19 maggio 2017

L’esperienza di Trump ci libera dal falso idolo della democrazia

Il bombardamento della Siria ha regalato all’amministrazione Trump un mese di tregua, ma non è stato seguito dall’auspicata rottura dei rapporti tra Casa Bianca e Cremlino. La visita a Washington del ministro degli Esteri russo ha innescato un furioso attacco contro Donald Trump, col chiaro intento di paralizzarne l’azione: l’oligarchia euro-atlantica rifiuta qualsiasi riconciliazione con la Russia. La presidenza di Trump non sarà comunque un’esperienza inutile: dopo i governi tecnocratici in Europa, il recente golpe bianco in Brasile ed le elezioni francesi sporcate dalla strategia della tensione e dall’eliminazione politica degli avversari, l’accanimento contro Trump testimonia che l’idolo delle democrazia è ormai al tramonto. 

L’impossibile riavvicinamento alla Russia
L’indice di gradimento di Donald Trump tra i “populisti” statunitensi ed europei è inversamente proporzionale a quello goduto presso l’establishment: scesa ai minimi termini in occasione del bombardamento sulla Siria dello scorso 6 aprile, la sua popolarità tra i movimenti anti-sistema sta conoscendo un rimbalzo in questi giorni, complici le manovre per defenestrarlo. È quasi certo che l’amministrazione Trump si concluderà (prematuramente o meno) senza aver mantenuta nessuna delle promesse che avevano inizialmente suscitato molte speranze, soprattutto in Europa: disimpegno degli USA dalla NATO, neo-isolazionismo, lotta alla globalizzazione selvaggia, smantellamento dell’architettura geopolitica post-1945, arresto della destabilizzazione del Medio Oriente, etc. etc.
Tuttavia è già chiaro che la sua esperienza non sarà comunque inutile. Qualche lezione si può già trarre dalla breve parabola di Donald Trump ed è molto preziosa per i populisti americani ed europei: non si ottengono rivoluzioni o cambiamenti con le elezioni, perché la “democrazia” è concepita per preservare lo status quo e l’élite al potere.
Insediatosi alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio, Donald Trump ha visto la sua azione di governo impantanarsi quasi subito, tanto che i primi 100 giorni della sua amministrazione sono passati senza lasciare traccia. Ha pesato sia la sua inesperienza politica (incapacità, per usare un vocabolo più crudo), sia il feroce ostruzionismo dell’establishment liberal e delle sue mille declinazioni (media, agenzia di sicurezza, magistratura, Pentagono, organismi sovranazionali, etc. etc.). Era facile prevedere che il programma di Donald Trump, incentrato su un moderato protezionismo economico e su una realpolitik negli affari esteri, averebbe incontrato la spietata opposizione dell’élite finanziaria e globalista che vive sull’asse City-Wall Street. Il nostro paragone con Richard Nixon, soprattutto alla luce delle recenti minacce di impeachment, è più calzante che mai. Più difficile da immaginare era la virulenza e la rapidità con cui l’oligarchia ha reagito: l’amministrazione Trump ha dovuto battersi per la sopravvivenza sin da subito, perdendo il consigliere della sicurezza nazionale Michael Flynn dopo neanche un mese, subendo le immediate minacce di un ammutinamento del partito repubblicano al Congresso, incassando la continua fuga di notizie ed indiscrezioni alimentata dalla CIA.
L’attacco chimico di Idlib, orchestrato dalla propaganda atlantica ed imputato al regime di Damasco, è stato un “aut aut” per Donald Trump: se il presidente non si fosse piegato ai diktat dell’establishment, rompendo “le nozze con la Russia” e bombardando la Siria, il cerchio attorno a lui si sarebbe chiuso, obbligandolo a capitolare. Trump, sottoposto ad un’enorme pressione mediatica e politica, ha ceduto, avvallando il blitz missilistico contro l’aeroporto di Shayrat la notte tra il 6 ed il 7 aprile: così facendo, la sua amministrazione ha potuto “respirare”, rompendo l’assedio e riconquistando le momentanee simpatie di tutto il sistema atlantico (Dipartimento di Stato americano, CIA, Pentagono, NATO e UE). Al raid aereo, non è però seguito l’auspicato “raddrizzamento” della presidenza Trump: l’obiettivo della manovra non era certamente ottenere l’effimero bombardamento di un’istallazione militare, ma la sospensione di qualsiasi riavvicinamento e/o convergenza con Mosca.
Sulle ragioni della “russofobia” nutrita dall’oligarchia atlantica e sui rischi che conduca ad una nuova guerra mondiale, abbiamo scritto più volte: lungi dall’avere motivazioni di natura etica, dovuta alla presunta “illiberalità” di Mosca (perché l’establishment liberal non ha certo problemi a stringere alleanze con le retrograde monarchie sunnite e l’estremismo islamico), l’odio verso la Russia è dettato da considerazioni squisitamente geopolitiche.
Sin dal termine delle guerre napoleoniche e dall’affermarsi della Russia come grande potenza internazionale, l’élite anglofona vede questo enorme Stato collocato nel cuore dell’Eurasia (l’Hearthland di Mackinder) come una minaccia strategica per i propri disegni egemonici. In particolare l’oligarchia atlantica, esponente di potenze marittime come il Regno Unito e gli Stati Uniti, è atterrita dallo scenario di un’integrazione economica, politica ed infrastrutturale tra Mosca e degli altri Stati continentali. Un “blocco euroasiatico”, sufficientemente grande da vanificare la strategia dell’anaconda con cui le potenze marittime strangolano gli avversari, si è già formato in questi ultimi sei anni grazie alle crescenti sinergie tra Russia, Cina ed Iran. Gli angloamericani devono perciò impedire a qualsiasi costo,compresa la guerra, che a quest’entità geopolitica si saldino anche gli Stati europei.
Una Casa Bianca “russofobica”, che difenda a spada tratta le istituzioni con l’establishment liberal controlla il Vecchio Continente e lo tiene separato dalla Russia (Unione Europea e NATO), è quindi indispensabile. La prospettiva di un’intesa tra Donald Trump e Vladimir Putin, che consentisse al primo di concentrarsi sulla ricostruzione economica degli USA ed al secondo di ritagliarsi una legittima sfera di influenza in Europa e Medio Oriente, è stata vissuta come un incubo dall’élite atlantica, pronta a tutto pur di scongiurare questa eventualità. Bombardando la Siria alleata di Mosca, il neo-presidente statunitense ha rifiatato per un paio di settimane. Al raid missilistico, non è però seguita l’attesa rimodulazione della politica estera in chiave anti-russa: il blitz del 6 aprile non ha impedito che l’incontro tra il Segretario di Stato Rex Tillerson ed il presidente russo Vladimir Putin si svolgesse, come da programma, il 12 aprile a Mosca e poco importa se il vertice bilaterale si stato guastato dalle vicende siriane.
Constata la mancata “conversione” di Trump, l’establishment atlanticoè tornato all’attacco, risfoderando  l’arsenale del “Russiagate” solo momentaneamente ritirato. La tempistica è ancora molta significativa: il 9 maggio, il presidente licenzia il direttore dell’FBI, James Comey che indaga sulle presunte interferenze russe nelle elezioni di novembre e, a distanza di poche ore (dopo aver incontrato l’ex-Segretario di Stato Henry Kissinger che, sotto la presidenza di Richard Nixon, riuscì nell’impresa di “separare” Mosca e Pechino) riceve alla Casa Bianca il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Il gesto ha il sapore della ribellione: uno schiaffo di Trump a quell’establishment che, con le minacce e le lusinghe, sta tentando in ogni modo di sabotare la sua politica filo-russa. Pochi giorni dopo, Trump minaccia infatti di rivelare i ricatti cui l’FBI lo sta sottoponendo.
La visita di Lavrov alla Casa Bianca è la goccia che fa traboccare il vaso: la reazione dell’oligarchia atlantica è quasi isterica. Prima si accusa Trump di aver fornito ai russi, durante il colloquio, informazioni segrete sull’ISIS, con il rischio di compromettere la sicurezza nazionale e quella degli alleati. Poi, con una mossa a sorpresa, è lo stesso ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, a nominare un procuratore speciale che porti avanti le indagini sul “Russiagate”: si tratta di Robert Muller, direttore dell’FBI ai tempi dell’Undici Settembre, nominato da George W. Bush e confermato da Barack Hussein Obama. La parola “impeachment” aleggia nell’arena politica, poco importa se le possibilità di una defenestrazione legale di Trump siano concrete o meno. L’attacco a Trump è ripartito in grande stile e, soprattutto, si auto-alimenta: il focus è ora più concentrato sul licenziamento di Comey che sui presunti contatti tra la cerchia di Trump e “russi” prima delle elezioni. Il neo-inquilino della Casa Bianca, sempre più braccato, non può far altro che constare che è in atto la più grande caccia alle streghe della storia americana.
Donald Trump sarà disarcionato in corsa, aprendo così le porte dello studio ovale al suo vice, il più affidabile Mike Pence? Forse. In ogni caso è però ormai chiaro che l’amministrazione Trump si trascinerà in una lunga agonia, completamente paralizzata dallo stillicidio di inchieste, insinuazioni e minacce circa i presunti legami tra Trump e Putin. Una riscossa “populista”, “nazionalista” ed “anti-establishment”, benché non impossibile, si fa sempre più lontana.
Si deve quindi già archiviare l’esperienza di Donald Trump, etichettandola come inutile? No, in ogni caso la sua presidenza ha impartito un prezioso insegnamento, soprattutto perché “la cattedra” da cui viene quest’insegnamento sono gli Stati Uniti d’America: l’idolo della democrazia è ormai al tramonto.

La caduta del falso idolo della democrazia

Sulla vera natura della democrazia scrivemmo quando, di fronte all’avanzata elettorale dei populismi, si alzarono grida d’allarme da parte di politici, intellettuali, banchieri, giornalisti e tecnocrati: esiste una vasta letteratura che affonda le radici nel XX ed è stata alimentata soprattutto da economisti, storici e sociologi italiani, secondo cui la democrazia è una forma, neppure troppo celata, di oligarchiaChi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice democrazia dice oligarchia” è una breve massima utile a dimostrare come la democrazia, intesa come capacità della massa di influire sulle scelte politiche, sia una chimera, poco più di un mito, un falso idolo.
A sostegno di questa tesi viene in soccorso anche la storia: la democrazia liberale nasce (e da lì sarà “esportata” nel mondo con una serie infinita di guerre) in due potenze marittime, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America, che sono storicamente rette un’oligarchia solida e compatta. Ci riferiamo a quell’élite finanziaria, liberal, anglofona, mondialista che gestisce la cosa pubblica nascondendosi dietro il paravento del bipolarismo: wighs contro tories, democratici contro repubblicani, progressisti contro conservatori, sono false dialettiche, utili soltanto ad imbastire il grande circo delle elezioni ed offrire al popolo l’illusione di poter influire sulla gestione dello Stato. L’istituto democratico funziona finché difende gli interessi dell’élite: se nascono partiti che difendono istanze diverse da quelle dell’oligarchia, automaticamente sono tacciati di “populismo, fascismo, nazionalismo”. Se questi partiti conquistano poi il potere, scatta allora la reazione dell’élite, reazione che può spaziare dall’impeachment all’omicidio politico, dal colpo di Stato alla rivoluzione colorata.
Nella ormai settantennale fase “liberale” dell’Occidente, c’è stato già almeno un periodo in cui le quotazioni della democrazia precipitarono, creando disillusione ed amarezza: furono gli anni ‘70 (che coincisero anche con la presidenza del sullodato Richard Nixon), quando la presa dell’oligarchia atlantica sul resto del mondo sembrò affievolirsi, scatenando una serie di golpe, stragi di Stato, assassini di premier e presidenti. La crisi della democrazia liberale fu allora superata, per due principali motivi:
  • lo spauracchio del “comunismo” era sufficiente per tenere la classe media legata all’establishment;
  • l’élite si premurava comunque di garantire uno standard di vita crescente, o perlomeno costante, alla classe media.
Non era quindi interesse della “massa” mettere in discussione la legittimità dell’élite e della “democrazia” dietro cui si nasconde, perché panem et circenses” abbondavano: chiudendo un occhio sull’esclusione de facto dalla politica, il popolo accettava in cambio un discreto tenore di vita.
Crolla il muro di Berlino nel 1989, implode l’URSS nel 1991, e l’élite atlantica è finalmente libera di perseguire i suoi scopi senza più nessun limite: globalizzazione spinta, Stati Uniti d’Europa, onnipotenza della finanza, governo mondiale, immigrazione di massa, riassetto del Medio Oriente, etc. etc. Lentamente riemergono però alcuni attori geopolitici che si oppongono ai piani dell’establishment atlantico (Russia, Iran e Cina) e soprattutto, esplode l’insofferenza dei cittadini occidentali: i redditi calano, la disoccupazione aumenta, il fenomeno dell’immigrazione indiscriminata allarma. Nascono quindi “i populismi”, che trovano spesso una sponda d’appoggio proprio nella Russia di Vladimir Putin, pronto ad impiegarli contro l’oligarchia atlantica.
Gli ambiziosi progetti dell’establishment liberal si sgretolano e, soprattutto, è forte il rischio che la stessa egemonia globale delle potenze marittime ne esca irrimediabilmente compromessa: non c’è infatti più nessuna barriera ideologica (il comunismo) a separare l’Europa Occidentale dalla Russia. Come negli anni ‘70, l’élite atlantica reagisce con violenza. Abbiamo nell’ordine:
Il mito della democrazia, anno dopo anno, si appanna, perché è sempre più evidente che l’esito delle elezioni è rispettato (o i programmi dei partiti attuati, come dimostra il caso di Syriza in Grecia e forse presto il caso di M5S in Italia), soltanto se in sintonia con la volontà dell’élite atlantica.
Cresce la disillusione tra la popolazione di poter influire sulle scelte politiche e, parallelamente, aumenta la sensazione che “il circo delle elezioni” è utile soltanto a mantenere lo status quo, difendendo gli interessi dell’1%. L’esplosione dell’astensionismo in Europa è la miglior prova della crescente disaffezione verso l’istituto democratico: nessuno si attende più un cambiamento dal voto, perché le decisioni sono, in ogni caso, prese da una ristretta cerchie di persone che non sono mai sottoposte al vaglio delle elezioni. Gli interventi a gamba tesa dell’establishment per influenzare, alterare (si ricordi il caso delle presidenziali austriache) o invertire il verdetto delle urne, alimenta la certezza che la democrazia è un falso idolo, un mito dietro cui non c’è nulla, un inganno per distrarre le masse.
La storia è fatta dalle élite. La società è comandata dalle élite. I valori etici sono dettati dalle élite.
L’Occidente, per come lo conosciamo, è governato da oltre 70 anni dall’élite atlantica, anglofona e mondialista che, partendo dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, ha inglobato l’intera Europa. Quest’élite non cederà mai il potere dopo un’elezione, non consentirà mai che un presidente degli Stati Uniti si riconcili con la Russia, non tollererà mai che i partiti populisti smantellino l’architettura UE/NATO con cui controlla il Vecchio Continente.
L’élite deve prima essere eliminata: con un collasso economico, una rivoluzione violenta od una disfatta militare. Tutto il resto, compreso “la democrazia”, è noia: la triste parabola del “populista” Donald Trump contribuisce perlomeno ad abbattere i vecchi e consunti idoli del XX secolo.
Federico Dezzani

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