"…credo che gli sforzi per rovesciare il regime di Assad abbiano portato denaro in molte direzioni. (..) Per questo Qatar, Arabia Saudita e altri devono essere coinvolti per combattere le frange estremiste sunnite."
Daniel Benjamin, ex capo antiterrorismo del Dipartimento di Stato Usa
"La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale."
Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel
1. Le conseguenze disastrose della distruzione degli Stati laici arabi
Il nemico è alle porte, anzi è già al di qua delle nostre porte. Questo
ci dicono governi e mass media europei. Il concetto indiscusso, dopo
l'attacco a Charlie Hebdo, è che l'Occidente, con i suoi valori di
libertà, di opinione e di espressione, è stato gravemente colpito dal
bestiale estremismo islamico. Di conseguenza, bisogna prepararsi alla
guerra interna ed esterna.
La netta sensazione è che si stia aprendo una
altra fase della guerra al terrore iniziata da Bush dopo l'11 settembre
2001 e di fatto mai terminata. Non a caso, in riferimento agli eventi
di Parigi, si parla di 11 settembre europeo e Matteo Renzi ha colto
l'occasione per dichiarare la disponibilità dell'Italia ad un intervento
militare in Libia, sia pure sotto il "cappello" Onu, a poco più di
cento anni dalla invasione coloniale del 1911.
Anche in questo caso però, come in ogni guerra, di qualunque tipo essa
sia, la prima vittima è la verità. Per questo, è fondamentale sollevare
il velo dell'ipocrisia che impera sovrana e andare alla realtà dei
fatti. Un obiettivo che, però, è complicato dal mutamento del quadro
storico, caratterizzato da fenomeni che un tempo avevano un ruolo meno
importante e soprattutto regionale, a partire dal radicalismo musulmano.
Su questo aspetto, come sulla attualizzazione della categoria di
imperialismo e sul ruolo dell'immigrazione extraeuropea nella Ue, la
sinistra sconta un sostanziale ritardo nell'analisi e un incerto
posizionamento politico e ideologico.
La prima questione da evidenziare è che proprio la diffusione
dell'estremismo islamico è strettamente dipendente dal processo di
destabilizzazione dell'area medio-orientale e nord africana
sistematicamente portata avanti dalle potenze imperialistiche
occidentali, a partire da Usa e Francia. Il sostegno occidentale al
radicalismo islamico e segnatamente al movimento jihadista, che ha
rivendicato gli attentati di Parigi e a cui hanno dichiarato di
appartenere i fratelli Kouachi e Coulibaly, è stato un elemento decisivo
di questa strategia, che riguarda da vicino anche noi italiani.
Infatti, già negli anni '80 i servizi segreti italiani favorirono e
sostennero l'estremismo islamico nel Nord Africa contro regimi laici che
si volevano abbattere o ridimensionare. Nel luglio 2007, l'autorevole
rivista Limes pubblicò una testimonianza di Nino Arconte, nella quale
l'ex agente del Sismi rivelò che l'intelligence militare italiana aveva
costruito venti campi d'addestramento per i militanti islamici,
appoggiando le rivolte che nel 1987 portarono alla cacciata di
Bourghiba, allora presidente laico della Tunisia[1].
Gli islamici, successivamente scaricati dagli italiani e perseguitati
dal nuovo governo tunisino di Ben Ali, ripararono in Algeria dove
alimentarono la lunga e sanguinosa guerra civile degli anni '90 tra
islamici e forze armate.
Se oggi nel Nord Africa e nel Medio Oriente ci sono ampi territori in
preda all'anarchia o nelle mani di organizzazioni terroristiche e di
milizie jihadiste, come il famigerato Is (Stato islamico), è perché gli
Stati laici preesistenti, che le combattevano e le arginavano, sono
stati sistematicamente distrutti. Tale distruzione è avvenuta o
direttamente ad opera delle forze armate occidentali, come nel caso
dell'invasione dell'Iraq, o ad opera di milizie locali sostenute
politicamente e con armi dall'Occidente e dalle petromonarchie arabe sue
alleate, come nel caso della Libia e della Siria. In particolare, in
Libia i bombardamenti aerei, compiuti da Europa e Usa e costati la vita a
numerosi civili, hanno permesso agli insorti una altrimenti improbabile
vittoria su Gheddafi. Mentre i media occidentali esaltavano le
"primavere arabe", dipingendole come manifestazioni della lotta per la
libertà dei popoli contro sanguinari dittatori, migliaia di jihadisti,
provenienti da tutto il mondo islamico, penetravano in Libia e in Siria,
che ora sono ridotti a piccoli Afghanistan nelle mani di signori della
guerra alle porte di casa nostra. Persino Daniel Benjamin, ex capo
dell'antiterrorismo del Dipartimento di Stato sotto Hilary Clinton,
ammette esplicitamente che le petromonarchie dell'Arabia Saudita, del
Qatar e del Kuwait, storiche alleate dell'Europa occidentale e degli
Usa, che vi mantengono proprie basi militari, hanno finanziato le varie
milizie che hanno defenestrato Gheddafi e hanno quasi scalzato Assad[2].
La responsabilità della Francia nella creazione di questa situazione
sono particolarmente forti. Sono state proprio la Francia e, in misura
inferiore, la Gran Bretagna a promuovere più decisamente l'intervento
militare occidentale sia diretto sia di sostegno agli "insorti" in Libia
e in Siria, anche rispetto agli Usa e all'Italia, più dubbiosi specie
per quanto riguardava l'intervento in Libia. I servizi segreti francesi,
sebbene noti per lo loro efficienza, dopo i fatti recenti di Parigi
sono stati universalmente accusati di incompetenza. Il TG1 della Rai
(non un blog complottista) si è chiesto come mai i fratelli Kouachi,
andassero e tornassero come niente fosse tra Francia, Siria e Yemen,
dove andavano ad addestrarsi. Forse non si tratta solo di incompetenza.
Forse c'entra qualcosa il fatto che, almeno fino ad un certo momento,
per i francesi era meglio non essere troppo rigorosi nel controllo del
flusso dei combattenti contro Assad dall'Europa verso la Siria. Un
flusso che è passato per quel tratto di confine con la Siria controllato
dalla Turchia, che è membro della Nato e che, secondo Alberto Negri del
Sole24ore, sostiene da sempre contro Assad oltre all'Els (esercito
libero siriano) anche il gruppo jihadista Jabat Al Nustra, affiliato di
Al Qaeda in Siria[3].
Del resto, Al Nustra è sostenuto anche da Qatar e Kuwait, mentre
l'Arabia Saudita sostiene il Fronte islamico, anch'esso jihadista e
mirante a costituire un Emirato islamico in Siria.
La facilitazione dell'afflusso di combattenti islamici in Siria è
coerente con la strategia occidentale cui si ispira, almeno fino ad ora,
l'amministrazione Obama: evitare interventi diretti con truppe di
terra, e preferire l'impiego dell'arma aerea e di milizie locali. Tale
soluzione è meno costosa sul piano economico, meno compromettente sul
politico internazionale, e meno problematica per il mantenimento del
consenso interno. Come ormai testimonia anche una lunga filmografia
(ultimo il recente e ambiguo film di Clint Eastwood), c'è sempre il
pericolo che i giovani militari statunitensi apprendano sulla propria
pelle che nessuno tra i "liberati" li considera come liberatori. Ad ogni
modo, l'impiego di truppe locali non rappresenta nulla di nuovo.
All'epoca del colonialismo l'Inghilterra combatteva le sue guerre con le
truppe indiane e l'Italia aveva dubat e ascari. Anche oggi, dopo
l'attentato di Parigi, Benjamin ribadisce che va evitata la tentazione
di mandare truppe occidentali sul campo. Il problema, però, è che i
nuovi "ascari" non sembrano essere sufficientemente controllabili e
direzionabili come si vuole e anzi spesso si rivoltano contro coloro i
quali pretendevano di manovrarli.
2. Il nemico interno, lo sviluppo del radicalismo islamico in Europa
Ma chi sono questi nuovi "ascari"? Tra di essi, ci dicono i media, sono
migliaia i combattenti di provenienza e di cittadinanza europea,
compresi nativi "bianchi" conquistati al radicalismo islamico. In questo
modo ci si apre davanti una nuova questione, perché il fronte di guerra
esterno, che come abbiamo visto l'Occidente ha largamente contribuito
ad aprire, trova rispecchiamento in un fronte di guerra interno. Anche
in questo caso definire i confini del conflitto, le responsabilità e chi
ha iniziato non è sempre così scontato come sembra. Nell'epoca
dell'informazione usa e getta, quello che non fa comodo si dimentica
facilmente. Così si è dimenticato che l'attentato terroristico più grave
degli ultimi anni in territorio europeo occidentale è stato quello
realizzato dal norvegese Anders Breivik, che nel 2011 si produsse nella
mattanza di 77 giovani e adolescenti del partito socialdemocratico
norvegese allo scopo di "protestare contro la decostruzione della
cultura norvegese per via dell'immigrazione di massa degli islamici".
Più di recente l'avversione nei confronti dell'Islam come religione si è
affermata in tutta Europa, non solo portando una ricca doti di voti ai
partiti xenofobi, ma alimentando anche azioni violente e terroristiche,
come nel caso della Svezia, dove tra Natale e capodanno si sono
registrati ripetuti attacchi ad alcune moschee a colpi di molotov. La
crescita del sentimento anti-islamico è ben rappresentata dalla
diffusione in Germania del movimento Pegida, che esprime, sebbene in
forme più presentabili di quelle della estrema destra nazista, pur
sempre lo stesso concetto di difesa dell'identità nazionale europea
contro l'Islam. A fronte di queste manifestazioni di una parte della
popolazione europea, soprattuto appartenente alle classi subalterne, si
registra una riscoperta di massa della religione islamica da parte delle
nuove generazioni dei figli dei vecchi immigrati extra-europei.
All'interno della riscoperta dell'islam come dottrina religiosa si
accompagna l'adesione alle differenti forme dell'islam politico.
Quali sono le basi materiali e sociali dell'affermazione di queste manifestazioni ideologiche[4]
di tipo religioso e politico? Perché l'integrazione interetnica e
interreligiosa sembra essere fallita in Europa e in particolare in
Francia? Il punto di partenza è che si è creato in Europa un nuovo
"popolo dell'abisso"[5],
rappresentato da milioni di persone che fanno parte degli strati
inferiori del lavoro salariato e del sottoproletariato. Molti di questi
sono proprio cittadini europei, figli o nipoti degli immigrati arabi o
extra-europei. Si tratta di quello che possiamo definire un "terzo
mondo" domestico, una sorte di "colonia interna", che è stata alimentata
per decenni ed è tutt'ora alimentata dal capitale.
Lo scopo era ed è, a fronte della riduzione dei tassi di natalità della
popolazione europea, di avere sufficiente forza lavoro e creare un
"esercito industriale di riserva" con cui mantenere bassi i salari. La
Francia, dopo decenni di crollo demografico, ora ha i tassi di fertilità
più alti a livello continentale, grazie agli immigrati oltre che a un
generoso welfare a sostegno delle famiglie[6].
Però, la crisi del capitale e le "riforme di struttura", sollecitate
dalle politiche di austerity dell'Europa, stanno livellando i salari,
contraendo il welfare state e soprattutto la possibilità di avere un
lavoro decente. Insomma, quello che si produce è un eccesso di
popolazione, una sovrappopolazione non in termini assoluti ma
relativamente alla capacità di integrarla nell'unico modo possibile
nella società attuale, cioè impiegandola come merce forza-lavoro nel
processo di accumulazione del capitale.
Questa sovrappopolazione relativa colpisce molti europei, non solo
immigrati o figli di immigrati di seconda e terza generazione, ma anche
molti "indigeni", che passano alla "riserva" dell'esercito del lavoro in
forma permanente. Questa situazione determina una tensione sociale che
deve trovare in qualche modo uno sbocco e, non trovandolo in una lotta
unitaria "sovra-etnica" contro la vera causa del problema (il modo di
produzione capitalistico), si manifesta in una lotta fra poveri (o fra
chi è povero e chi ha paura di diventarlo) per la spartizione delle
sempre più ridotte risorse, che assume connotazioni etniche, o un
rivestimento religioso e di scontro culturale tra civiltà.
Marx, in quanto materialista e politico rivoluzionario, era critico verso la religione, che vedeva insieme come "l'espressione della miseria materiale e la protesta contro la miseria materiale"[7].
Infatti, quando si riferiva alla religione come "l'oppio dei popoli",
la sua affermazione conteneva una ricchezza e sfumature ben maggiori di
quanto una certa vulgata vuole far intendere. Marx diceva che la
religione è l'oppio dei popoli nel senso che la religione assume, allo
stesso modo dell'oppio utilizzato per i feriti in guerra, la funzione di
lenimento alle sofferenze di una umanità oppressa e umiliata[8].
Del resto, ai loro inizi, cristianesimo e islamismo erano le religioni
dei poveri e degli schiavi. Nel Corano e i Vangeli troviamo parole molto
aspre nei confronti dei ricchi, mentre l'Apocalisse biblica è un atto
d'accusa contro l'imperialismo di Roma.
Questi richiami a Marx e alla storia delle religioni non vogliono essere
meramente filosofici, ma ispirati dalla necessità politica di
comprendere la natura ambivalente della religione allo scopo di meglio
contrastarne la funzione di strumento di dominio da parte delle classi
dominanti. Anche oggi, per non pochi europei (nativi e immigrati) la
religione (islamica e cristiana) rappresenta l'unico modo che identità
frantumate da una modernità sempre più alienante hanno di esprimersi. Il
radicalismo islamico va, però, distinto dall'islamismo. L'islamismo è
una dottrina religiosa che, come il cristianesimo, non implica di per sé
l'adesione ad un determinato orientamento politico e tantomeno alla
Jihad e ad azioni violente. Infatti, milioni di credenti islamici, alla
stessa stregua di milioni di cristiani, hanno appoggiato partiti di
varia estrazione politica e ideologica.
Fra l'altro, l'Islam è molto differenziato anche sul piano dottrinale,
ad esempio vi sono importanti correnti quietistiche o addirittura
mistiche, come il sufismo, che rifiutano qualunque uso della forza. Noi
europei facciamo fatica a comprendere l'Islam, perché siamo condizionati
dal cristianesimo che ha un clero, una organizzazione strutturata e un
pensiero religioso sistematizzato, soprattutto nel caso della Chiesa
cattolica. Nell'Islam non ci sono Chiese né un vero clero, solo la
minoranza sciita ha qualcosa che gli si avvicina. Inoltre, l'Islam va
distinto dal radicalismo islamico. Questo non è una dottrina religiosa,
ma un orientamento politico e ideologico, che è definibile islamico
perché, secondo una sua interpretazione soggettiva, giustifica e
riconduce la sua linea politica alla dottrina religiosa, in particolare
all'applicazione della legge coranica, che come per ogni legge, è
soprattutto questione di interpretazione. Dunque, anche il radicalismo
islamico non è un tutto unitario né può essere ricondotto al jihadismo.
Esso presenta delle notevoli differenze interne, tra correnti che
assumono posizioni politiche e metodi di lotta anche opposti.
Ad ogni modo, oggi per quella parte di giovani figli di immigrati che si
rivolgono al radicalismo politico islamico, l'Islam rappresenta l'arma
del riscatto e della rivalsa contro una Europa, e per estensione contro
un Occidente, che, dopo avere accolto i padri, ora rifiuta i figli dei
quali aveva nutrito le aspettative. Anche in questo caso si ha
l'impressione di assistere ad un déjà vu. Un movimento simile,
di volontà di recupero delle proprie radici e della propria identità in
opposizione alla discriminazione razziale e di classe, portò migliaia di
neri statunitensi verso l'Islam negli anni '50 e '60. Anche allora,
come accade oggi in Francia, si trattava di giovani proletari o
sottoproletari emarginati, spesso piccoli delinquenti, che si
avvicinavano alla religione islamica anche nelle carceri.
Esemplificativo, in questo senso, fu il caso di Malcom Little,
altrimenti conosciuto con Malcom X. All'epoca, però, lo sviluppo di una
coscienza nera, come consapevolezza di essere membri di "colonia
interna", non condusse all'egemonia del radicalismo islamico nè sboccò
nella jihad, bensì portò i neri alla sinistra politica e alla lotta
contro il potere capitalistico e imperialista degli Usa[9].
Uno sbocco che evidentemente fu favorito dall'esistenza di un contesto
politico-ideologico e di rapporti di forza internazionali del tutto
diversi da quelli odierni, oltre che da una struttura capitalista
avanzata e differente da quello più arretrata medio-orientale.
3. Convergenza politica tra imperialismo occidentale e jihadismo
Dunque, molti giovani europei di origine araba e africana guardano al
radicalismo islamico non tanto o non soltanto come fonte di una visione
religiosa della realtà, ma anche come un modello politico, sociale e
ideologico alternativo a quello in cui vivono. Ma se un modello diventa
tale, ciò avviene in larga misura perché si dimostra vincente. Il punto è
dunque questo: il radicalismo islamico appare oggi vincente nei Paesi
arabi e africani soprattutto nei confronti del secolarismo di
derivazione occidentale. Eppure non è sempre stato così. Per un lungo
periodo, tra gli anni '40 e '70 in Medio Oriente e in Nord Africa
furono movimenti e partiti laici, nazionalisti o di sinistra, a partire
dal nasserismo in Egitto e dal partito Baath in Siria e Iraq,
e persino di orientamento marxista, a essere alla testa delle lotte dei
popoli arabi per l'indipendenza e per la costruzione di una società
emancipata dalle ex potenze coloniali.
Fu tale orientamento a portare questi Paesi ad abbandonare gli Usa e ad
avvicinarsi all'Urss e al suo modello sociale. Le cose cominciarono a
cambiare soprattutto a partire dalla rivoluzione iraniana nel 1979,
quando cominciò ad affermarsi il radicalismo islamico che, eliminando
progressivamente la concorrenza dei partiti laici, ha conquistato nel
volgere di tre decenni l'egemonia in tutta l'area. Il declino delle
sinistre laiche arabe è dipeso da un intreccio di fattori. In primo
luogo, l'indebolimento della sinistra e del socialismo a livello
mondiale, con la conseguente perdita di prestigio tra le masse povere e
gli intellettuali della periferia mondiale e, in particolare, dei paesi
arabi.
In secondo luogo, l'uso strumentale che l'imperialismo occidentale e le
petromonarchie arabe fecero del radicalismo islamico contro di esse. A
questo si collegano i consistenti finanziamenti, ricevuti dalle
petromonarchie, che hanno consentito a molti movimenti e partiti
islamici di mettere in piedi un sistema di welfare privato che gli ha
permesso di radicarsi in realtà sociali impoverite e prive o quasi prive
di assistenza pubblica. Infine, la progressiva perdita di credibilità,
dovuta alle numerose sconfitte registrate sia nella costruzione di una
società moderna sia nella lotta contro l'imperialismo occidentale e
Israele, con cui spesso una parte del settore laico e dei governi
post-coloniali è risultata collusa.
Tutte queste cause, più o meno sovrastrutturali, poggiano su cause più
strutturali, economiche e socio-demografiche, che, pur fondamentali,
possiamo trattare in questa sede soltanto di sfuggita. Ci limitiamo ad
osservare che la globalizzazione, attraverso una maggiore integrazione
delle economie periferiche con quelle centrali, ha prodotto fattori che
sono causa di forti tensioni nei Paesi del Nord Africa e del Medio
Oriente, destabilizzandone la struttura sociale e le istituzioni
politiche[10].
Tra questi fattori ci sono le dinamiche della finanza, che ha prodotto a
più riprese l'aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, e la
fragilità dello sviluppo dei Paesi di quell'area, perché dipendente da
Europa e Usa.
Un ruolo decisivo è stato ricoperto dalla crisi dell'agricoltura locale,
che è stata fortemente penalizzata dal tipo di sviluppo indirizzato
all'esportazione, il quale ha aggravato la carenza di acqua tipica di
quelle aree. In questo contesto ha avuto risultati esplosivi l'aumento
esponenziale della popolazione con tassi di crescita del 3-5% e la forte
inurbazione delle popolazioni rurali in metropoli sempre più grandi e
invivibili. Ad esempio, l'Egitto è passato da 64 milioni di abitanti nel
2000 a 85,7 milioni nel 2014[11].
La struttura demografica vede la prevalenza delle classi di età più
giovani, che non trovano risposta alla loro crescente domanda di lavoro e
partecipazione politica[12].
Dinanzi al decadimento delle ideologie provenienti dall'Occidente, la
protesta contro l'esistente tende a utilizzare gli strumenti ideologici
più "spontaneamente" disponibili, quelli radicati nella tradizione
storica. Inoltre, in mancanza di una offerta politica alternativa, il
radicalismo islamico si sviluppa sull'humus di queste tensioni sociali e
politiche delle masse subalterne dell'area, specie di quelle più
giovani e perciò più disponibili a mettersi in movimento.
Le vicende del popolo palestinese sono esemplificative di quanto detto,
con il progressivo declino di Al Fatah e delle organizzazioni di
sinistra e marxiste e l'affermazione di varie correnti dell'islamismo
radicale, inizialmente favorite da Israele, secondo il principio cardine
dell'imperialismo classico, il romano divide et impera. Da
sempre l'imperialismo occidentale ha cercato di mettere in pratica
questo principio nell'area medio-orientale, dove gli stati sorti nel
periodo post-coloniale, dal Libano alla Siria all'Iraq, sono un assurdo
patchwork di etnie e gruppi religiosi derivato dagli accordi segreti
stipulati nel 1916 tra Francia e Gran Bretagna per la spartizione di
quelle aree. In tempi a noi più vicini, gli Usa hanno alimentato lo
scontro tra laici e religiosi, tra arabi e persiani, tra sunniti e
sciiti, proprio a partire dalla guerra tra Iraq e Iran (1980 – 1988),
allorché spinsero l'Iraq arabo del laico Saddam Hussein ad attaccare
l'Iran persiano e islamico-sciita. Più tardi, dopo l'eliminazione
definitiva di Saddam Hussein e dello Stato iracheno da parte degli Usa
con l'invasione del 2003, verrà alimentato anche in Iraq lo scontro tra
sunniti e sciiti, sciogliendo l'esercito iracheno, l'unica
organizzazione veramente nazionale, e favorendo la parte sciita a danno
dei sunniti.
La conseguenza è che oggi tutta l'area medio-orientale è una polveriera
frantumata in gruppi religiosi ed etnici diversi e in lotta tra di loro.
Dal punto di vista della nostra analisi, però, l'aspetto che è più
importante cogliere è che nel tempo si è stabilita una sorta di
alleanza, apparentemente innaturale, tra alcune correnti del radicalismo
islamico, in particolare il jihadismo, e l'imperialismo occidentale.
Una alleanza non del tutto nuova, visto che il 14 febbraio 1945, a
margine degli accordi di Yalta, che avevano lo scopo di ridefinire gli
assetti mondiali in previsione della imminente sconfitta di Germania e
Giappone, si tenne uno storico incontro tra il presidente Roosvelt e il
monarca Ibn Saud. In quell'occasione, l'Arabia Saudita fu inserita nel
nuovo assetto mondiale come fornitore di petrolio e alleato strategico
dell'imperialismo occidentale a guida Usa. L'alleanza tra gli alfieri
occidentali dei diritti umani e delle libertà individuali e i Saud è
continuata da allora, sebbene l'Arabia Saudita, coerentemente con la sua
interpretazione wahabita dell'Islam, non pare tenga in gran conto
libertà e diritti, a partire da quello all'eguaglianza tra uomo e donna.
È bene ricordare, inoltre, che l'Arabia Saudita svolse un ruolo
importante nella lotta contro l'Urss e che molti combattenti sauditi che
poi formeranno gruppi jihadisti, tra cui Osama Bin Laden, fecero le
loro prime esperienze belliche in Afghanistan contro l'Armata Rossa.
La storia recente evidenzia come la convergenza tra imperialismo
occidentale e importanti settori del radicalismo islamico jihadista
avviene proprio a partire dalla condivisione dell'obiettivo strategico:
la disintegrazione degli Stati laici e il dissolvimento del nazionalismo
arabo e panarabo. Per l'imperialismo occidentale si trattava di
eliminare formazioni statuali (Iraq, Siria, Libia) che erano di ostacolo
ai suoi progetti di dominio e di controllo dell'area mediterranea e
medio-orientale, fondamentale sul piano geostrategico e soprattutto
energetico. Per il radicalismo islamico, si trattava di eliminare quegli
stati-nazione arabi che giudica il prodotto di una secolarizzazione
esterna che non riconosce il principio della sovranità divina. Alla base
della riflessione degli ideologi radicali dell'inizio del XX secolo,
tra cui l'egiziano e fondatore dei Fratelli musulmani Qutb e il
pakistano Mawdudi, c'è la jahilyya, la concezione che le
società islamiche sono tornate allo stato di ignoranza precedente
all'avvento del Profeta a causa dell'adozione dei modelli occidentali,
da cui deriva l'insuccesso delle società e degli Stati arabi nati dopo
la decolonizzazione. È evidente che, per gli aspetti antimoderni e
antioccidentali, il rapporto tra certe correnti del radicalismo arabo,
come il jihadismo, e l'imperialismo occidentale appare contraddittorio,
conflittuale e temporaneo, spesso limitato alla lotta contro il nemico
comune di turno, sia esso Assad o Gheddafi.
4. Il radicalismo islamico come fenomeno non omogeneo dal punto di vista ideologico e sociale
Ad ogni modo, quando parliamo di radicalismo islamico bisogna essere
consci che includiamo in un unico fenomeno orientamenti diversi, che si
differenziano non solo sul piano della dottrina, ma anche sul piano
sociale e dei riferimenti di classe. Per comodità possiamo distinguere i
vari orientamenti sulla base di due grandi differenziazioni. La prima
suddivisione è tra neotradizionalisti e radicali, e si riscontra
soprattutto nei metodi di lotta. I neotradizionalisti mirano a
conquistare la società e islamizzare la società dal "basso", dal
sociale, attraverso la predicazione e l'attività assistenziale e di
carità, che si è enormemente sviluppata grazie ai donativi delle
petromonarchie arabe. Ma i neotradizionalisti, quando si sono dati una
forma di partito, si sono trovati stretti tra le critiche di
collaborazionismo con i governi "empi" da parte dei radicali e la
repressione delle forze armate dello Stato, che non ne hanno quasi mai
riconosciuto la vittoria elettorale, come accaduto al Fis in Algeria
negli anni '90 e nel 2013 ai Fratelli musulmani in Egitto, dove il
presidente eletto Morsi è stato destituito con un colpo di stato
militare.
I radicali, invece, pensano che sia possibile islamizzare la società
solamente dall'"alto", attraverso la conquista dello Stato, che deve
essere rapida e violenta. Caratteristica di questa corrente è stata
sempre la mancanza del collegamento con un vero movimento di massa e
l'autonomia dalla guida religiosa tradizionale degli ulema. La progressiva alienazione dal contesto sociale ha portato questi gruppi, tra i quali è al-Qaida,
all'utilizzo delle azioni violente individuali e spettacolari, allo
scopo di assumere, grazie al risalto mediatico, il ruolo di campione
della causa araba. Infatti, per questi gruppi, il dovere principale e
individuale del musulmano è il Jihad, inteso come guerra permanente
contro infedeli e presunti apostati[13].
La seconda divisione è quella tra due modelli che coincidono con i due
più importanti Stati islamici dell'area Medio-Orientale, l'Arabia
Saudita e l'Iran. L'Arabia Saudita, che assume un ruolo più egemone con
la vittoria araba nella guerra contro Israele del 1973, rappresenta
nell'islamismo il polo conservatore. La concezione saudita dell'Islam è
fondato sull'autorità degli ulema di osservanza wahabita,
ovvero sul ritorno all'Islam primitivo e sull'applicazione rigorosa
delle norme della legge islamica, la sharia. Obiettivo dell'Arabia
Saudita è "wahabizzare" il mondo islamico, fondandosi sulla sua enorme
ricchezza. La reazionaria Arabia Saudita, che è il principale produttore
e possessore mondiale di riserve di petrolio, è legata sul piano
economico e politico agli Usa e all'Europa Occidentale. L'enorme
liquidità in dollari dell'Arabia Saudita e delle altre monarchie arabe,
generata dall'enorme surplus commerciale ottenuto grazie alla rendita
petrolifera, fluisce sulle principali piazze finanziarie occidentali,
come Londra, dove ha contribuito a determinare la creazione del mercato
finanziario mondiale a partire dagli anni '70.
I debiti pubblici Usa e occidentali sono finanziati e numerose imprese
transnazionali occidentali sono partecipati dalle petromonarchie arabe,
spesso attraverso i rispettivi fondi sovrani. La classe dominante delle
petromonarchie è una classe di rentiers parassitari di tipo feudale, che
si sono integrati con la classe capitalistica transnazionale del centro
del sistema capitalistico. Allo stesso tempo, l'Arabia Saudita, è
sempre stata legata sul piano ideologico e pratico con l'estremismo
fondamentalista sunnita e in particolare con il jihadismo, anche se non
senza frizioni e contraddizioni. Come quelle che si determinarono
quando, in occasione della Prima guerra del Golfo nel 1990, molti
jihadisti si allontanarono dai loro sponsor sauditi, perché questi
avevano permesso la presenza di un esercito infedele, le truppe Usa, sul
territorio che ospita i luoghi santi della Mecca e di Medina.
Dalla fine degli anni '70 l'Arabia Saudita ha ingaggiato una lotta
feroce per il predominio sull'islamismo con l'Iran, la cui rivoluzione
islamica del 1979 assunse un ruolo dirompente nell'area medio-orientale.
Infatti, la rivoluzione iraniana, che ebbe la sua base di classe tra le
masse povere iraniane, è stata forse l'ultima rivoluzione
antimperialista di successo del ciclo storico della decolonizzazione.
Nello stesso tempo, è stata precorritrice dei tempi, sostituendo
l'islamismo al nazionalismo laico o socialista come strumento
ideologico-politico della lotta contro l'imperialismo occidentale. Per
la verità, inizialmente la rivoluzione ebbe anche una forte componente
laica e di sinistra. Però, nel corso della guerra contro l'Iraq, l'ala
più giovane e politicizzata del clero sciita, guidata dall'Imam Khomeyni,
e i pasdaran, una forza militare d'élite di ispirazione religiosa ma di
composizione laica, conquistarono la completa egemonia. Ad ogni modo,
l'islamismo di matrice khomeynista si oppose da subito non solo alle
classi dirigenti laiche compromesse con l'imperialismo ma anche a quelle
musulmane conservatrici (a partire dai sauditi) dei Paesi arabi,
accusandole di nascondere dietro il rigorismo religioso il loro appoggio
all'Occidente. Di conseguenza, la rivoluzione iraniana fu
immediatamente contrastata dall'Arabia Saudita e dall'imperialismo
occidentale che spinsero l'Iraq di Saddam Hussein contro di esso.
L'Arabia Saudita, che appartiene all'islamismo sunnita, ha avuto buon
gioco a contrastare le mire degli iraniani sciiti a esportare la loro
rivoluzione, perché lo sciismo nel mondo musulmano è minoritario e
considerato una aberrazione da molti sunniti. Tuttavia, gli iraniani
sono riusciti a penetrare dove la presenza sciita è più consistente e
in particolare ad islamizzare due importanti conflitti mediorientali,
che fino ad allora avevano incarnato la causa nazionalistica araba,
quello palestinese e quello libanese, come dimostrato dal legame
esistente tra Hamas, Hizbollah e l'Iran.
L'Iran islamico è stato ed è tutt'altro che uno Stato progressista,
caratterizzandosi per la violenta e sanguinosa eliminazione delle
formazioni laiche e di sinistra e in particolare del partito comunista,
tutt'ora illegale. Inoltre, mentre la spinta rivoluzionaria nel tempo si
è venuta affievolendo, si è formata una borghesia nazionale, che
coincide in parte con la complessa rete industriale e infrastrutturale
creata dai pasdaran, e che mantiene la pace sociale con erogazioni di
welfare alle classi subalterne grazie alla rendita petrolifera. Al di là
degli orientamenti religiosi, gli interessi statuali ed economici
dell'Iran, anch'esso potenza petrolifera, configgono con quelli
dell'Arabia Saudita, determinando una lotta per l'egemonia regionale,
che si riflette, alimentandoli, nei conflitti settari tra sciiti e
sunniti in Medio-Oriente. Il caso più recente è quello dello Yemen dove
milizie sciite stanno mettendo in seria difficoltà il presidente
sostenuto da Usa e Arabia Saudita, che più volte è intervenuta
militarmente in quel Paese.
Data l'importanza dell'islamismo nella comprensione della situazione di
diffusa conflittualità del Medio-Oriente è bene, però, tenere conto di
una importante differenza tra le radici teoriche dello sciismo,
declinato in chiave khomeynista, e quelle del sunnismo radicale. Per i
sunniti radicali gli oppressori sono sempre i non musulmani e gli
oppressi coincidono sempre con i musulmani. Secondo questa visione, alla
casa o regno dell'Islam si contrappone la casa o regno della guerra che
coincide con i Paesi non islamici. Viceversa, per l'ideologia
khomeynista non c'è una identificazione netta degli oppressori con i
non musulmani, né degli oppressi con i musulmani. Il khomeynismo
rappresentò anche una rottura con la tradizione quietista sciita a
favore di un Islam improntato a una visione militante e alla "giustizia
sociale". Oggi, l'Iran è una repubblica in cui sono presenti tendenze
politiche e ideologiche differenziate e una articolazione e suddivisione
del potere inimmaginabili nelle monarchie assolutistiche dell'area, in
particolare in Arabia Saudita. Inoltre, il Paese mantiene rapporti
economici e politici con la Russia e la Cina e un posizionamento
geostrategico non certo favorevole all'imperialismo occidentale, per il
quale rimane una spina nel fianco nell'area strategica del Golfo
Persico, la principale del mondo per le materie prime energetiche.
Tuttavia, l'amministrazione Obama, rispetto a quella di Bush, negli
ultimi tempi sembrerebbe caratterizzata da un atteggiamento di maggiore
apertura nei confronti dell'Iran, probabilmente ispirata alla
consapevolezza della difficoltà a controllare le dinamiche dell'area
senza coinvolgere la potenza regionale iraniana.
Un altro esempio della forte differenziazione politica all'interno del
radicalismo è rappresentato dal partito sciita libanese Hizbollah[14].
La nascita di questo partito si innesta nel filone sciita
rivoluzionario e fu favorita dall'Iran. Hizbollah si è evoluto fino ad
assumere un ruolo non settario e sempre più nazionale, dando priorità
alla difesa unitaria del Libano contro l'imperialismo Usa e contro gli
attacchi israeliani, come accaduto con successo nel 2006. Obiettivo di
Hizbollah è la ricostruzione della società e di uno stato nazionale
libanese nel quadro di una collaborazione tra le componenti
confessionali. A questo proposito, è significativa la posizione espressa
nel 1983 da Ibrahim al-Amin, portavoce del partito: "Noi non
discriminiamo tra musulmani e cristiani nel nostro rifiuto
dell'oppressione"[15].
Infatti, Hizbollah ha collaborato in particolare con il Partito
comunista e i cristiani del generale Aoun, e in un documento del 2009
presenta il Libano come "modello di convivenza tra seguaci delle
religioni monoteiste". A questa concezione fa riscontro una posizione
altrettanto aperta sul piano internazionale, basata sulla collaborazione
con le forze politiche laiche dei Paesi arabi e con Stati non arabi a
livello internazionale, che ha portato Hizbollah ad appoggiare Venezuela
e Cuba contro gli Usa. La concezione nazionale, il radicamento di massa
e la lotta di popolo, che caratterizzano Hizbollah, avvicinandolo ai
movimenti di liberazione nazionale degli anni '50 e '60, sono molto
diverse dall'universalismo e dai metodi di lotta basati sull'azione
eclatante e individuale che sono propri dei gruppi jihadisti.
Quanto detto, sebbene non costituisca certamente un quadro esaustivo di
un fenomeno complesso come il radicalismo islamico, credo, però, sia
sufficiente a darci una idea di quanto il radicalismo islamico comprenda
orientamenti politici e ideologici che si pongono in modo molto diverso
rispetto all'imperialismo e che rappresentano classi sociali diverse.
Studiare e capire l'islamismo e il radicalismo islamico diventa
necessario se si vogliono affrontare con efficacia non solo i problemi
internazionali ma anche quelli interni europei.
5. Il vero problema è il ruolo dell'imperialismo e la sua tendenza alla guerra
Quella nella quale ci troviamo è un fase storica nuova, caratterizzata
da due fenomeni, la crisi strutturale del modo di produzione
capitalistico e la mondializzazione dell'economia. La crisi si manifesta
soprattutto nei paesi a sviluppo capitalistico più antico, l'Europa
occidentale, gli Usa e il Giappone. Al declino delle aree centrali del
sistema economico mondiale corrisponde la rapida crescita dei paesi
cosiddetti emergenti, tra i quali Brasile, Russia, India e soprattutto
Cina. La quota del Pil mondiale degli emergenti balza dal 16,8% del 1970
al 36,9% del 2011 (la Cina passa dal 2,7 al 12,5%), viceversa la quota
degli Usa nello stesso periodo crolla dal 32,2% al 22,7% e quella della
Ue scende dal 25,9% al 23,3%[16].
Come sempre accade, quando si verifica una crescita diseguale, si
determina una spinta a modificare i rapporti di forza economici, e con
essi quelli politici e militari, dato lo stretto nesso esistente tra
economia e potere territoriale degli Stati. È a tale ridefinizione dei
rapporti di forza che l'Occidente, cioè l'asse atlantico Usa-Europa
occidentale[17],
si oppone utilizzando tutte le leve su cui conserva un predominio, la
finanza, la tecnologia, l'informazione e soprattutto la forza militare.
La lotta contro gli emergenti, in particolare contro la Cina e la
Russia, viene condotta in modo indiretto, soprattutto nelle aree
strategiche, quali sono il bacino del mediterraneo e l'area del Golfo
persico. Il controllo di queste due aree, dove ci sono le riserve di
petrolio e di gas più estese e più facilmente estraibili del mondo, è
fondamentale da molteplici punti di vista. Il petrolio mediorientale è
importante per il rifornimento dei Paesi europei occidentali e
dell'Estremo Oriente, Cina e Giappone incluse. Per gli Usa, che non si
approvvigionano di petrolio in quest'area, il controllo del Medio
Oriente e del bacino del Mediterraneo è vitale come strumento di
egemonia mondiale e persino per poter sopravvivere come potenza
economica. Il controllo sulle risorse energetiche non solo gli permette
di esercitare una influenza indiretta sulle altre economie
industrializzate, ma gli consente anche di esercitare un controllo sul
mercato finanziario mondiale. Infatti, se gli Usa riescono a finanziare i
loro due enormi debiti gemelli, quello del commercio estero e quello
pubblico, è perché il dollaro è la valuta mondiale di scambio e di
riserva mondiale. Le banche centrali di tutto il mondo acquistano
quantità massicce di titoli del tesoro degli Usa, finanziandone così il
debito pubblico e l'economia.
Il punto è che il declino economico relativo degli Usa mette in
difficoltà l'egemonia del dollaro, che rimane valuta mondiale fintanto
che è usata per commercializzare le merci più importanti, e la merce più
importante è senz'altro il petrolio. Per questo gli Usa devono
controllare il mercato mondiale del petrolio, cosa che non si può fare
se non si controlla il petrolio mediorientale. Non fu un caso, infatti,
che Saddam Hussein firmò la sua condanna nell'ottobre del 2000, quando
convertì in euro il conto che aveva presso le Nazioni Unite nell'ambito
del programma oil for food. Né è un caso che gli iraniani
abbiano usato più volte la minaccia di stabilire nelle isolette del
Golfo Persico una borsa indipendente che trattasse il petrolio in valute
diverse dal dollaro[18].
Quindi, per gli Usa, come per l'imperialismo in genere, l'obiettivo non è
necessariamente quello di esercitare un controllo su una certa area o
di esercitarlo esclusivamente per sfruttarne le risorse minerarie a
proprio beneficio. L'obiettivo può essere anche quello di sottrarre un
area al controllo dei concorrenti o impedire che ne usino liberamente le
risorse. In quest'ottica, acquista un senso, più che la realizzazione
di un nuovo ordine mondiale "neocoloniale", la disgregazione degli
assetti statuali dell'area. La frantumazione degli Stati nazionali
preesistenti in mini entità para-statuali di natura confessionale e in
rivalità permanentemente è coerente con gli obiettivi di fondo
dell'imperialismo occidentale. Questo non accade, almeno fino ad ora,
attraverso un uso dispiegato e diretto della forza, bensì attraverso
guerre economiche e proxy war, ovvero guerre "per procura", combattute da altri.
Questi altri possono andare dalle truppe regolari di Stati-clienti
(Arabia Saudita, ecc.), alle milizie di minoranze etniche ribelli, ai
gruppi settari islamici, fino ai gruppi jihadisti. Gli stati falliti,
secondo l'espressione oggi tanto in voga, certo non falliscono da sé, ma
vengono fatti fallire attraverso l'ingerenza occidentale. Certamente,
come abbiamo rilevato sopra, esistono specificità religiose, etniche e
socio-economiche di questi paesi che rappresentano un terreno fertile di
contraddizioni e conflitti. Quindi, non si può affermare che movimenti e
rivolte nascano per semplice decreto dei servizi segreti occidentali.
Tuttavia, senza l'intervento dell'imperialismo, nelle modalità che
abbiamo descritto sopra, ben difficilmente quelle contraddizioni
avrebbero determinato da sole la deflagrazione di molti Stati. Inoltre,
l'egemonia delle rivolte in alcuni Paesi è rapidamente passata dalle
forze "democratiche", spesso solo presunte tali, alle milizie islamiche e
jihadiste, sostenute e favorite dalle petromonarchie e dalle potenze
occidentali. Il Libano, un paese che trent'anni fa con il termine di
"libanizzazione" era diventato sinonimo di guerra civile di tutti contro
tutti, è la migliore dimostrazione controfattuale di quanto diciamo.
Oggi, grazie alla presenza di forze islamiche che si sono evolute
diversamente da quanto è successo altrove, mettendo al primo posto la
lotta unitaria nazionale contro l'imperialismo, il Libano non è più un
caos di opposti settarismi.
Il fattore, che, in ultima istanza, possiamo rintracciare alla radice di
quanto accade è la crisi strutturale del modo di produzione
capitalistico, che proprio nei suoi punti più alti di sviluppo vede una
tendenza permanente al calo del saggio di profitto. Nei Paesi centrali
si determina così una stagnazione dell'attività produttiva e una
attitudine sempre più parassitaria, che, ricorrendo continuativamente
alla speculazione e producendo continue bolle finanziarie, porta alla
putrefazione del sistema economico. Nello stesso tempo, all'interno di
questi Paesi si produce una concentrazione del potere economico nelle
mani di élite molto internazionalizzate nei loro legami e rapporti
economici, cui corrisponde una concentrazione del potere politico
mediante una trasformazione oligarchica delle istituzioni statali.
Contemporaneamente, all'esterno si rafforza la tendenza all'espansione,
sia attraverso la prevalenza delle esportazioni e degli investimenti di
capitale all'estero, sia attraverso la lotta per la conquista e il
controllo delle materie prime e dei mercati di sbocco. Pure centrale è
il controllo dei flussi finanziari, che, come abbiamo visto sopra a
proposito del rapporto Usa-Arabia Saudita, permettono ai paesi egemoni
di attrarre il surplus commerciale mondiale sulle proprie piazze
finanziarie, a partire da Londra e New York. In tale contesto, si
determina un aumento della concorrenza tra imprese e tra aree economiche
sovrannazionali, che coincidono con specifiche frazioni del capitale
internazionale. Tale concorrenza non si combatte soltanto attraverso i
meccanismi impersonali del mercato mondiale autoregolato. Si avvale
anche della forza degli Stati, in particolare di quelli più grandi e
forti, che aumentano la loro capacità di intervento, anche militare,
all'estero. Del resto, la dottrina militare occidentale definisce il
periodo attuale come expeditionary era, l'epoca delle spedizioni militari.
Sono queste le radici economiche e sociali dell'imperialismo, ovvero
della tendenza all'espansione, tipica dello stadio di sviluppo più
avanzato del capitalismo. Oggi, dal punto di vista del rapporto tra
centro dominante e periferia dominata, siamo di fronte ad una nuova fase
dell'imperialismo. La prima fase, tra la metà dell'800 e la Seconda
Guerra Mondiale, fu caratterizzata dal dominio diretto e territoriale
degli Stati europei sulla periferia attraverso il colonialismo. La
seconda fase è stata caratterizzata dalla decolonizzazione ed è stata
influenzata dalla rivoluzione d'Ottobre e dalla spinta che ne è derivata
sulle periferie mondiali per la lotta di liberazione nazionale contro
l'imperialismo. La terza fase, nella quale ci troviamo e che si è aperta
con il crollo dell'Urss e con la creazione di un mercato mondiale, è
caratterizzata dal tentativo dei paesi imperialisti di annullare le
conseguenze della decolonizzazione.
Contemporaneamente, però, la mondializzazione ha aperto anche un
rimescolamento dei rapporti di forza e una accentuazione della
competizione mondiale. Tutti questi fattori, a partire
dall'indebolimento relativo dei centri di potere tradizionali e
dall'emergere di nuovi poteri regionali, determinano una tendenza alla
guerra che sta assumendo un carattere permanente. Infatti, questa
tendenza non è un fattore congiunturale, ma è una caratteristica
strutturale dell'Occidente, ormai connaturata ai suoi meccanismi di
riproduzione economica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una
situazione di caos che è ormai degenerata e che, nell'epoca della
globalizzazione, non può non ripercuotersi dalle devastate e più vicine
periferie, il Nord Africa e il Medio-Oriente (ma anche l'Ucraina), fino
all'interno delle stesse cittadelle del capitalismo europeo.
Gli eventi tragici di Parigi si sono tradotti in una chiamata alle armi,
nella preparazione del terreno ideologico ed emotivo per dare luogo ad
ulteriori passaggi in quella guerra permanente in cui l'Occidente si è
da tempo imbarcato, e che nasce non dall'esterno ma dai suoi problemi e
dalle sue contraddizioni. Probabilmente la preparazione del terreno per
possibili interventi sul campo di truppe di terra europee e occidentali,
come Renzi ha prospettano esplicitamente a proposito della Libia, e
come la Francia ha fatto, operando da sola, in Mali. L'individuazione
del nemico islamico è declinata in modo duplice: in modo rozzo, come
fanno i partiti xenofobi e di estrema destra, e in un modo più raffinato
e articolato da parte dei circoli dominanti del capitale
transnazionale. È il pensiero, realmente egemonico, di questi ultimi
che, pur predicando ipocritamente la tolleranza verso l'immigrato
extraeuropeo e l'Islam, ci racconta la mistificazione di un conflitto
tra l'illuminismo razionale e tollerante dell'Europa e l'oscurantismo
barbarico dell'Islam integralista. Una narrazione che si innesta nella
tradizione culturale europea, che, risalendo alla guerra tra Grecia e
impero persiano, oppone l'Occidente della libertà e della democrazia
all'Oriente del dispotismo. L'imperialismo dell'Occidente, però, è la
tendenza al dominio e non alla libertà, l'affermazione
dell'irrazionalità e non della razionalità.
Non è, quindi, un paradosso che l'imperialismo occidentale trovi una
convergenza con regimi assolutistici come l'Arabia Saudita e alimenti le
tendenze del radicalismo islamico più retrive e indiscriminatamente
violente. Per questo è importante distinguere tra l'Islam, inteso come
religione, e il radicalismo islamico, di cui, inoltre, va capita la
natura di fenomeno politico e sociale multiforme e differenziato.
Altrettanto importante, anche a fronte dei fantasiosi piani dello Stato
Islamico (Is) di invasione dell'Europa, è valutare correttamente la
forza e l'influenza sulla realtà mondiale infinitamente maggiori, a
tutti i livelli, che l'imperialismo occidentale possiede rispetto al
radicalismo islamico. La contraddizione principale, quindi, è quella che
oppone l'imperialismo alle masse di salariati e di poveri che abitano
le sue periferie sia interne che esterne. Ed è sempre l'imperialismo,
espressione della crisi e della tendenza aggressiva dei rapporti di
produzione capitalistici ormai dominanti a livello mondiale, ad essere
l'ostacolo principale alla risoluzione dei conflitti e alla pace.
Mentre nella fase della decolonizzazione e fino agli anni '70 esisteva
un legame politico, e finanche forme di coordinamento, tra le lotte del
centro e della periferia, oggi questo legame è stato spezzato. Il
radicalismo islamico è un effetto e una causa di questa interruzione e
del venire meno di un movimento internazionale che condivideva la
critica all'imperialismo e un orientamento socialista. Il problema
maggiore del radicalismo islamico risiede nella sostituzione della
contraddizione economico-sociale tra oppressi e oppressori e tra
sfruttati e sfruttatori con quella tra veri credenti e
infedeli/apostati, che si traduce in scontro tra orientamenti religiosi
anche all'interno della stesso campo islamico. I risultati sono
devastanti non solo per la sinistra e i popoli arabi, che sono
precipitati in un vortice di conflitti tra settarismi religiosi e tra
aspiranti potenze egemoniche regionali, ma anche per i popoli europei,
arruolati nello scontro di civiltà, e per la sinistra europea che si
ritrova priva di un indirizzo politico e ideologico valido. Anche se
condotta in buona fede e con le migliori intenzioni, la critica
"illuministica" e "libertaria" all'Islam come religione e come sistema
di credenze rischia di essere, nel migliore dei casi, una critica che
porta lo scontro nella direzione sbagliata.
La strada per l'emancipazione non passa per il conflitto di culture e di
civiltà, una melma all'interno della quale sguazzano con eguale
disinvoltura soltanto l'imperialismo e il retrogrado settarismo
jihadista. Viceversa, il problema centrale dell'epoca attuale è la
capacità di recuperare un pensiero e una pratica politica che riescano a
riproporre la prospettiva dell'emancipazione sociale e politica insieme
al centro e alla periferia del sistema capitalistico, e, nel nostro
caso specifico, sulla sponda nord e sulla sponda sud del Mediterraneo.
Però, tale capacità si dovrà misurare prima a casa nostra, in Europa,
attraverso la ricomposizione delle fratture economiche, politiche,
etniche e culturali esistenti all'interno del lavoro salariato. Il che
vuol dire darsi gli strumenti giusti per operare nelle nostre periferie
in direzione di un coinvolgimento nella lotta politica dei lavoratori
stranieri e delle seconde generazioni, che rappresentano una quota
sempre meno trascurabile delle classi subalterne anche nel nostro Paese.
Domenico Moro
Nota bibliografica
Aa. Vv., The Prophet Muhammad and Human Dignity, Publication of Religious Affairs Directorate - 940, public books:229, Ankara 2013.
Nino Arconte, Il nostro golpe contro Bourghiba, "Limes" n.4, luglio 2007
Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2007.
Kayhan Barzegar, Il fattore sciita, "I quaderni speciali di Limes", supplemento al n.6/2007.
Abtellatif e Yacine Benachenhou, Ambiente e sviluppo. Strategie per il futuro, Jaka book, Milano 2000.
Paolo G. Conti – Elido Fazi, Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell'impero americano, Fazi editore, Roma 2007.
F. Engels, Le origini del cristianesimo, Editori Riuniti, Roma 1975.
Henrik Grossmann, Il crollo del capitalismo, Mimesis Milano-Udine 2010.
Lenin, L'imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
Stefano Mauro, Il radicalismo islamico, Edizioni clandestine, Marina di Massa 2007.
Karl Marx, Scritti filosofici giovanili, Fabbri editori, Milano 1998.
Piero Messina, La Tunisia in Bilico, Limes n.3/2007.
Nicolao Merker, Karl Marx, Editori Laterza, Roma-Bari 2010.
Domenico Moro, La crisi e le rivolte in Nord Africa, "Economia e politica", 1 marzo 2011.
Frederic Pichon, Laicité cattolica e jihadisti secolari: la maionese francese è impazzita, Limes, n.1 2015.
Nicola Pedde, Chi comanda in Iran? "I quaderni speciali di Limes", supplemento al n.6/2007.
Giuseppe Sacco, La Francia e i suoi figliastri, Limes, n.1 2015.
Steven Simon, Che cos'è il terrorismo georeligioso, I quaderni speciali di Limes, supplemento al n.4/2001.
Note:
[1] Nino Arconte, Il nostro golpe contro Bourghiba, in "Limes" n.4, luglio 2007
[2] Marco Platero, Duello al Qaeda-Isis, nuova sfida per gli Usa, Il Sole24ore, 11 gennaio 2014
[3] A. Negri, Decisivo il ruolo della Turchia, Il Sole24ore, 16 gennaio 2015.
[4]
Il termine ideologia non va inteso nell'accezione negativa e ormai
prevalente di pura mascheratura dottrinaria, di falsa coscienza. Con
questo termine intendiamo, invece, riferirci a sistemi coerenti di idee,
che esprimono una determinata visione del mondo. Queste visioni del
mondo esprimono aspirazioni, interessi e cultura di determinati gruppi e
classi sociali in un certo periodo, ma non sono un puro riflesso di
questi gruppi e classi, avendo una relativa autonomia.
[5]
L'espressione deriva dall'omonimo romanzo di Jack London, sulle
condizioni delle fasce più basse del proletariato londinese ai primi dei
Novecento.
[6]
Nel 2012 (ultimo anno considerato da Eurostat) il tasso di fecondità in
Francia era di 2,01 figli per donna, contro una media nell'area euro di
1,55, che in Italia scendeva a 1,43.
[7] Questi concetti e quelli che seguono sono espressi in K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione.
[8] Nicolao Merker ha sottolineato recentemente questo aspetto della concezione marxiana della religione in Karl Marx. Vita e opere, Laterza, 2010, p. 47.
[9] L'esempio più alto fu il Black Panther Party.
[10] Domenico Moro, La crisi e le rivolte in Nord Africa,
"Economia e politica", 1 marzo 2011.
http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/la-crisi-e-le-rivolte-in-nord-africa/#.VMqHHdKG9mU
[11] UN data.
[12] A. e Y. Benachenhou, Ambiente e sviluppo, Jaca Book, 2000.
[13]
Per i jihadisti il Jihad – letteralmente lotta per la fede – ha un
valore più esteso di quello che generalmente assume nell'Islam, dove è
inteso come dovere sociale di difesa dei luoghi santi e del territorio
abitato dai popoli musulmani da minacce esterne. Il jihadismo moderno si
basa sulla concezione di Qutb, che riprenderebbe, secondo alcuni, il
teologo medioevale Ibn Taymmiyya. Stando all'interpretazione jihadista,
il significato di Jihad è quello di guerra per la liberazione del mondo
dal male, che si traduce in un conflitto armato permanente contro gli
"stati empi", che non sono solo gli stati occidentali ma anche gli stati
arabi secolarizzati e non genuinamente islamici. Secondo la componente
egiziana del jihadismo il nemico "vicino", ovvero i governi arabi laici o
musulmani moderati, è quello principale, mentre il nemico "lontano",
Israele, è il nemico secondario. Ne consegue che prima deve essere
annientato il nemico "vicino". La componente saudita, quella di Bin
Laden, invece, mette sullo stesso piano nemici vicini e lontani, ponendo
il Jihad su di un livello universalistico. Vedi Steven Simon, Cos'è il terrorismo georeligioso, Quaderni speciali d Limes n.4/2001.
[14] Su Hizbollah vedi Stefano Mauro, Il radicalismo islamico. Hizbollah da movimento rivoluzionario a partito politico, Edizioni Clandestine, Marina di Massa, 2007.
[15] Cit. in Mauro, Il radicalismo islamico, p. 107.
[16] Unctad Statistics.
[17]
Per ragioni di semplicità e di economia espositiva, in questa sede non
entriamo nel merito delle divisioni, dei contrasti e della gerarchia
all'interno dell'asse atlantico Europa occidentale-Stati Uniti. In
questa sede consideriamo quest'asse come un unico imperialismo
occidentale, sebbene in qualche passaggio abbiamo cercato di far
emergere le differenze tra, ad esempio, la Francia e gli Usa. La
definizione se esista o meno un imperialismo europeo, distinto da quello
statunitense, necessita, data la sua complessità e importanza, di una
trattazione a parte.
[18] Su questi aspetti paolo C. Conti e E. Fazi, Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell'impero americano, Fazi editore, Roma 2007.
Domenico Moro
Resistenze.org
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