9 dicembre 2017

Ecco su che cosa verte realmente la lotta dei Rohingya

Rifugiato Rohingya in uncampo in Bangladesh
Papa Francesco ha perduto l’occasione storica di stabilire la sua eredità  separata da quella degli altri papi. Ahimè, anche per lui  la convenienza politica ha superato tutto il resto. Nella sua visita in Birmania (Myanmar) il 27 novembre 2017, ha evitato di usare la parola ‘Rohingya.’
Ma che cosa c’è in un nome?
Nei nostri frenetici tentativi di comprendere ed esprimere la brutta situazione della minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania, spesso, forse senza accorgercene, ignoriamo il nocciolo della questione: la lotta dei Rohingya è, essenzialmente una lotta per l’identità.
La maggioranza buddista della Birmania e i suoi rappresentanti, compresi i potenti militari e la leader di fatto del paese, Aung San Suu Kyi, capiscono bene questo. Usano un tipo di discorso rigorosamente cauto in cui i Rohingya non sono mai riconosciuti come un gruppo unico con pressanti aspirazioni politiche.
Descrivono, quindi, i Rohngya come ‘Bengalesi’, sostenendo che la minoranza musulmana è costituita da immigrati dal Bangladesh che sono entrati illegalmente nel paese. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.
L’accuratezza storica, però, almeno per la maggioranza buddista, non è pertinente. Privare i Rohingya di qualsiasi affiliazione onomastica, che li rende un collettivo unico, rende poi possibile negare loro i diritti, disumanizzarli e, infine, renderli oggetto di pulizia etnica come è accaduto da anni.
Fin da agosto, oltre 650.000 membri della comunità Rohingya sono stati cacciati via dalla loro patria in Birmania con un’operazione congiunta e sistematica che ha coinvolto le forze armate, la polizia e vari gruppi nazionalisti buddisti. La chiamano “Operazione di sgombero”
Migliaia di Rohingya sono stati uccisi  in questa grava azione di genocidio, alcuni dei quali nelle maniere più ripugnanti e disumane immaginabili.
L’Alto Commissario del ONU per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha di recente definito le epurazioni in Birmania “un esempio da manuale” di pulizia etnica. Non ci può essere nessuna altra interpretazione di questa orrenda campagna di violenza guidata dal governo.
Mentre, però, migliaia di persone venivano spinte nelle giungle o in mare aperto, il silenzio era assordante.
Soltanto di recente, il Segretario di Stato americano, Rex Tillerson, che ha visitato la Birmania lo scorso novembre, ha deciso di etichettare le violazioni dei diritti umani commesse contro i Rohingya, come ‘pulizia etnica’.
Anche se la sua dichiarazione ha definito il genocidio con al centro il governo “abusi da parte di alcuni militari birmani,” è stato comunque un allontanamento dalla passata incapacità, anche soltanto prendere del tutto in esame il problema.
E’ stato, tuttavia, una grande delusione che il Papa abbia evitato da citare con il loro nome i Rohingya mentre era in Birmania. Ha espresso il loro nome quando ha attraversato il confine, a Dacca. In Bangladesh, usare la parola ‘Rohingya’ sembrava una strategia politica sicura.
Resta inteso che l’astenersi dall’usare la parola ‘Rohingya’ mentre era in Birmania, è stato fatto come una “concessione ai Cattolici del paese”, ha riferito il Washington Post. Questa è la logica: contestando la narrazione popolare che considera stranieri i Rohingya, il Papa avrebbe acceso le ire dei Buddisti contro la minoranza cristiana del paese, essa stessa perseguitata, almeno in due stati della Birmania.
Se i Rohingya devono essere nominati, significa che il fulcro del problema avrebbe possibilità migliori di essere trattato direttamente. Nel momento in cui conservano la loro identità collettiva, è il momento in cui i Rohingya diventano un’identità politica, soggetta ai diritti e alle libertà di qualsiasi minoranza, dovunque.
Il Papa, nel modo audace con cui ha considerato altri argomenti, ha l’autorità morale di contestare la narrativa diffusa, e tuttavia sconcertante, in Birmania che ha disumanizzato i Rohingya per generazioni. Nel 1982, al gruppo di minoranza sotto attacco è stato negato lo status di gruppo di minoranza ed è stato privato della sua cittadinanza, preparando la strada per una futura pulizia etnica.
Ahimè, alla fine il Papa si è unito alle potenze regionali e internazionali che insistono nel porre la crisi dei Rohingya al di fuori dell’ambito delle soluzioni politiche che riguardano i diritti politici e l’identità.
In effetti non è da solo. I leader dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) che si sono incontrati a Manila, nelle Filippine, a metà novembre, non hanno mai parlato dei Rohingya dicendo il loro nome. Peggio, nel loro documento finale di 26 pagine, hanno citato incidentalmente la crisi nello stato del  Rakhine (già Arakan) nel nord-ovest della Birmania ed epicentro del genocidio dei Rohingya:
“Noi…estendiamo l’apprezzamento per la sollecita risposta nella consegna dei materiali di prima necessità in occasione degli allagamenti e le frane nel Vietnam del Nord…e anche per le comunità colpite nello Stato del Rakhine, nel nord-ovest della Birmania.”
Questo è il modo in cui i leader del Sudest Asiatico reagiscono a uno dei peggiori disastri politici e umanitari accaduti nei decenni recenti in quella regione. Pietoso.
Orgogliosamente in piedi nella foto conclusiva con il resto dei capi, c’era Aung San Suu Kyi, che era stata per molti anni “pubblicizzata” dai media occidentali come ‘un’icona della democrazia’. La ‘Signora della Birmania’ che ha sfidato la giunta militare e che ha passato anni agli arresti domiciliari a causa del suo atteggiamento di sfida, in anni recenti ha trovato una comoda formula politica che le permette di condividere il potere con i militari.
Nella migliore delle ipotesi, opportunista politica, anche Aung San Suu Kyi, non chiama i Rohingya con il loro nome. Peggio ancora, il suo governo ha avuto un ruolo importante nel disumanizzare i Rohingya e, a volte ha dato loro la colpa delle loro stesse sofferenze.
Lo scorso settembre, in un ultimo disperato tentativo di salvare la sua reputazione ridotta in pezzi, ha fatto un discorso di mezz’ora trasmesso alla televisione, in cui spiegava la sua posizione, usando una logica molto confusa.
La cosa migliore che si è fatta venire in mente è stata: “Siamo un paese giovane e fragile che deve affrontare molti problemi… Non possiamo concentrarci sui pochi”.
I “pochi”, naturalmente, sono i Rohngya.
Quando il Papa è arrivato in Bangladesh, un uomo che si chiama Mohammed Ayub lo stava aspettando come parte di una piccola delegazione di rifugiati Rohingya.
Il figlio di 3 anni di Mohammad è stato ucciso dalle forze armate birmane. Il messaggio di suo padre al Papa non cercava sollievo umanitario per i profughi disperati e neanche giustizia per il suo bambino, ma qualcosa di completamente diverso.
“Dovrebbe dire la parola che indica chi siamo: Rohingya,” ha detto Mohammed a  Catholic Crux Now. “Siamo Ronhingya da generazioni, mio padre e mio nonno.”
A Dacca, il Papa ha tentato di recuperare quell’opportunità perduta.
“La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya,” ha detto. 


Per concessione di ZnetItaly
Fonte: http://www.ramzybaroud.net/say-the-word-what-the-rohingya-struggle-is-really-about/
Data dell'articolo originale: 06/12/2017
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=22223 

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