I centomila greci che avevano occupato piazza Syntagma davanti al
Parlamento non sono riusciti ad impedire l’approvazione dell’ennesima
manovra “lacrime e sangue” imposta alla Grecia dalla cosiddetta “troika”
(Ue, Bce e Fmi). Si tratta di un pacchetto di misure di austerità che,
in cambio di 31,5 miliardi di euro, «abolisce tutti i bonus extra per
pensionati e dipendenti statali, introduce nuovi tagli sino al 25% alle
pensioni e allo stesso tempo riduce sino al 27% i cosiddetti “stipendi
speciali” (polizia, magistratura, forze armate, personale medico degli
ospedali statali, docenti universitari, diplomatici) fino al 27%, mentre
spiana la strada per il licenziamento di 2.000 statali e l’abolizione
della previdenza sociale fornita dallo Stato»(1).
Stato&Potenza
Come possa il piccolo
Paese europeo imboccare la strada del risanamento e della crescita
sprofondando nell’abisso della recessione e della miseria non si riesce a
capire. Ma quello che più stupisce è che ancora non ci si renda conto
che si è in presenza non di una crisi congiunturale, bensì strutturale,
tanto che forse non si può neppure definire ciclica se ci si riferisce a
Paesi che corrono seriamente il rischio di vedere scomparire il proprio
apparato produttivo e con esso qualunque forma di sovranità.
D’altronde, anche per quanto concerne il nostro Paese, si deve prendere
atto che ormai il bilancio dello Stato è dettato dai “mercati”, i quali
aggirando, di fatto, la Costituzione hanno ridotto il Parlamento a mera
“camera di registrazione”. Del resto, anche solo il crollo dei consumi
delle famiglie e il moltiplicarsi dei fallimenti delle piccole e medie
imprese, sottoposte ad una pressione fiscale tanto elevata quanto
“irrazionale”, dovrebbero bastare a far comprendere che è solo
propaganda di regime ritenere che lo scopo di questo governo tecnico sia
quello di salvare l’economia italiana, rendendola più efficiente e
competitiva. In realtà, da tempo l’Italia si trova al centro di una
complessa manovra “geostrategica” che ha come obiettivo principale la
liquidazione definitiva del modello sociale europeo, sia garantendo gli
interessi di quel sistema finanziario “americanocentrico” che è il primo
responsabile della crisi che attanaglia tutto il mondo occidentale, sia
diluendo la sovranità nazionale dei singoli Paesi europei (e in
particolare della Germania) nel mercato globale, di modo da rendere
impossibile all’Europa di avere un proprio “pungiglione” politico che
rivoluzionerebbe quegli equilibri geopolitici che oggi più che mai sono
un ostacolo per un autentico sviluppo sociale ed economico dell’Europa
occidentale (e ora che la recessione pare “intaccare” la stessa
Germania(2), dovrebbe essere palese che il governo tedesco facendo il
gioco dei “mercati” sta lavorando, ne sia consapevole o no, per quei
“centri egemonici” che sono determinati ad impedire ad ogni costo che la
Germania, anche attraverso un’intelligente Ostpolitik, possa diventare la “locomotiva” di un’Europa che non sia più una “semicolonia” degli Stati Uniti).
Comunque sia, è innegabile che, mentre la sinistra italiana si
entusiasma per la vittoria di Obama – che pure non ha messo fine alla
politica criminale degli Stati Uniti, sia all’estero che in patria (al
riguardo, si tenga presente che, se durante l’amministrazione Obama la
spesa militare statunitense è salita da 621 miliardi dollari nel 2008 ad
oltre 721 miliardi di dollari nel 2011, nello stesso tempo i cittadini
americani che sono dovuti ricorrere ai “buoni cibo” o ad organizzazioni
di beneficenza sono saliti ad oltre i 50 milioni – di cui circa 17 sono
in condizioni di bassissima “insicurezza alimentare”), le misure prese
del governo Monti con il pretesto del “rigore” distruggono il diritto al
lavoro, impoveriscono ancor di più i ceti popolari e perfino gran parte
dei ceti medi, smantellano la sanità pubblica e soffocano l’economia
reale. Ma quella che a molti appare essere una austerità basata su una
politica economica priva di razionalità, in realtà è funzionale agli
interessi dell’oligarchia atlantista, al punto che proprio Obama non fa
mistero di appoggiare Monti e di considerarlo un alleato estremamente
prezioso per i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa.
Inoltre, se il nostro “Commissario Tecnico” esegue con massimo scrupolo e
somma diligenza gli ordini dei “mercati”, si dice pure che abbia
concesso a Washington di scegliere sia il ministro della Difesa che il
ministro degli Esteri del “nostro” attuale governo, affinché si
potessero meglio tutelare e rappresentare gli interessi americani. Vero o
falso che sia, è però certo che Esteri e Difesa del governo Monti non
potrebbero essere, secondo il punto di vista di Washington, in mani
migliori. Sicché, non sarebbe nemmeno affatto strano se nei colloqui tra
esponenti del governo e del milieu politico-economico, al
ricevimento dell’Ambasciata americana a Roma nella notte delle elezioni
del presidente degli Stati Uniti, si fosse addirittura affermato che
«l’ambasciatore americano a Roma David Thorne potrebbe essere un ottimo
presidente di Finmeccanica»(4), ovvero della più importante impresa
strategica nazionale.
Del resto, il nostro Paese deve anche continuare a
“fare la sua parte” in Afghanistan e per non deludere gli “alleati”,
l’Italia non solo ha concesso un prestito di 150 milioni di euro a
questo Paese, ma si è pure impegnata a investire nel settore minerario
afghano (mentre in Sardegna i minatori rimangono senza lavoro) e a
sostenere le piccole e medie imprese afghane (evidentemente considerate
di gran lunga più importanti di quelle italiane)(5). Insomma, i soldi
per finanziare la “nostra missione” in Afghanistan o per acquistare i
costosissimi caccia americani F-35, il governo Monti non ha problema a
trovarli, mentre se si tratta della sanità, dell’occupazione e delle
nostre imprese, devono essere i “mercati” a decidere. E in ogni caso,
prima si devono pagare gli interessi sul debito pubblico e poi saldare i
debiti della pubblica amministrazione con le imprese. Ovvero prima
vengono i “mercati”, poi lo Stato (e il popolo italiano).
Ma è appunto questo rapporto che dovrebbe essere oggetto almeno di
riflessione politica, mentre è del tutto ignorato, nel senso che si
ritiene pacifico che siano i “mercati” ad essere sovrani, come se
l’economico non fosse esso stesso “conflitto” e gli interessi dei
“mercati” coincidessero con quelli dei popoli e non fossero anche
espressione di ben precisi centri di “volontà di potenza”. E oggi che il
mondo occidentale conosce una notevole contrazione della sua sfera di
potenza, anche per l’emergere di altri poli politico-economici sullo
scacchiere internazionale, è allora del tutto naturale che vi sia una
ridefinizione dei rapporti politici ed economici che danneggia
soprattutto i Paesi occidentali più deboli e che si accompagna, non
essendoci più alcuna forza politica realmente antagonista (socialista o
nazionalpopolare che sia), a una distribuzione della ricchezza verso
l’alto che genera brutali diseguaglianze sociali (a tale proposito, non
si deve neppure dimenticare che, una volta liquidato il Welfare, nessuna crescita di per sé garantirebbe una maggiore giustizia sociale).
Nondimeno, sarebbe semplicistico ed errato pensare che nulla possa
fermare i “mercati” e che questi ultimi possano sempre imporre, tramite
governi di tecnocrati non eletti, la loro volontà. Infatti, da un lato,
pare difficile che la bolla speculativa, generata dal finanzcapitalismo
(come Luciano Gallino definisce la mega-macchina del capitalismo
occidentale la cui forza motrice non è più la produzione di merci ma la
finanza) e che «si continua a cercare di mascherare, per non porre il
sistema dell’alta finanza internazionale con le spalle al muro»(6), non
possa “scoppiare”. E a quel punto sarebbe impossibile ignorare
l’economia reale e la dimensione sociale della vita quotidiana degli
uomini, per così dire, “in carne e ossa”. Dall’altro, proprio questa
crisi, che sta colpendo milioni di cittadini di europei e i cui effetti
saranno ancora più “pesanti” nei prossimi mesi, potrebbe creare i
presupposti perché, in ogni Paese europeo, si affrontino due concezioni
opposte dell’Europa: l’Europa della finanza atlantista e mondialista
(che indirettamente favorisce il razzismo e l’estremismo nazionalista)
contro l’Europa di chi non è disposto ad essere trattato come una merce,
né a rinunciare alle proprie “radici”; vale a dire l’Europa dei
mercanti contro l’Europa fondata sulla “ragione pubblica” e sulla
giustizia sociale.
D’altra parte, si deve pure ammettere che sono ancora pochi coloro che
sanno riconoscere da che parte proviene la minaccia principale e/o che
sono veramente disposti a liberarsi di schemi ideologici obsoleti al
fine di comprendere e (se possibile) superare l’attuale (dis)ordine
mondiale. Ma proprio per questo, a nostro giudizio, sarebbe meglio
prestare attenzione al 18° Congresso del Partito Comunista Cinese
piuttosto che ai commenti sulla vittoria di Obama, di modo da
interpretare la realtà con categorie geopolitiche e geoeconomiche
“adeguate” (indipendentemente dalla questione se il cosiddetto
“socialismo di mercato” della Cina sia o no vero socialismo), poiché non
v’è dubbio che sia in atto una rivoluzione geopolitica di portata
epocale che sta spostando il “corso della storia” ad Est. Un “mutamento
di rotta” che dovrebbe essere preso in seria considerazione, senza alcun
pregiudizio ideologico, da chiunque voglia seriamente opporsi al
finanzcapitalismo occidentale.
SIGNIFICA CHE PRESTO SUBIREMO I DIKTAIL DELLA FINANZA CINESE?
RispondiEliminaCIAO