Il processo di verità storica che da  tempo sta squarciando il muro di oblìo eretto a difesa di una  mistificata interpretazione delle vicende unitarie e post unitarie della  nostra nazione, ha trovato nuovo e solidissimo impulso per merito di  una pubblicazione scientifica edita da un’istituzione dall’indiscussa  affidabilità quale la Banca d’Italia. 
Di  Michele Loglisci e Francesco Schiraldi 
Se fino ad oggi  si è potuto confutare, su basi storiografiche peraltro tutte da  verificare, quanto asserito da chi, carte alla mano, mira  a dimostrare come il presunto processo unitario si sia risolto nei  fatti in una feroce e avvilente colonizzazione del Mezzogiorno, oggi  scende in campo la Banca d’Italia, con il suo indiscusso prestigio, a  sancire, sulla base di incontestabili analisi e dati statistici, la  verità di fatti troppo a lungo vergognosamente manipolati. 
Ebbene, a contraddire definitivamente un’ideologia mistificatrice  della realtà di episodi che hanno costretto il Mezzogiorno ad una  immeritata situazione d’inferiorità, 
irrompono con l’autorevolezza  che  gli deriva dalla reputazione di studiosi il Prof. Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’Università di Tor Vergata (Roma), insieme al collega Carlo Ciccarelli, Dottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni nella stessa Università.Nel loro accuratissimo  saggio, il cui alto valore scientifico ha meritato per i due economisti  l’onore della pubblicazione da parte della Banca d’Italia, gli studiosi  dell’Università di Tor Vergata hanno non solo reso manifesto, potremmo  dire, ma bensì confermato come all’origine dell’attuale sottosviluppo  del Sud ci sia una bugiarda unificazione nazionale.  Sin dalle prime pagine del loro lavoro di ricerca, apparso peraltro  solo in lingua inglese nei “Quaderni di Storia Economica di Bankitalia”,  n. 4, luglio 2010 (domanda: perché non in italiano e con adeguato  resoconto pubblico?), Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli affermano  così esplicitamente: “L’arretratezza industriale del Sud, evidente già  all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria» (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of industrial Growth in Post-Unification Italy, pag.22).
A scrupoloso fondamento del  loro studio, corredato da minuziose tabelle statistiche, gli economisti  di Tor Vergata prendono in esame i censimenti ufficiali del neonato  Stato italiano, precisamente negli anni 1871, 1881, 1901 e 1911. La  disponibilità di una notevole massa di dati nazionali e regionali ha  offerto l’opportunità a Fenoaltea e Ciccarelli di comprendere a fondo,  come sostanzia loro ricerca,  lo sviluppo dell’Italia nei primi decenni  dopo l’unificazione. Orbene, il meticoloso lavoro eseguito aggiunge, ai  dati già disponibili, un’analisi dei dati disaggregati relativi alla  produzione industriale in 69 province tra il 1871 e il 1911,  determinando gli studiosi a svelare che: «Il loro esame disaggregato rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali». Più eloquente di così…e, si sottolinea ancora, qui sono i numeri che parlano esplicitamente!
La tabelle pubblicate da  Fenoaltea e Ciccarelli mostrano che nel 1871 il tasso di  industrializzazione del Piemonte era del l’1.13%, quello della Lombardia  1.37%, quello della Liguria 1.48%. Da evidenziare come, a questo punto,  fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, con il ridimensionamento di importanti stabilimenti come le officine metallurgiche di Pietrarsa, a Portici (Napoli) (oltre 1000 addetti prima dell’unificazione ridotti a 100 nel 1875), nonché quelle di Mongiana in Calabria (950 addetti nel 1850 ridotti a poche decine di guardiani nel 1873): ebbene, nonostante l’opera devastatrice dei presunti liberatori scesi dal Settentrione, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1.01%, con Napoli, nel dato provinciale, all’1.44% e quindi più di Torino che era solo all’1.41%.
L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%: molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia, lo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%.
Il tasso di industrializzazione della Basilicata era allo 0.67%, un indice che per quanto a prima vista basso era comunque più alto di aree liguri come Porto Maurizio che era allo 0.61%. L’Abruzzo era invece allo 0.58%, con L’Aquila a 0.63%.
Detto questo, appare drammatico come, quarant’anni dopo, nel 1911, l’indice di industrializzazione del Piemonte fosse salito all’1.30% mentre quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguria all’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo 0.58%, la Basilicata allo 0.51%.
Questo resoconto piuttosto tragico ma fondato su incontrovertibili riscontri scientifici, perché i numeri si possono occultare ma se resi noti non possono certamente ingannare,  rende chiaro come la Banca d’Italia, pubblicando il qualificato studio  di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli, abbia certificato ufficialmente  con la sua autorevolezza come l’arretratezza industriale del Sud non  sia un’eredità dell’Italia pre-unitaria ma bensì un sottosviluppo voluto da una unificazione nazionale strumentalizzata in modo scellerato ai danni del Mezzogiorno.
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