariel è un amministratore del JNF.

Ma di fronte alle prove scientifiche e alla minaccia di altri incendi Ariel ha fatto marcia indietro. “Le capre sono un fattore importante di prevenzione degli incendi e noi vogliamo incoraggiare l’atto di pascolare”, dice ora.

Purtroppo ci sono voluti al governo israeliano quasi settant’anni per invertire la sua politica di distruzione della capra nera, una politica che ha intenzionalmente cercato di affondare l’agricoltura palestinese e con essa le comunità, l’eredità culturale e l’identità palestinese. 
Per concessione di ZnetItaly
Fonte: http://mondoweiss.net/2017/12/israels-palestinian-inflicted/
Data dell'articolo originale: 01/12/2017
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=22197 

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