Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa
che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati
segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i
governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo
ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo
per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del
Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche.
Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato
transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al
giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06%
l’aumento del Pil in Europa e negli Usa
con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete
il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria
regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di
Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più
importante.
Il boccone grosso del Trattato, infatti, è un altro: costringere gli
Stati a farsi da parte, lasciando che a dettar legge – ufficialmente –
siano i colossi dell’economia mondiale, a cominciare da quelli della finanza. Appena cinque anni dopo l’esplosione della crisi
dei subprime, americani ed europei sono d’accordo sul fatto che le
velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria hanno fatto il
loro tempo: il quadro che vogliono delineare, attraverso il nuovo
Trattato Transatlantico, il devastante dispositivo legale destinato a
sconvolgere lo scenario europeo e la residua libertà dei nostri Stati,
prevede di eliminare tutti gli ostacoli in materia di investimenti a
rischio. Vogliono impedire ai governi di controllare il volume, la
natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato,
cancellando ogni tipo di regolamentazione.
Secondo Lori Wallach, che
dirige il Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington, questo
«stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane» risponde ai
desideri dell’associazione delle banche tedesche, inquieta per la timida riforma di Wall Street adottata dopo il 2008.
La Deutsche Bank ora vuole «farla finita con la regolamentazione
Volcker», chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso
sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Quello della Deutsche Bank, scrive Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, è il volto feroce della finanza
europea, quella dell’euro-regime, pienamente allinenata con quella
statunitense. Fa eco Insurance Europe, punta di lancia delle società
assicurative europee: la compagnia auspica che il Ttip, il Trattato
Transatlantico che si sta chiudendo lontano dai riflettori, «sopprima»
le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi
negli investimenti ad alto rischio.
Quanto al Forum dei Servizi Europei,
l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche Bank, si agita
dietro le quinte affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.
«Da parte degli Usa
– aggiunge la Wallach – si spera soprattutto che il Ttip affossi
davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie». La
Commissione Europea, ovviamente, darà il via libera: infatti si è già
affrettata a giudicare «non conforme alle regole del Wto» la tassa sulle
rendite finanziarie. E dato che lo stesso Fmi si oppone a qualunque
forma di controllo sui movimenti di capitali, ormai negli Stati Uniti la
debole “Tobin tax” non preoccupa più nessuno. Ma le sirene della
deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria
finanziaria.
Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori
«invisibili» e di interesse generale. Gli Stati firmatari si vedranno
costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla
logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui
fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini
politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e
trasporti si ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non
risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si
arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.
A Washington, si crede che i dirigenti europei siano «pronti a
qualunque cosa, pur di ravvivare una crescita economica moribonda, anche
a costo di rinnegare il loro patto sociale». L’argomento dei promotori
del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i
commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha
maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che
sussistono ancora tra l’Europa
e gli Stati Uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce
il rappresentante statunitense al commercio. I fautori del Ttip
ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i
vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre
«l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali
superflue», dal momento che viene considerato “superfluo” «tutto ciò che
rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia».
Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da
istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni
imprenditoriali: per questo, osserva ancora Lori Wallach, «i costi
sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette,
che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni». Ma i giochi
non sono ancora conclusi. E, come hanno mostrato le disavventure di
analoghi trattati e alcuni cicli negoziali del Wto, «l’utilizzo del
“commercio” come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e
instaurare una giunta di incaricati d’affari, in passato ha fallito a
più riprese». Nulla ci dice che non possa succedere anche stavolta, a
patto però che – a partire dalle elezioni europee del prossimo maggio –
la politica
si svegli. Nel frattempo, anche in Italia, nessun leader di partito, in
nessun telegiornale o talkshow, ha mai menzionato neppure per sbaglio
il problema, cioè il nodo strategico su cui si gioca il nostro futuro.
Fonte: Libreidee
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