Care ragazze, cari ragazzi,
per svariati mesi sono stato il vostro insegnante di italiano tra Mumbai e Bangalore. La maggior parte di voi veniva dal Kerala.
Alcuni dei vostri genitori erano pescatori. Ricordo i sacrifici dei
vostri familiari, che speravano di regalarvi un futuro con una laurea in
infermieristica e un corso di italiano. Ricordo che l’Italia e l’Europa
rappresentavano ai vostri occhi la possibilità di una svolta nella
vostra professione e nelle vostre vite. Ricordo anche che, come tutti gli studenti, l’uso delle preposizioni italiane vi metteva in difficoltà. Per presentarvi, dicevate: “Sono nato a Kerala”. Io allora spiegavo
che la regola grammaticale vuole l’uso della proposizione “in + nome
dello stato” e “a + nome di città. Per questo si dice “Sono nato in
Italia” e “Sono nato a Roma”. Dato che il Kerala è uno stato (l’India è
una confederazione di stati, come gli Usa per capirci) si deve dire:
“Sono nato in Kerala, a Trivandrum”, come si dice “Sono nato in
Colorado, a Boulder”. Capirete il mio stupore e la mia tristezza, dopo l’assassinio dei due pescatori Valentine Jalestine e Ajeesh Binki,
colpiti da colpi d’arma da fuoco provenienti dalla petroliera Enrica
Lexie (è un dato di fatto: le istituzioni italiane hanno già versato un
indennizzo ai parenti delle vittime in un accordo extra-giudiziario di
cui si parla poco nel bel paese).
Dopo questo tragico episodio,
all’improvviso gli italiani hanno scoperto l’esistenza del vostro mare e
hanno cominciato a dire: “Il nostro ambasciatore” oppure “l’inviato del
governo”… “è andato a Kerala”. L’hanno fatto tutti, da chi allora era a
capo del governo, ai direttori dei più prestigiosi telegiornali.
Hanno sbagliato, dimostrando la propria ignoranza di almeno una di queste realtà:
_l’India;
_la grammatica italiana;
Probabilmente entrambe, direi.
Purtroppo però voi, ascoltando questi importanti opinionisti,
potreste pensare che devo aver sbagliato io. Che non ero un buon
insegnante. Perché io vi dico una cosa e quelli che contano mi
contraddicono. E poi in fondo sono solo un insegnante di italiano –
anzi, un ex insegnante – e probabilmente ho meno autorevolezza ai vostri
occhi di un direttore di un Tg o di un capo del governo.
Ma la realtà, cari studenti, è che la ragione se la prende chi
impugna un fucile o chi usa le parole come se fossero armi. Perché può
raccontare le cose come più gli conviene. Come quei fatti di cronaca
definiti eroici quando nella migliore delle ipotesi sono un tragico
errore. Come le preposizioni usate a caso.
Io però qualche consiglio linguistico ve lo do lo stesso.
Su aggettivi e pronomi possessivi: diffidate da chi eccede nell’uso
dei possessivi. “La nostra lingua”, “la nostra religione”, “i nostri
marò”, “la nostra patria”. Servono a alimentare un immaginario
condiviso, dietro costrutti identitari, per nascondere divisioni più
importanti. Questa retorica della condivisione è sempre più diffusa, in
italiano. Come del resto da voi. Ma prestate attenzione alla retorica.
Guardate cosa c’è dietro. Si parla di “uomini di mare” con un
termine-ombrello che ha una denotazione troppo ampia. Anche sul mare,
non esistono solo “uomini di mare”. A un tiro di schioppo, sul vostro
mare pieno di pesce e di reti cinesi, si sono trovati vicini inermi
pescatori e soldati in funzione di contractor armati, che rivendicano il
diritto di sparare a difesa del petrolio e delle merci occidentali.
Quel petrolio maledetto che si paga in dollari e in vite umane. Quegli
“uomini di mare” tanto diversi, in realtà sono stati per un istante
uniti da una sola cosa: la traiettoria di un proiettile. Non si possono
mettere sotto uno stesso termine, “uomini di mare”, chi difendeva le
merci occidentali su rotte coloniali, guadagnando in un giorno quello
che i vostri genitori guadagnano in un anno, e chi è morto per portare
il pane e il pesce sulla tavola dei propri figli. Non fatevi ingannare
dalla retorica degli “uomini di mare”. Voi conoscete l’opera di Jack
London e sapete che un mozzo non è un capitano.
Un’altra parola controversa, che in classe non abbiamo mai usato, è
questa: “terrorista”. Ne capite il significato ma non comprendete il
campo di denotazione. Io sono più confuso di voi. Con buona ragione, le
autorità italiane si stanno battendo perché l’accusa di terrorismo non
cada sulle spalle dei due marò. Capisco il vostro stupore di fronte al
fatto che in Val di Susa quattro giovani no tav sono stati accusati da
una procura italiana dello stesso reato. Anche loro sono considerati
terroristi, eppure non hanno ucciso dei pescatori, ma pare che siano
accusati del danneggiamento di un compressore. Insomma, mi sembra che
bisogna precisare meglio i campi di denotazione e la profondità
semantica di alcuni termini appartenenti al lessico italiano, per non
dare l’impressione che un compressore valga più della vita di due
pescatori indiani.
Avrei tante cose da dirvi, ma tante altre dovrei dirle ai miei
connazionali che si fanno bombardare da parole prive di idee nei
telegiornali. Parole che fanno gonfiare il petto ma svuotano la testa.
Informazione o propaganda? Comunicazione o rumore martellante che
solletica le emozioni più viscerali degli italiani? Espressioni ben
composte grammaticalmente che però rimandano a assurdità nel campo della
referenza. L’espressione “Pirati in Kerala”, ad esempio,
grammaticalmente ben formata, ha lo stesso valore delle “idee verdi
senza colore che dormono furiosamente”, di cui parlava un altro
professore, ben più importante di me: Noam Chomsky. Perché in Kerala i
pirati compaiono solo sugli schermi dei vostri splendidi cinema. Ma qui
si entra nel campo della logica e il vostro teacher preferisce non
avventurarsi tanto al largo nel mare delle idee chiare e distinte. Non
vorrei che prendessero per pirata anche me.
A proposito: degli effetti linguistici di quegli spari ne ho parlato
sopra, di quelli pragmatici non ne vuole parlare nessuno. Jalestine e
Binki sono morti, dopo quegli spari. Quanti italiani si ricordano i loro
nomi? Se mai tornerò a farvi lezione, vi proporrò un’unità didattica
con due canzoni dedicate ai pescatori, una cantata da Fabrizio De André e
l’altra da Pierangelo Bertoli (lo so che vi annoiate con la musica
italiana, ma che ci posso fare?). Meritano di essere didattizzate,
innanzitutto perché si prestano per illustrare il modo imperativo e il
tempo futuro, poi perché ogni volta che le ascolto mi viene in mente una
banalità: che un soldato può diventare un eroe, ma un pescatore quando
non torna a casa viene dimenticato.
Un ultimo punto. Quello della condanna. Che poi è linguaggio anche
quella, è un atto linguistico sia l’imputazione che la sentenza, un atto
linguistico con conseguenze pragmatiche. Qui si parla tanto di condanne
e pene. Io credo che il carcere, come la bacchetta dei professori di un
tempo, non serva a nulla e credo anche che le vite umane non si
tolgono, né con la corda né con il fucile. Immagino però che da qualche
parte, in quelle migliaia di pagine di epica e di leggende e nei film e
nelle canzoni dei pescatori del Kerala che avete invano cercato di
insegnarmi – che pessimo studente di malayalam sono stato… – ci deve
essere la soluzione anche per questa cosa dei marò, per uscirne bene
oltre quel polverone sollevato dai media e dalle retoriche nazionaliste,
che rende tutto più avvilente e incomprensibile. Nei panni di chi ha
sparato dal ponte della petroliera Erika Lexie, chiederei di essere
condannato a costruire asili per gli orfani del Kerala. E chiederei che
invece di comprare costosi bombardieri F35, il ministero della difesa
italiano usi una parte di quei soldi per costruire delle scuole in
Kerala (non “a Kerala”, cari ministri). E che invece di spedire
militari e diplomatici, l’Italia accolga degli infermieri del Kerala nei
propri ospedali e li paghi correttamente. E che i due paesi attivino
dei programmi di scambio tra studenti e delle borse di studio, pagati
dal ministero italiano della difesa, visto che nel paese di Marco Polo
anche gli opinionisti della televisione pensano che l’India sia un paese
di fachiri (e io credo che voi in Kerala non abbiate mai visto un
fachiro, giusto?).
E che i fucilieri che hanno sparato contro i
pescatori facciano la mattina il muratore e il pomeriggio l’insegnante
di italiano in una scuola del Kerala, che forse a quel punto in omaggio
ai “nostri insegnanti” il ministero si degnerà di riconoscere la professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2.
Poi la pena continuerebbe la sera: dopo aver mangiato un thali di riso
sulle foglie di banano, che non c’è niente più sano e gustoso, i nuovi
professori diventerebbero studenti per imparare la vostra lingua, il
malayalam. Liberi di muoversi in Kerala e di ricevere visite, dovrebbero
vivere come i pescatori e conoscere l’uso delle reti cinesi, che
sorgono maestose a Kochi. Se vi sembra una pena leggera mettersi nei
panni di un muratore o di un insegnante, pensate che un militare
italiano in funzioni di contractor per un armatore privato sui vostri
mari guadagna 467 euro al giorno, un insegnante di italiano all’estero
su un progetto non ministeriale, a parità di latitudine, è pagato circa
40 euro al giorno, mentre un pescatore o un muratore indiani vivono
sotto la soglia della povertà del vostro stesso paese, sudando per poche
rupie dall’alba al tramonto.
La pena poi dovrebbe essere linguistica, ovvero condizionata alla
scrittura di una canzone in malayalam che parli dei frutti del mango e
del sorriso delle ragazze di Allepey. Una di quelle canzoni che,
costretto da voi, ballavo con poca maestria. Un giorno allora, dopo aver
imparato il malayalam al punto di saper scrivere una canzone con le
parole della lingua di Jalestine e Binki, quel debito con la terra
dell’acqua e del riso sarebbe estinto e chi ha sparato contro dei
pescatori sulle acque del Malabar sarebbe libero di tornare nel paese
dove è nato. O di rimanere, se fosse felice di quella nuova vita.
A patto di non cantare mai quella canzone a Sanremo.
Probabilmente queste mie parole risulteranno naif a voi e poco
patriottiche alle orecchie dei miei connazionali. Ma io non sono un
fuciliere né un diplomatico, non amo né le armi né le galere e leggo
troppi libri. Dico solo che da insegnante io il caso Jalestine e Binki,
che qui – ennesimo errore linguistico – chiamano “il caso marò”, l’avrei
già risolto così, da tempo.
Forse le cose andranno in un altro modo.
In ogni caso vi abbraccia il vostro insegnante di italiano, vostro
allievo di tante giornate indiane, che con queste righe si toglie un
rospo dalla gola (è una metafora, non prendetela alla lettera) e vi
ricorda per l’ennesima volta che non dovete alzarvi quando il prof entra
in classe.
Alberto Prunetti
Fonte: www.carmillaonline.com/
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