15 aprile 2010

LE GUERRE DEL DEBITO CHE SI PROFILANO IN EUROPA


di Michael Hudson

Il debito pubblico in Grecia non è che la prima di una serie di bombe del debito pronte ad esplodere. I mutui immobiliari nelle economie post-sovietiche e in Islanda sono più esplosive. Anche se questi paesi non sono nella zona euro, il grosso dei debiti è denominato in euro. Circa l' 87% dei debiti della Lettonia sono in euro ed altre valute estere, e sono per lo più di proprietà di banche svedesi, mentre l'Ungheria e la Romania hanno debiti in euro soprattutto con banche austriache. Così l'indebitamento dei governi di paesi al di fuori dell'euro è stato contratto al fine di mantenere i tassi di cambio che permettono al settore privato di pagare i suoi debiti alle banche straniere, non per finanziare un deficit di bilancio nazionale, come in Grecia.
Tutti questi debiti sono alti al punto di non essere rimovibili, perché la maggior parte di questi paesi sono in procinto di incorrere in deficits commerciali sempre più profondi e sono immersi in una depressione. Ora che i prezzi degli immobili sono al collasso, i deficit commerciali non possono più essere finanziati da afflussi di mutui ipotecari in valuta estera e da vendita di immobili. Non c'è mezzo visibile di sostegno per la stabilizzazione delle valute (exempli gratia: un' economia sana). Negli ultimi anni queste economie hanno mantenuto i loro tassi di cambio attraverso prestiti da parte dell'Unione Europea e del FMI. I termini di questi prestiti sono politicamente insostenibili: tagli drastici nei bilanci pubblici, aliquote fiscali più elevate sui salari fiscalmente eccessivi e piani di austerità che provocano contrazione dell'economia e obbligano altri lavoratori ad emigrare.

I banchieri in Svezia e in Austria, Germania e Gran Bretagna sono in procinto di scoprire che estendere il credito a nazioni che non possono (o non vogliono) pagare può diventare un loro problema, non dei loro debitori. Nessuno vuole accettare il fatto che i debiti che non possono essere soddisfatti non vogliono essere soddisfatti. Qualcuno deve accollarsi il costo, dato che i debiti sono in mora o risultano ammortizzati per non dover essere rimborsati in valute drasticamente svalutate; ma molti esperti legali considerano poco più che una lettera morta gli accordi che richiedono la restituzione in euro. Ogni nazione ha il diritto sovrano di legiferare per conto proprio le condizioni del suo debito e della sua moneta, gli ageguamenti monetari e l'ammortamento del debito non saranno cosa da poco.

Non serve svalutare, tranne "in eccesso", vale a dire, quanto basta a modificare realmente i modelli commerciali e produttivi. Per questo Franklin Roosevelt svalutò il dollaro del 75% rispetto all'oro nel 1933, alzando il suo prezzo da 20 a 35 dollari l'oncia. Per evitare un aumento proporzionale dell'onese del debito degli Stati Uniti, ciò che fece fu cancellare la "clausola dell'oro", che indicizzava al prezzo dell' oro per pagare i prestiti bancari.Ed è qui dove sarà la battaglia politica oggi: nel pagamento del debito in monete svalutate.  

Un altro effetto collaterale della Grande Depressione negli Stati Uniti e in Canada fu di esonerare i debitori di mutui immobiliari dalla responsabilità personale, rendendo possible la ripresa dalla bancarotta. Le banche pignoratrici possono entrare in possesso di immobiliari collaterali ma non possono avanzare alcuna ulteriore rivendicazione sui mutui. Questa pratica – fondata sulla Common Law – mostra come il Nordamerica si è liberato dal retaggio del potere del creditore in stile feudale e dalla pena della reclusione per i debitori che avevano reso così severe le precedenti leggi europee sul debito.

La domanda è: chi si accollerà le perdite? Mantenere i debiti espressi in euro porterebbe alla rovina la maggior parte delle attività locali e del mercato immobiliare. Al contrario, riesprimere questi debiti in valuta locale svalutata spazzerebbe via il capitale di molte banche con sede in Europa. Ma queste banche sono straniere, dopotutto – e alla fine, i governi devono rappresentato il proprio elettorato interno. Le banche straniere non votano.

I titolari stranieri di dollari hanno perso i 29/30 del valore in oro del loro patrimonio da quando gli Stati Uniti hanno cessato, nel 1971, di esprimere in oro i disavanzi della bilancia dei pagamenti. Ora essi ricevono meno di un trentesimo di questo valore poiché il prezzo è salito a 1.100 dollari l’oncia. Se il mondo riesce ad adattarsi, perché non dovrebbe adattarsi facilmente all’imminente svalutazione del debito europeo? 

Ma c’è una crescente accettazione del fatto che le economie post-sovietiche erano strutturate fin dall’inizio per favorire gli interessi stranieri e non le economie locali. Ad esempio, la manodopera lettone è tassata per oltre il 50% (lavoratori, datore di lavoro e tassa sociale) – così elevata da renderla non competitiva mentre le tasse sulla proprietà sono meno dell’1% rendendole un incentivo verso la speculazione più dilagante. Questo filosofia fiscale distorta ha reso le “tigri baltiche” e l’Europa centrale dei mercati di prestito primari per le banche svedesi e austriache, ma i loro lavoratori non riuscivano a trovare un impiego ben pagato in patria. Nessuno di questi aspetti (o le loro pessime leggi di protezione dei luoghi di lavoro) si trova nelle economie di Europa Occidentale, Nordamerica e Asia. 

Sembra illogico e irrealistico attendersi che ampi settori della popolazione della Nuova Europa possano essere rese oggetto di trattenute sui salari per tutto il tempo della loro vita, riducendole ad un’esistenza di schiavitù dal debito. I rapporti futuri tra la Vecchia e la Nuova Europa dipenderanno dalla volontà dell’Eurozona di riprogettare le economie post-sovietiche su linee maggiormente solvibili – con un credito più produttivo e un sistema fiscale meno orientato a chi vive di rendita che favorisca l’occupazione piuttosto che l’inflazione sul prezzo dei beni, che porta solamente ad un’emigrazione dei lavoratori. Oltre al riallineamento della valuta per affrontare il debito insostenibile, la linea indicata per questi paesi è un imponente spostamento fiscale dalla manodopera alla terra, rendendoli più simili all’Europa occidentale. Non c’è altra alternativa. Altrimenti l’atavico conflitto di interessi tra creditori e debitori minaccia di separare l’Europa in due fronti politici contrapposti, con l’Islanda che fa da prova generale.

Finché questo problema del debito non verrà risolto – e l’unico modo per risolverlo è quello di negoziare una svalutazione del debito – l’espansione europea (l’assorbimento della Nuova Europa nella Vecchia Europa) sembra conclusa. Ma la transizione verso questa soluzione futura non sarà semplice. Gli interessi finanziari esercitano ancora un potere dominante sull’UE, e resisteranno all’inevitabile. Gordon Brown ha mostrato la sua vera natura nelle sue minacce contro l’Islanda secondo cui utilizzerebbe in modo illegale e scorretto il FMI come un addetto al recupero crediti per i debiti che l’Islanda legalmente non deve restituire, e per bocciare l’adesione islandese all’UE.

Messo di fronte alle prepotenze di Brown – e di quelle dei leccapiedi olandesi – il 97% degli elettori islandesi si è opposto all’accordo sul debito che Gran Bretagna e Olanda avevano cercato di far ingoiare ai membri del parlamento islandese il mese scorso. Un simile plebiscito non si vedeva dai tempi del periodo staliniano.

Questo è solamente un assaggio. La sceltà che l’Europa andrà a fare probabilmente porterà milioni di persone nelle strade. Muteranno le alleanze politiche ed economiche, si sbricioleranno le valute, cadranno i governi. L’Unione Europea e, sicuramente, anche il sistema finanziario internazionale cambieranno in strutture che ancora non abbiamo visto, specialmente se le nazioni adotteranno il modello dell’Argentina e si rifiuteranno di pagare se non verranno elargiti sconti generosi.

Il pagamento in euro – per i flussi immobiliari ed i redditi personali in equity negativo, dove i debiti superano il valore attuale dei flussi di reddito disponibili per pagare mutui o, anche, debiti personali – è impossibile per le nazioni che sperano di mantenere un briciolo di società civile. I “piani di austerità” in stile FMI e UE rappresentano in gergo asettico e tecnocratico la riduzione dell’aspettativa di vita e il micidiale sventramento dei redditi, dei servizi sociali, delle spese sanitarie negli ospedali, dell’istruzione e di altri bisogni primari, e la svendita delle infrastrutture pubbliche ad acquirenti che trasformano le nazioni in “economie a pedaggio” in cui ognuno è obbligato a pagare una quota d’ingresso per strade, istruzione, assistenza sanitaria e altri costi per vivere e avere attività commerciali che da tempo sono sovvenzionate dalla tassazione progressiva in Nordamerica e in Europa occidentale.

Le linee di battaglia sono state tracciate in merito a come debbano essere ripagati i debiti del settore privato e del settore pubblico. Per le nazioni che esitano a pagare in euro, le nazioni creditrici hanno sempre pronto in attesa il loro “protettore”: le agenzie di rating. Al primo segnale di una nazione che tentenna a pagare in valuta forte, o addirittura al primo dubbio sollevato sulla correttezza di un debito verso l’estero, le agenzie si muoveranno per ridurre la valutazione del credito di una nazione. Questo farà aumentare il costo dei prestiti e minaccerà di paralizzare l’economia che avrà un bisogno estremo di credito. 


L’ultimo colpo in ordine di tempo è stato sparato il 6 aprile quando Moody’s ha declassato il debito dell’Islanda da stabile a negativo. “Moody’s ha ammesso che l’Islanda potrebbe ancora ricevere un trattamento migliore con un rinnovo dei negoziati ma ha detto che l’attuale incertezza stava danneggiando le prospettive economiche e finanziarie a breve termine del paese.”

La battaglia è cominciata. Sarà di sicuro un decennio interessante.

Michael Hudson ha lavorato come economista a Wall Street e attualmente è presidente dell'Istituto per lo studio del Long-Term Economic Trends (ISLET).  È autore di numerosi libri, tra i quali: The Economic Strategy of American Empire (nuova ed., Pluto Press, 2003) e Trade, Development and Foreign Debt: How Trade and Development Concentrate Economic Power in the Hands of Dominant Nations (ISLET, 2009). Attualmente è capo del consiglio dei consulenti della Reform Task Force di riforma in Lettonia. 

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