Come ci ricorda Ivan Illich, il più grande pensatore del Novecento, il concetto di “sviluppo economico” nella sua accezione attuale fa la sua comparsa il 10 gennaio 1949, nel celebre “Discorso dei Quattro Punti” rivolto alla nazione dal presidente americano Truman, alla vigilia della ricostruzione post-bellica.
Fino ad allora, tale espressione era relegata all’evoluzione delle
specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e
in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più
disparate teorie sull’opportunità di inscatolare all’interno di quel
concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato
si ricordano i cosiddetti “pragmatisti”, coloro cioè
che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica
perseguibile; dall’altro lato, vi erano quelli che potremmo definire gli
“aspiranti politici”, prevalentemente intenti a
salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come
per esempio l’intima realizzazione di se stessi.
L’unico aspetto che accomunava
le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe
necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che
l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e,
con essa, una maggiore dipendenza dai consumi.
La cosa vagamente
ironica, ci ricorda sempre l’immenso Illich, è che ciascuno dei due
"schieramenti” utilizzava, in difesa delle proprie ragioni, la foglia di
fico della Pace. Tanto che, all’epoca, schierarsi contro lo sviluppo,
oppure contro quella che sarebbe diventata (come la chiamo io) l’ipnosi consumistica globale,
significava essere additati come nemici della Pace. Persino Gandhi fu
spesso rappresentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico,
tanto che molti suoi insegnamenti furono astutamente distorti
(e,aggiungo, violentati) nell’equivoco concetto di “strategia di
sviluppo non violento”.
Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani
del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi
della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata
surrettiziamente affiancata la suggestione sociale
dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e
dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i
viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro
derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza... La
postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti, l’illusoria prospettiva della panpossibilità:tutto sarebbe stato a portata di mano!
Questo new-deal era, fuori da ogni discussione, diabolicamente
perfetto: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello
sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni,
subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più
richiesto un loro radicale asservimento al mondo del lavoro. Utile o
inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o umiliante,
questo era di importanza, invece, nulla.
E le persone? Ci arriviamo...
Sempre
in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman, il maggior
sociologo vivente, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con
cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura
del manager. Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi
essere oggi un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che
questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo
scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà,
divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le
microfunzioni del processo produttivo. Il manager, diversamente da
quanto comunemente si crede, non è deputato a prendere decisioni, non
gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di
problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il
manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il
perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma
comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte
della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia
meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La
meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e
atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto...”).
La figura
del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di
organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo
definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto
rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base
produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico
“dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di
rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, implica per la
proprietà un assorbimento di risorse economiche che potrebbero
compromettere la salute stessa dell’organizzazione. O che, comunque,
potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Ma lo
sappiamo: come tutte le cose, la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi,
paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro
imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico
ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo
finalmente anche alle persone (che, come ormai sarà chiaro, occupano un
ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo).
La
produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al
numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo
strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma... senza
esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia
pur sempre di spezzarsi.
Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz,
grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare
(esponenziale), dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è
cresciuta nelle economie occidentali a ritmi forsennati. Molto
superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco
che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così
anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali.
Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di
mandarini, un stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un
qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi
occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta
e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la
tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamata manodopera
qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre
meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto).
Tuttavia,
proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel
decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione
aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto
ipocrita: la worklife balance (equilibrio lavoro-vita privata):
nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre
cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla
famiglia, al tempo libero, agli hobby...). Infine, è di un paio d’anni
fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustrata
da una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina
neoliberista: la work-life balance deve progressivamente essere
sostituita con la worklife integration: lavoro e vita privata non devono
cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano
vicendevolmente, bensì divengono due fasi della nostra vita che si
compenetrano simultaneamente. Così, per fre un esempio banale, nessuno
storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale
dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi
dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in
modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di
giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare,
24/7).
In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman,
“[...] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di
lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto
“libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività
della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso
seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed
esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro
tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e
della nostra assistenza.”
Questa è l’attuale situazione, cari amici
de “il Cambiamento”. Ve l’ha provata a delineare, per sommi capi, una
persona che, pesantemente radicata in questo mondo da una dozzina
d’anni, ha la presunzione di conoscerla piuttosto bene e che ha deciso
anche lui di fare il manager: cioè... osservando e riferendo.
Il mio think-net si chiama “Low Living High Thinking”.
Vivere basso e pensare alto è più di un semplice motto. E’ più che
altro un destino. Ed è comune. Solo che, purtroppo, ancora in molti non
lo sanno...
Di Andrea Strozzi
Il Cambiamento
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