21 novembre 2017

Democrazia virtuale

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Matrix, 1999
Il miraggio di una società presentata come democratica impone immagini di un mondo estraneo a quello che è vissuto, come realtà virtuali che predicano cambiamenti nell'illusione di un pacifismo sterile. Assistiamo a un ordine sociale prefabbricato dove territori mentali di gruppi umani e comunità sono stati invasi, colonizzati e dominati fino a diventare mansuetudine, che accetta condizioni di vita subumane come un fatto normale.
La fame, causa oggettiva e analisi dei movimenti rivoluzionari che pensavano avrebbero creato le condizioni per le rivolte popolari, oggi si calmano non con cibo e rivolta, ma con programmi  assistenziali che costruiscono una società di mendicanti che baciano la mano del padrone che dà loro gli avanzi che cadono dalla sua tavola.
La democrazia, trasformata in falsità politica, è una mutazione dell'invenzione mediatica che applica il controllo sociale alle popolazioni che hanno finito col credere che i paesi siano trasformati senza lotte di popoli e comunità che rischiano la vita in azioni de facto contro lo Stato. 
Così hanno costruito modelli mentali per società che dimenticano le lotte dei loro morti, quelle che nella vita professano solo odio perché hanno osato profanare il nuovo idolo della mansuetudine: quella democrazia virtuale che impone il pacifismo a i suoi sudditi, mentre dispiega violenza contro coloro che mettono in discussione le strutture di dominio e classe politica incistati nello Stato.
Non importa sotto quale discorso opera, la democrazia virtuale porta sempre la morte. Che sia di pace o di guerra, il copione rappresentato, assassinare l'opposizione politica non è una scena facoltativa da scegliere, è una regola generale che detiene il potere alla classe politica che si scambia il trono con immagini di colombe bianche o scene di fucili e mimetizzati. Sono le svolte drammatiche del libretto dell'infamia emotiva che gioca con i suoi sudditi, imponendo odio e sangue per un periodo di tempo per poi dimenticare nel nome della pace. Ma l'odio non scompare mai. Quello resta come un personaggio che svolge il ruolo della stigmatizzazione che giustifica la repressione e la morte.
La protesta, la ribellione e le insurrezioni popolari ricevono una sentenza di morte sociale. Il pacifismo trasformato in mansuetudine della democrazia virtuale vieta la presa di vie e strade, e qualsiasi azione che di fatto si confronta con la forza della classe politica che governa. Dominando il più intimo, dal nucleo familiare, la protesta e la ribellione sono demonizzate e trasformate in vergogna, in forme di vita socialmente scorrette che devono essere ripudiate e punite. Generazione dopo generazione figlia di questa dottrina, riprodotta dalla famiglia, che accetta la repressione come un fatto necessario e i crimini contro l'opposizione politica come eventi insignificanti nell'agenda della stigmatizzazione e dell'odio che rende omaggio alla morte.
Sotto questo scenario, riflettori e luci del pacifismo e della mansuetudine si mescolano smobilitando le lotte contro l'oppressore che si veste di democrazia, e che sorride intatto indossando il costume che nasconde le forme più vili e sanguinarie che sostengono l'iniquità dell'ordine politico neoliberista.
Ma le luci non accecano completamente. Parte del pubblico abbandona lo spettacolo. I posti sono lentamente liberati. E lontano da ogni mansuetudine, i discorsi della non violenza sono sterili, come un'illusione servile alla tirannia che ricrea esperienze e personaggi stranieri per realtà distinte in cui le armi, il paramilitarismo e il controllo sociale tecnificato (focalizzato sui territori mentali) hanno imparato a contenerli senza molto sforzo; discorsi di nonviolenza che finiscono per attaccare solo le vittime che rispondono con forza alla violenza di uno Stato che non rinuncia mai a dispiegarla contro il popolo.
Al di fuori dello spettacolo della democrazia virtuale, l'influenza della mansuetudine non raggiunge popoli e comunità che si allontanano dal libretto della sconfitta e della rassegnazione imposta dalla tirannia. Così l'oppressione, che presume di controllare e porre fine a ogni ribellione, finisce per confrontarsi nelle strade e negli spazi quotidiani. Tuttavia, sono lotte impari dove la vittoria non sempre arriva per il popolo, lasciando la storia alla mercé dei carnefici che scrivono e adornano le loro infamie. Ma alla gente non importa quante volte si vantino di vittorie che non meritavano, perché sanno che, con ogni riga scritta, con ogni libro pubblicato, alla fine i tiranni stanno solo scrivendo la proroga della loro sconfitta.
Alexander Escobar*
Fonte: REMAP 10 novembre 2017

Traduzione per TLAXCALA di Alba Canelli
* Giornalista e documentarista colombiano nato nella città di Palmira (Valle del Cauca). Attualmente fa parte della rete di media alternativi e popolari (REMAP) e della rete di artisti popolari del sud-ovest (RAPSO). Collaboratore di La pluma.

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