L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la
sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono
altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali
universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso
all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo
israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha
trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale».
Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali
dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali
città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno,
contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale
della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri,
mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con
piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone
rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini
sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».
Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati,
mentre i coloni israeliani irrigano i loro frutteti consumando anche 400
litri d’acqua al giorno
a persona, le comunità beduine devono cavarsela con 10-20 litri al
giorno, acqua di cisterna a bassa qualità. «Consapevoli della disastrosa
situazione dell’acqua nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di
Gaza – scrive Akleh in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”
– i paesi donatori hanno sostenuto gli sforzi dell’Autorità Palestinese
per sviluppare il settore idrico e igienico-sanitario, e hanno
destinato fondi per la costruzione di bacini idrici, impianti di
trattamento delle acque reflue, e per la riparazione e l’ampliamento
delle reti idriche e fognarie». Sono strutture vitali per la
popolazione, finanziate dall’Ewash, coalizione che raggruppa 30 Ong
internazionali. Eppure, annota Akleh, «con la sua lunga storia
di violazioni di molte leggi internazionali, grazie alla collaborazione
della sua società idrica nazionale Mekorot e della società
agro-industriale israeliana Mehadrin, il governo
israeliano ha adottato politiche discriminatorie sistematiche, gravi e
dannose, per ostacolare l’accesso all’acqua ai palestinesi in
Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, combinato con l’imponente furto
delle risorse idriche».
Un rapporto dell’Onu rivela che le società Mekorot e Mehadrin minano
gravemente l’accesso dei palestinesi all’acqua, in particolare nella
valle del Giordano, pompando l’acqua dei pozzi e delle sorgenti d’acqua
palestinesi verso le colonie illegali israeliane (insediamenti) in
Cisgiordania. «L’acqua palestinese è stata rubata e convogliata in
Israele a costo zero», poi una parte della “refurtiva” viene rivenduta
alle città palestinesi: «In questo modo Israele sta rubando ai
palestinesi sia la loro acqua che il loro denaro». Tel Aviv, continua
Akleh, esercita un potere
sottile: «Attraverso la lentezza della burocrazia, blocca la maggior
parte delle licenze e i permessi per i nuovi impianti idrici in
Cisgiordania, ponendo come condizione la reciproca approvazione da parte
dei palestinesi dei progetti nelle colonie illegali, gli insediamenti:
un accordo che l’Autorità Nazionale Palestinese rifiuta per paura di
legittimare queste colonie». Così, l’Anp non è stata in grado di
realizzare infrastrutture su larga scala per proteggere la popolazione:
tra il ‘95
e il 2011, i palestinesi si sono visti approvare solo 4 progetti su 30
per le acque reflue e appena 3 pozzi agricoli sui 38 richiesti nel solo
2011.
«A causa delle artificiose carenze di acqua imposte da Israele e
della mancanza di impianti di trattamento delle acque reflue e delle
reti fognarie, la maggioranza dei palestinesi ha dovuto ricorrere alla
vecchia pratica di costruire pozzi d’acqua privati, pozzi neri e fosse
settiche», racconta Akleh. «Nelle aree rurali i palestinesi dipendono
dalle vasche di raccolta d’acqua piovana, dalle cisterne e dai serbatoi
d’acqua. Ciò aumenta i timori per la salute pubblica e per i danni
all’ambiente». Non è tutto. «Oltre ai tempi prolungati della burocrazia
israeliana e al libero furto dell’acqua palestinese, il governo
israeliano ha adottato ed attuato politiche e pratiche immorali e
illegali, con l’obiettivo di distruggere le risorse idriche palestinesi e
di contaminare i loro terreni agricoli per stimolare l’auto-evacuazione
dei palestinesi da una zona ambita e la diffusione di una malattia
mortale tra i loro bambini cagionevoli». Anche per questo, l’esercito
israeliano «svolge ordinariamente quelli che vengono chiamati ordini di
demolizione di cisterne comunali e pozzi d’acqua in terreni agricoli
privati a causa di una presunta mancanza di autorizzazione». Molte di
queste cisterne «sono vecchie di centinaia di anni, più vecchie dello
stesso stato illegale di Israele», e includono «serbatoi di acqua
trainati da animali e da trattori».
Solo nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito 89 strutture “Wash”
in Cisgiordania, tra cui 21 pozzi, 34 cisterne e molti piccoli serbatoi
rurali nella valle del Giordano. «Tale demolizione comprendeva anche la
distruzione degli orti, delle stalle e delle baracche degli animali».
Una devastazione che viola l’articolo 53 della Quarta Convenzione di
Ginevra, che vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica, ed è
una chiara violazione del diritto all’acqua, tutelato dall’articolo 11
della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. «Il governo
israeliano – continua Akleh – utilizza questa negazione dell’accesso
all’acqua per innescare gli spostamenti delle persone, soprattutto nelle
zone che fanno parte del programma per l’espansione coloniale, in
particolare per il fatto che queste comunità sono composte per lo più
da agricoltori, che dipendono dall’acqua per
il loro sostentamento. Di solito, l’interruzione della fornitura delle
risorse idriche precede l’esproprio dei terreni per nuovi progetti
coloniali».
Il muro di separazione per l’apartheid israeliano, 700 chilometri in
costruzione dal 2002, «è stato deliberatamente deviato attraverso la
Cisgiordania per includere, nella parte israeliana, il ricco e fertile
terreno agricolo palestinese con grandi falde acquifere sotterranee, in
particolare all’interno delle provincie di Jenin, Qalqilya e Tulkarem».
Il muro, continua Akleh, ha ulteriormente ridotto l’accesso dei
palestinesi all’acqua e ha portato alla perdita di accesso a 49 pozzi e
serbatoi ad uso agricolo e domestico. A Gaza invece si usano i raid
aerei per bombardare le risorse idriche e gli impianti di trattamento
dell’acqua, le strutture fognarie, e persino le cisterne agricole
antecedenti all’istituzione dello Stato ebraico. «Dal 2005 le incursioni
militari israeliane hanno intenzionalmente distrutto almeno 300 pozzi
agricoli situati nella zona cuscinetto designata da Israele», devastando
anche serbatoi d’acqua sui tetti e molti chilometri di tubazioni e reti
d’irrigazione. Durante l’operazione “Piombo Fuso”, sono state rase al
suolo strutture idriche per un valore di 6 milioni di dollari.
«La situazione a Gaza è particolarmente terribile», sottolinea Akleh.
«I palestinesi si basano interamente sulla falda acquifera quasi
esaurita, contaminata da acqua salata e dalle acque reflue inquinate, la
cui acqua è inadatta al consumo umano». Il brutale assedio imposto da
Israele limita l’importazione di molti beni essenziali, tra cui il
combustibile necessario per il funzionamento dell’unica centrale
elettrica di Gaza. «Senza energia
elettrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue e le pompe
d’acqua in buono stato non possono funzionare, con il conseguente
inquinamento prodotto dalle acque reflue». Risultato: «Si stima che 89
milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad
aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai
limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il
pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto
alimentare». Fino al 95% dell’acqua estratta dalla falda costiera di
Gaza non è adatta al consumo umano. Molte famiglie ripiegano sull’acqua
di cisterna, che però è contaminata dai batteri: per
l’Onu, diarrea ed epatite virale sono le principali cause di morbosità
nella popolazione dei rifugiati della Striscia di Gaza.
Il danno peggiore alle risorse idriche palestinesi, ai loro terreni
agricoli e all’ambiente, è causato dai coloni, gli estremisti religiosi
ebraici armati fino ai denti, «guidati dalla loro religione di
suprematismo razzista e senza ostacoli», e protetti dal tacito
incoraggiamento del governo
di Tel Aviv. «Occupano illegalmente e con la forza le cime delle
colline dei terreni agricoli palestinesi, vi costruiscono le loro
colonie illegali e iniziano ad attaccare le comunità palestinesi
limitrofe». Veri e propri pogrom: attaccano le case palestinesi,
incendiano i loro raccolti e le stalle degli animali, confiscano le
sorgenti d’acqua. E poi «avvelenano i pozzi con sostanze chimiche, li
inquinano con i pannolini sporchi, con le proprie feci o con i polli
morti», giungendo a crivellare di colpi di serbatoi sui tetti, dopo
averli rovesciati a terra. Colonizzatori fanatici: «Sono i maggiori
produttori pro capite di acque reflue in Cisgiordania, e scaricano
grandi quantità di acque reflue direttamente nell’ambiente, contaminando il terreno agricolo adiacente e i corsi d’acqua ad uso agricolo».
Strategia: inquinare la campagna palestinese, scaricandovi le acque
fognarie senza alcuna depurazione, per favorire la propagazione di
malattie e sfrattare la popolazione. Secondo le Nazioni Unite, il
problema è devastante da quando ai palestinesi sono state strappate le
sorgenti: i coloni «hanno usato minacce, intimidazioni e recinzioni».
Israele, riassume Elias Akleh, sta deliberamente violando tutte le leggi
internazionali che ha sottoscritto: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr), il Patto internazionale sui diritti
civili e politici (Iccpr), la Convenzione internazionale
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
dell’infanzia (Crc), la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Quarta Convenzione
di Ginevra e il suo protocollo aggiuntivo sulla protezione delle vittime
dei conflitti armati, nonché molti dei regolamenti dell’Aja. Negare il
diritto all’acqua «è considerato un crimine di genocidio», per il quale
Israele «è molto famoso».
Fonte: Libreidee
Nessun commento:
Posta un commento
Avvertenze da leggere prima di intervenire sul blog Voci Dalla Strada
Non sono consentiti:
- messaggi pubblicitari
- messaggi con linguaggio offensivo
- messaggi che contengono turpiloquio
- messaggi con contenuto razzista o sessista
- messaggi il cui contenuto costituisce una violazione delle leggi italiane (istigazione a delinquere o alla violenza, diffamazione, ecc.)