20 gennaio 2009

UN INSULTO A 6 MILIONI DI MARTIRI



(commento alla lettera di Abrham B. Yehoshua, pubblicato dalla Stampa del 18/01/2009)

Abrham. B. Yehoshua. “Caro Gideon,
negli ultimi anni ... Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera..."

Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l 'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.

A.B.Y. "Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare."

Arafat riconobbe Israele nel 1993, agì fermamente per reprimere Hamas (come testimoniò Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti Shab'ak israeliani, nel 1998) e cosa ottenne? Barak, Clinton e poi Sharon lo distrussero. Hamas ha dichiarato ufficialmente nel luglio del 2006 con una lettera al Washington Post di riconoscere il diritto degli ebrei all'esistenza in Palestina fianco a fianco dei palestinesi. Nessun media italiano o europeo ha ripreso la notizia. Nessuno.

A.B.Y. "... I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco..."

Respinto l'occupazione? Sono in una gabbia che li affama, che li fa morire ai posti di blocco, che gli nega l'essenziale per vivere. Di nuovo Dugard: "A tutti gli effetti, a seguito del ritiro israeliano, Gaza è divenuta un territorio chiuso, imprigionato e ancora occupato".

A.B.Y. "Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi seguaci (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile..."

Questo è il razzismo di questi assassini vestiti da colombe. Vogliono 'educare' gli 'untermenschen' arabi a frustate, "fargli capire", come usava ‘far capire' nei campi di cotone della Louisiana 200 anni fa o nel ghetto di Varsavia, pochi decenni fa. 'Fargli capire' le cose ammazzando i loro bambini? Le loro donne? Questo si chiama massacro, è un crimine contro l'umanità che viola le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga. Questo Abrham B. Yehoshua è un mostro, e lui e i suoi colleghi non hanno appreso alcunché dal nazismo, anzi, hanno solo appreso come replicarlo.

"Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio."

Su una porzione del suo territorio... Non c'è limite all'abominio intellettuale di questo scrittore. Gli 'untermenschen' arabi devono essere grati di poter fare la fame su un fazzoletto di terra privo di ogni sbocco economico/commerciale e che è una frazione di quel 22% delle loro terre che gli è rimasto dopo che Israele gli ha rubato il 78% a forza di massacri e pulizia etnica.

"Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni..."

Come aver detto agli etiopi nel 1984: "Se imparaste a coltivare la terra invece che chiedere l'elemosina all'ONU...".
Questo Abrham B. Yehoshua è, lo ribadisco e me ne assumo la responsabilità, un mostro. Lo è in forma più disgustosa di Sharon, di Olmert, della Livni, poiché traveste la sua perfidia disumana da 'colomba'.
L'ipocrisia della tragedia israelo-palestinese è arrivata a livelli biblici di disgusto. E ricordo, per tornare in Italia, la posizione dei nostri intellettuali di sinistra, ‘colombe’ anch’essi, come esplicitata sul sito http://www.sinistraperisraele.it/home.asp?idtesto=185&idkunta=185, dove campeggia una commemorazione di Uri Grossman, figlio dell’altra ‘colomba’ israeliana di chiara fama, David Grossman, ucciso durante l’invasione israeliana del Libano del 2006. La morte di un figlio è sempre una tragedia immane, e quella morte lo è nel suo aspetto privato. Non oserei profferire parola su questo.
Ma vi è un aspetto pubblico di essa, che stride e che fa ribollire la coscienza: Uri Grossman era un soldato di un esercito invasore, criminale di guerra, oppressore da 60 anni di un intero popolo, e che in Libano ha massacrato oltre 1000 esseri umani innocenti, dopo averne massacrati 19.000 in identiche circostanze nel 1982 e molti altri nel 1978. Uri Grossman era una pedina di una impresa criminale, ma venne commemorato su tutti i media italiani, e ancora lo è sul sito dei nostri ‘intellettuali colombe’.
Dove sono le commemorazioni della montagna di Abdel, Baher, Fuad, Adnan, la cui vita spezzata a due anni, a tredici anni, a trent’anni, e senza aver mai indossato la divisa di un esercito criminale di guerra, ha lasciato il medesimo strazio e il medesimo buio di vivere di “papà, mamma, Yonatan e Ruti” Grossman? Dove sono? Dove?

"Far capire"... "malauguratamente è l'unico modo". Queste parole, Abrham B. Yehoshua, questi 'intellettuali' traditori, la difesa del sionismo e delle condotte militari di Israele dal 1948, sono un insulto a sei milioni di martiri ebrei dell'Olocausto nazista. Lo scrivo, lo dico e mi chiamo Paolo Barnard.
Paolo Barnard

19 gennaio 2009

I MISTERI DI VIA D'AMELIO



Nei giorni in cui le dichiarazioni di nuovi pentiti potrebbero portare ad una revisione del processo della strage di via D'Amelio, la prima puntata della nuova stagione di Reality , ripercorre il caso Borsellino.
Al vaglio della procura di Palermo sono infatti in questi giorni le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco del capoluogo siciliano, che avrebbe reso noto di una trattativa tra lo Stato e la mafia, di cui il padre si sarebbe fatto mediatore.
L'inchiesta di Silvia Resta parte proprio dal giallo del primo luglio del '92, giorno in cui il giudice Borsellino si sarebbe recato al Viminale dall'allora ministro dell'interno Nicola Mancino. Per la prima volta davanti alle telecamere, un faccia a faccia a distanza tra Salvatore Borsellino, fratello del giudice, e Nicola Mancino, che nega di essere mai stato a conoscenza di una negoziazione con Cosa Nostra e ribadisce: "Quel giorno ho stretto tante mani: non ricordo Borsellino, ma non escludo di poterlo aver incontrato."

VEDERE, IMMAGINARE, SENTIRE IL DOLORE ALTRUI.

Un milione e mezzo di palestinesi patiscono l’assedio nel ghetto di Gaza, nel frattempo, i politici di Israele proclamano la loro indifferenza rispetto alle sofferenze degli assediati. Questo può solo produrre più violenza.

“Nuociamo solamente agli altri quando siamo incapaci di immaginarli” ho letto in qualche libro, non so se di Todorov o di Carlos Fuentes.
La frase si riferiva a gesta lontane, come la Conquista spagnola dell’America o le guerre coloniali europee del XIX secolo, quando le crudeltà di quelle guerre, patite da popoli “inferiori”, si rivestivano con un’aura di altruismo ed eroicità: missione evangelizzatrice o apporto delle luci della civilizzazione alla loro barbarie e arretratezza.
Già Sharon formulò così un programma d’azione: “I Palestinesi devono soffrire molto di più”.

Mi torna alla memoria la frase di Marek Halter: “Ho paura per Israele e Israele mi fa paura”.
Le cose oggi sono diverse. Che si tratti di guerre d’aggressione o di guerre di presunta difesa o anche di guerre preventive, le immagini del male che queste causano ci arrivano direttamente a domicilio. In casa nostra assistiamo alle atrocità dei bombardamenti, alla morte quasi in diretta di donne e bambini, al martellamento continuo di popolazioni terrorizzate. La vista spaventosa di rovine, cadaveri, disperazione dei simili alle vittime può tuttavia essere catturata senza che immaginiamo i sentimenti di impotenza, rabbia o dolore altrui, senza metterci nei panni di coloro che soffrono.
Il rifiuto volontario o indotto del riconoscimento del male che causiamo è spesso prodotto dell’ansia, dell’orrore verso il nostro passato, di paure ancestrali della sua reiterazione nel futuro. Uccidiamo per paura, presi in una spirale di angoscia, sfiducia e impulsi aggressivi dalla quale è difficile scappare. A causa di questo lasciamo che la forza della ragione lasci il passo alla ragione della forza. Non ci sentiamo colpevoli del male che infliggiamo in funzione di quello che potrebbe abbattersi sulle nostre teste. La logica del timore/ castigo/ timore non ha fine, ma l’angoscia e la fiducia cieca nelle propria forza sono cattive consigliere.
Scrivo ciò a proposito di Gaza. Era necessaria tale esibizione di prepotenza militare per porre fine al lancio di missili artigianali a Sderot e ad altre località israeliane vicine alla striscia? L’assedio terra, mare e aria ad un milione e mezzo di persone affamate e che gridano vendetta porta ad una risoluzione del problema di sicurezza di Israele o, più presumibilmente, lo aggrava? Era l’unica opzione a disposizione dopo il mini colpo di stato di Hamas contro la screditata Autorità Palestinese, come ripetono ogni giorno i portavoce militari e governativi dello Stato ebreo? La comunità internazionale, eccezion fatta per i falconi di Bush, pensa il contrario.

Annientare, annientare e annientare non garantisce il futuro di Israele: lo rinchiude in una mentalità assediata che a lungo termine gioca contro di lui. Seminare l’odio e la brama di vendetta rinforzano, invece, Hamas, Hezbollah e i loro mentori iraniani e siriani. Non è contraddittorio addurre la legittima difesa dello Stato giudeo contro “i lupi” che lo circondano (utilizzo la terminologia di un noto analista nordamericano) e fomentare allo stesso tempo la proliferazione infinita di questi “lupi” con una politica di asfissia e distruzione di tutte le infrastrutture civili della striscia, compreso scuole, moschee, edifici amministrativi e centri di accoglienza per rifugiati delle Nazioni Unite?

Non basta vedere il danno crudele nei notiziari televisivi per mettersi nei panni del male inflitto al prossimo: a questi centinaia di migliaia di giovani della striscia, indignati per la patetica incapacità di Abbàs e la complicità nella sua disgrazia di presunti paesi fratelli, come l’Egitto di Mubarak. Qualunque osservatore straniero verificherà l’effetto inverso della ferocia che trasforma questo ghetto infame in un autentico inferno: -dalla frase di un professore, laico, riprodotta in uno dei miei servizi su Gaza del decennio passato- “ guardi i giovani dei campi. Vivono pigiati, senza lavoro, distrazioni, possibilità di emigrare né di formare una famiglia. A poco a poco sentono che muoiono essendo vivi ed il loro cuore si trasforma in bomba. E un giorno, senza avvertire nessuno, correranno con un’arma qualsiasi ad un’operazione terrorista suicida. Non gli importa morire perché già si sentono morti”- fino a quella raccolta dal corrispondente di questo giornale lo scorso giorno 5 – “ la gente appoggia più che mai Hamas perché è arrivato un punto in cui la vita e la morte son quasi lo stesso”- i fatti confermano che il Piombo Indurito non risolve niente: dilata e complica inutilmente la già complessa e ardua risoluzione del conflitto. Confesso la mia perplessità davanti ad uno sproposito come quello che, dopo la terribile frase di Sharon- “i palestinesi devono soffrire molto di più”, formulata sette anni fa a modello di programma d’azione-, un intellettuale come Abraham Yehoshua l’accetti oggi a suo modo quando, in queste stesse pagine, affermava senza vergogna che “ la capacità di sofferenza dei palestinesi è molto più grande”. Si basa su una diagnosi scientifica, su uno psicometro in grado di misurare il dolore proprio e altrui? O non sarà piuttosto riflesso di questa incapacità di immaginare la sofferenza altrui, che siano giudei, indo americani, neri o palestinesi? Un’opportuna lettura di Todorov ci toglierebbe dai dubbi.

L’annientamento di Gaza non risponde ad una strategia ben meditata: si fonda invece su una politica opportunista di rendimento elettorale di fronte alle prossime elezioni parlamentari, a costo di far svanire le ultime illusioni di coloro che, da Oslo a Annapolis, hanno creduto nella possibilità di una soluzione dialogata, sebbene smentita anno dopo anno, sul campo, nei Territori Occupati: estensione senza freno della colonizzazione, umiliazioni giornaliere degli abitanti di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, miseria e asfissia di Gaza, soprattutto dopo il trionfo elettorale di Hamas, giudicato come movimento terrorista dal Nordamerica e da un’Unione Europea tragicamente disunita e incapace di svolgere il ruolo di mediatore credibile che le circostanze consigliano.
Il gioco di separare il presunto Stato palestinese in due entità e frammentare il territorio cisgiordano in bantustan impensabili pregiudica soprattutto lo screditato Governo di Mahmud Abbàs. Giacché l’estremismo di una parte alimenta quello dell’altra e, con la scusa di non dialogare con i terroristi- ovviando il fatto che sono stati eletti democraticamente- l’unico “Stato democratico” della regione viola giornalmente le risoluzioni dell’ONU e disprezza olimpicamente la disapprovazione quasi unanime dell’opinione pubblica internazionale.
Mi tornano alla memoria la frase di qualcuno così poco sospettoso della parzialità anti israeliana come Marek Alter dopo la sua visita ai Territori Occupati- “ho paura per Israele e Israele mi fa paura”- e le riflessioni del mio amico Jean Daniel sul paradosso storico che Israele- creato dai padri del movimento sionista con lo scopo di costituire uno Stato come gli altri- agisce dal 1967 come uno Stato diverso dagli altri, nella misura in cui si pone deliberatamente al margine della comunità internazionale che ha riconosciuto la sua esistenza 60 anni fa.

La mancanza di immaginazione rispetto al dolore dei palestinesi – la capacità etica e, in fin dei conti, umana di mettersi al loro posto- li rinchiude in un vicolo cieco: colpire sempre e sempre più duramente i nemici, tanto quelli che si rifiutano di accettare la realtà con la sua infausta retorica e insostenibili bravate- quelle di “buttare i giudei a mare”- quanto quelli che aspirano alla pace e ad un orizzonte condivisi attraverso il ritorno alla così chiamata linea verde, secondo la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Ascolto, con speranza e sollievo, la voce dei suoi intellettuali dissidenti, di quegli uomini e donne decisi a prendere le distanze dall’unanimità clamorosa che indicano i sondaggi sul successo effimero della devastatrice operazione militare nella striscia. Sono i dissidenti laici dell’uno e dell’altro schieramento coloro che difendono il ritorno alla ragione. Il loro ancora chimerico anelo di pace si basa sulla speranza di raggiungere un giorno un accordo concreto e giusto. Semplici esseri umani vengono, immaginano e sentono il male che infliggono agli altri e che non vogliono per sé stessi. Sulla linea esemplare di Edward Said, strappato con la forza alla sua infanzia palestinese, si rifiutano di mettere radici, come gli alberi nel terreno dell’oppressione. Vogliono essere il vento e l’acqua, come tutte le cose che scorrono nella costante mutevolezza del fiume di Eraclito. Che un giorno, più presto che tardi, la storia dia loro ragione!!
Juan Goytisolo.

Fonte: EL PAIS

18 gennaio 2009

GUERRA DI RELIGIONE O DI GAS?


In un articolo intitolato “Guerra e gas naturale. L’invasione di Israele e i giacimenti di gas naturale al largo di Gaza”, Michel Chossudowsky propone un’interessante analisi che porta a leggere l’attuale invasione di Gaza come il culmine - pianificato con gelido cinismo - di un logorante braccio di ferro per ottenere il controllo delle riserve di gas naturale scoperte di recente al largo di Gaza, e quindi di proprietà palestinese.
La cosa paradossale è che a questo punto i palestinesi appaiono come un semplice disturbo aggiuntivo, la cui rimozione non sia il fine ultimo della crociata sionista, ma un mezzo per raggiungere li vero obiettivo, il totale controllo di quello che viene chiamato il "corridoio energetico levantino", nel bacino orientale del Mediterraneo.

Chossudowsky inizia dicendo che “l'invasione militare da parte dell'esercito israeliano della striscia di Gaza è direttamente correlata al controllo e al possesso delle riserve strategiche sottomarine di Gaza. Questa e una guerra di conquista. Ci sono grandi riserve di gas al largo di Gaza”.
Poi Chossudowsky spiega che “il British Gas Group” (BG) e la consociata greca Consolidated Contractors International Company (CCC), di proprietà delle famiglie libanesi Sabbagh e Koury, avevano ottenuto nel 1999 dall’Autorità Palestinese i diritti di sfruttamento per 25 anni dei fondali di Gaza. Questi accordi riservavano all’Autorità Palestinese il 10 % dei proventi complessivi.

L'accordo prevedeva la costruzione di un gasdotto per sfruttare i nuovi giacimenti, che sono contigui a quelli già esistenti, di proprietà di Israele.

La questione della sovranità territoriale sui fondali con riserve di gas
– prosegue Chossudowsky - è cruciale. Da un punto di vista legale...
... queste riserve appartengono alla Palestina, ma la morte di Arafat e il crollo dell'Autorità Palestinese hanno permesso ad Israele di stabilire un controllo de facto sulle riserve sottomarine di Gaza.

Il gruppo BG tratta direttamente con il governo di Tel Aviv, aggirando il governo di Hamas per tutto quel che riguarda i diritti di sfruttamento dei nuovi giacimenti.

L'elezione del primo ministro Ariel Sharon ha rappresentato, nel 2001, una svolta cruciale in questa vicenda.
Il diritto di sovranità sui giacimenti fu infatti contestato di fronte alla Corte Suprema di Israele, mentre Sharon dichiarava che Israele non avrebbe mai comperato gas dalla Palestina, affermando che le riserve al largo di Gaza appartengono a Israele. "

Provate a pensare a cosa succederebbe nel mondo se, ad esempio, l’Italia contestasse davanti alla propria Corte Costituzionale il diritto della Francia di sfruttare i suoi giacimenti al largo di Marsiglia, dicendo che sono nostri.
Nel 2003 Sharon pose il veto ad un accordo che avrebbe permesso alla BG di fornire a Israele il gas proveniente da Gaza.

La vittoria di Hamas nel 2006 portò alla disfatta dell'Autorità Palestinese, che restò confinata in Cisgiordania, sotto il governo-fantoccio di Mahmoud Abbas.
Nel 2006 la BG stava per firmare un accordo per spedire il gas all'Egitto, ma pare che il primo ministro inglese Tony Blair sia intervenuto a favore di Israele per sabotarlo."

Di fatto, sappiamo che quell’accordo non fu mai firmato.

"Nel maggio del 2007 prosegue Chossudowsky - il governo israeliano approvò la proposta del primo ministro Ehud Olmert di acquistare gas dalla autorità palestinese. Sul tavolo c'era un contratto da 4 miliardi di dollari, con utili nell’ordine di due miliardi, dei quali uno sarebbe andato ai palestinesi."
Sembrava una soluzione onorevole per tutti.

"Tel Aviv però non aveva nessuna intenzione di dividere gli utili con la Palestina. Una squadra di negoziatori fu messa in piedi dal governo di Israele per stilare invece un accordo diretto col gruppo BG, aggirando sia il governo di Hamas che l’Autorità Palestinese. "Le autorità della difesa israeliana – si giustificò allora il governo - vogliono che i palestinesi siano pagati in beni e servizi, ma insistono che il governo controllato da Hamas non debba ricevere soldi”.
Siamo quindi alle comiche: il Primo Ministro chiede un accordo, il Governo lo firma, ma la Difesa si oppone, accampando motivi di sicurezza che evidentemente nè il Primo Ministro nè il Governo avevano preso in considerazione. D'altronde, non è che siano abituati a vivere nella paranoia, da quelle parti.
“Lo scopo ultimo – conferma infatti Chossudowsky - era quello di nullificare il contratto iniziale del 1999, firmato dal gruppo BG con l'autorità Palestinese di Arafat.”
Ma il balletto non è finito, e le vere vittime della danza ipnotica continuano a ballare ignare del proprio destino: “Il nuovo accordo proposto alla BG nel 2007 prevedeva un gasdotto sotterraneo che portasse il gas direttamente allo snodo costiero israeliano di Askelon, trasferendo di fatto ad Israele il controllo delle vendite del gas naturale di Gaza.
Sembrava fatta, finalmente. Noi pompiamo - pensarono gli inglesi - loro vendono, e i palestinesi tornano a coltivare i cedri.
Ma l'accordo, che avrebbe comunque portato qualche soldo nelle tasche dei palestinesi, fallì per l’intransigenza del capo del Mossad, che “per motivi di sicurezza” riteneva necessario precludere ai palestinesi qualunque introito monetario derivante dalle vendite del gas.

A quel punto la BG si ritirò dalle trattative, e nel dicembre 2007 chiuse i suoi uffici a Tel Aviv."

A Israele non restava che invadere, e prendersi con la forza quello che l’intransigenza altrui le impediva di ottenere con regolare contratto.

Chossoudowsky infatti sottolinea che “il progetto d'invasione della striscia di Gaza, chiamato operazione Piombo Fuso, fu messo in moto nel giugno 2008, ma diverse fonti militari hanno rivelato che l’esercito fosse stato allertato già sei mesi prima”. Ovvero, dal momento in cui era “definitivamente” fallita la trattativa con la BG.

Tanto definitivo fu quel fallimento, che mentre Israele lustrava i cannoni qualcuno contattava segretamente il gruppo BG, “per riaprire le importanti trattative sullo sfruttamento del gas al largo di Gaza. Di fatto sappiamo – scrive Chossudowsky - che fossero in corso trattative fra BG e Israele nell'ottobre del 2008, due o tre mesi prima dell'inizio dei bombardamenti, avvenuto il 27 dicembre”.

Chossudowsky non sa dire a che punto siano oggi le trattative, ma sembra chiaro che Israele abbia previsto fin dall’inizio di mettere gli inglesi di fronte al fatto compiuto, obbligandoli a quel punto ad accettare le loro condizioni, pur di vedere qualche dollaro sgorgare finalmente dai loro prezzolati giacimenti.

Chossudowsky acclude una cartina che aiuta a comprendere meglio la lungimirante strategia di Israele, nella cruciale redistribuzione delle risorse energetiche attualmente in corso.
Perchè di questo si tratta, e di null’altro. Chi controlla l’energia, domani controllerà il mondo.
Nel frattempo appare evidente come i reali proprietari dei giacimenti rappresentino poco più di
un disturbo temporaneo nel grande quadro strategico di Israele. Se non camminassero e piangessero come tutti gli altri, il problema non sarebbe nemmeno mai sorto.

Talmente determinata appare Israele nell’aver perseguito questa strategia, che sembra non essersi fermata nemmeno di fronte ai propri padrini e alleati, quegli inglesi senza i quali oggi Israele sarebbe solo il nome di una antica tribù sperduta nel deserto.

Ma evidentemente non è questo il tempo di rendere i favori. Ora è necessario accaparrarsi al più presto tutte le risorse ancora disponibili, prima che inizi il grande Armageddon.

Massimo Mazzucco da luogocomune.net

17 gennaio 2009

IL SILENZIO RENDE COMPLICI



In tutto il mondo si susseguono appelli per la pace affinchè finiscano al più presto gli scontri a Gaza.
Tra gli appelli dei politici e quelli delle Nazioni Unite, molto simili nella loro ipocrisia, pubblichiamo questo comunicato di Adrian Salbuchi rivolto alle comunità ebraiche in Argentina, sperando che venga ascoltato da tutte le comunità ebraiche del mondo, perchè il genocidio subito dagli ebrei non può essere un movente per le barbarie sioniste che si stanno perpetrando in questi giorni nella striscia di Gaza dove gli unici a pagare il prezzo di questo orrore sono i civili palestinesi.
Come ha scritto Norman G. Finkelstein:
«Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi come i nazisti»

Comunicato di Stampa N°60-9 gennaio del 2009.

Il silenzio è complicità.
Nel nostro comunicato stampa n° 59 del 30/12/08 IL MSRA (Movimento per la Seconda Repubblica Argentina, abbiamo fatto un richiamo a tutta la comunità ebraica del nostro paese affinchè prendesse una posizione inequivocabile di fronte alla barbaria genocida che sta portando avanti il governo terrorista dello Stato di Israele contro il popolo palestinese a Gaza.
Nel gigantesco Auschwitz nel M.O.amministrato dallo Stato Terrorista Israeliano,che è la striscia di Gaza, in due settimane hanno assasinato quasi 800 palestinesi,altri quasi 400 sono feriti,di cui la maggior parte donne,bambini e anziani. Le bestie israeliane sono arrivate al colmo sparando contro veicoli dell'Onu che trasportavano aiuti umanitari.

Questi sono crimini di lesa umanità! Quanti altri assassini realizzeranno gli israeliani mentre l'ipocrita "comunità internazionale" si frotta i vestiti e avanza a passo di tartaruga?

Sappiamo molto bene che le organizzazioni Amia, Daia e Osa appoggiano queste misure criminose e con ciò stanno compiendo un atto di apologia del delitti.
Seguendo l'esempio dignitoso del Venezuela, il governo di Kirshner, dovrebbere espellere l'ambasciatore israeliano e sospendere i rapporti diplomatici con lo Stato Terrorista di Israele.Certamente non lo faranno, in quanto i Kirshner sono funzionali al sionismo e si sottopongono (e con loro l'intero paese) agli interessi sionistici internazionali e dello stato di Israele.
Per questo, una volta ancora, facciamo una richiesta a tutta la comunità ebraica in Argentina, facendo appello al suo senso di giustizia, equità e rispetto per i diritti umani di Tutti gli uomini, affinchè condanni apertamente, pubblicamente e vigorosamente questo nuovo episodio di genocidio compiuto dallo stato terrorista di israele contro la popolazione palestinese nel suo paese, invaso dalle forze militari di occupazione israeliana da oltre 70 anni.

Ogni argentino, dovrebbe comprendere che il silenzio è complicità con gli assasini.
Noi abbiamo già sofferto il terrorismo di stato e molti compagni e fratelli hanno sofferto la violazione dei loro diritti umani, in parte, dovuto al silenzio complice e codardo della maggioranza. Per questo, noi argentini abbiamo una responsabilità storica speciale e singolare di far sentire la voce di allarme e non tollerare passivamente genocidi di questo tipo Mai Più e in Nessun Luogo.

Sappiamo molto bene che la comunità ebraica argentina non è rappresentata onestamente dall'Amia(Associazione Mutuale Israeliana Argentina) nè dalla Daia (Delegazione di associazioni israeliane in Argentina) nè dalla Osa (Organizzazione Sionistica in Argentina), che si porpongono di "esaltare i vincoli con lo stato di Israele, rettificando la sua guida di centro spirituale della vita ebraica" (http://www.daia.org.ar/01QuiSom.html).
Da ciò il nostro richiamo ai settori moderati e sani della comunità ebraica affinchè eliminino e censurino gli assasini che in questo preciso momento porta avanti lo stato di Israele a Gaza e che le potentissime forze mondiali (globali) sionistiche e pro-sionistiche pretendono di giustificare invocando di farlo "in nome di tutti gli ebrei del mondo"
Gli ebrei argentini pacifici non devono permettere que questo si faccia "in loro nome", non devono accettare buonisticamente di rimanere legati e macchiati dal terrorismo israeliano.
Il silenzio della comunità ebraica oggi li trasformerebbe implicitamente in complici di questo vero olocausto che si svolge in Palestina sotto il comando militare israeliano. Argentini:in questi momenti trascendentali, osserviamo molto attentamente chi fa cosa....
Movimento per la Seconda Repubblica Argentina (MSRA)
Adrian Salbuchi.

16 gennaio 2009

FINE DEGLI STATI UNITI, INIZIO DEL GOVERNO MONDIALE

L'anno 2009 ha segnato l'inizio di quelli che saranno i quattro anni più drammatici della storia umana.
A partire da aprile-giugno 2009, la crisi economica potrebbe portare a una drammatica guerra sociale-civile negli Stati Uniti, che potrebbe portare alla divisione territoriale della nazione. Tale è la visione di Igor Panarin, Dott. di Scienze Politiche e Direttore del Dipartimento degli affari internazionali presso l'Accademia diplomatica del Ministero degli Affari Esteri della Russia, previsione fatta nel 1998. A quel tempo, le previsioni Panarin non sembravano essere realistiche, dal momento che gli Stati Uniti un decennio fa sembravano imbattibili: una superpotenza mondiale. Oggi, tuttavia, le stime del Dr. Panarin sembrano avvicinarsi a una realtà possibile.
Un paio di settimane fa, il sito russo Izvestia ha introdotto una versione aggiornata di questi eventi, attraverso una intervista televisiva, dove gli esperti hanno condiviso con Panarin le loro opinioni su temi come ad esempio, il motivo per cui negli Stati Uniti il crollo dell'economia e finanza è inevitabile, anche con Obama, e il motivo per cui ora è meglio per la Russia restare amica della Cina. Riportiamo alcune parti del colloquio:

Domanda: Sig. Panarin, dove ha avuto l'idea di una "rottura" degli Stati Uniti nel 1998 quando il paese prosperava ed era il leader mondiale incondizionato?

Risposta: Nel settembre 1998, c'è stata in Austria, una conferenza internazionale sulla guerra Informativa. In quel momento ho presentato i risultati della mia ricerca analitica. Tra i circa 400 partecipanti, 150 americani avevano cominciato a gridare nel pubblico, quando ho parlato nella mia presentazione del prossimo US frattura. Tuttavia, le mie argomentazioni erano ben fondate. A quel tempo era ovvio per me che le finanze e l'economia potevano essere le principali forze distruttive che incombevano sugli Stati Uniti. Il dollaro non era sostenuto da niente. Il debito estero del paese è cresciuto come una valanga, nonostante il fatto che non vi era alcun debito nei primi anni Ottanta. Nel 1998, quando ho fatto le mie previsioni, il debito era salito a $ 2.000.000.000.000 (due trilioni di dollari). Ora supera 11 miliardi di dollari ... Questa è una finanza a piramide può solo portare ad un collasso.

Domanda: Crollo, quindi dell'intera economia degli Stati Uniti?

Risposta: Si ricorda che ora è in pieno collasso. Tre delle cinque più grandi e più antiche banche di Wall Street hanno cessato di esistere in seguito alla crisi finanziaria, e altre due sono in pericolo. Le loro perdite sono le più grandi nella storia. Ora si parla di sostituire il sistema di regolamentazione del mondo e gli Stati Uniti non sarebbero più "IL" regolatore globale.

Domanda: Quale paese dovrebbe sostituire gli Stati Uniti, allora?

Risposta: Ci sono due paesi che possono rivendicare questo ruolo: la Cina con la sua enorme riserva e la Russia come paese che potrebbe svolgere il ruolo di regolatore del territorio.
Un evento davvero eccezionale ha avuto luogo durante il vertice del gruppo di G20 fatto a Washington. I partecipanti hanno proposto una nuova architettura finanziaria internazionale, che avrà un ruolo chiave presso il FMI (Fondo Monetario Internazionale).
Ma il Fondo monetario internazionale ha bisogno di fondi, i partecipanti hanno chiesto a Cina e Giappone di fornire questi fondi. Oggi, le riserve d'oro della Cina superano i $ 2 miliardi di euro e la Cina è il più grande creditore degli Stati Uniti, che oggi può esercitare forti pressioni sulle politiche del FMI. Per tutto questo, non credo sia un caso che il leader cinese Hu Jintao si è incontrato con altri due leader al vertice: il presidente russo Dmitri Mevdelev e il leader del Regno Unito Gordon Brown. Ora ci sono piani per condurre una nuova riunione del G20 in Inghilterra, e il ricongiungimento con la Russia come paese che propone i principi per la ricostruzione del sistema finanziario mondiale è inserito in una chiara visione del processo di riforma cinese.

Lo scheletro che mantiene la coesione e l'unità degli Stati Uniti è fragile
 
Domanda: Abbiamo le idee chiare nei confronti dei leader del mondo, ma al ritorno negli Stati Uniti, cosa vi fa pensare che il paese avrebbe una frattura territorialmente?

Risposta: Ci sono diverse ragioni. In primo luogo, i problemi finanziari negli Stati Uniti sono destinati a crescere. Aziende come General Motors e Ford sono sull'orlo del collasso, il che significa che interi villaggi resteranno disoccupati. I governatori di Stati membri UE Nortemericana si chiedono con sempre maggiore veemenza che il governo nazionale invii loro denaro. I reclami crescono. Finora sono stati limitati a causa delle elezioni presidenziali e la speranza che Barack Obama può fare un miracolo. Ma nella primavera del 2009, sarà diventato chiaro che il miracolo Obama non accadrà. Il secondo fattore riguarda la vulnerabilità del regime politico negli Stati Uniti. Non vi è alcun diritto uniforme per tutto il territorio nazionale di questo paese. Nemmeno per il traffico uniformemente a tutta la nazione. Lo scheletro che tiene gli Stati Uniti è di fragile unità e coesione. Anche le forze armate USA in Iraq hanno un elevato numero di membri che non sono cittadini statunitensi, ma sono lì per combattere, perché sono stati messi in cambio di cittadini statunitensi. Infine, la frattura dell'elite negli Stati Uniti è diventata qualcosa di particolarmente evidente nella crisi attuale.

Domanda: Come sarebbe fratturato il paese?. Ovviamente, il Messico si trova nel sud, ma che cosa vede?

Risposta: Credo che ci saranno sei parti in totale. La prima riguarderà la costa del Pacifico. Sono in grado di farvi un esempio: il 53% della popolazione di San Francisco è di origine cinese.
Il governatore di Stato di Washington, era di etnia cinese, la capitale di Seattle è conosciuta come la porta della Cina in materia di immigrazione verso gli Stati Uniti. La seconda parte, sarebbe sicuramente il sud del Messico. In alcune zone, il castigliano ed è diventata una delle lingue ufficiali. Poi lo Stato del Texas sta apertamente lottando per la l' indipendenza. La costa atlantica è completamente di diversa mentalità etnica rispetto al resto del paese.
Si potrebbe anche spezzare in due parti. E ci sarebbero due depressioni centrali; ricordi che i cinque Stati membri in cui risiedono le tribù indiane hanno annunciato la loro richiesta di indipendenza. Al momento, è stato percepito come uno scherzo - o una sorta di politica spettacolo - ma resta il fatto ed è una realtà che non può essere ignorata. Il Canada, a sua volta, sta esercitando una forte influenza al nord.

Domanda: Che cosa succederà allora al dollaro?

Risposta: Nel 2006, c'è stato un accordo segreto tra il Canada, il Messico e gli Stati Uniti per preparare l'attuazione del programma "Amero", come nuova moneta della regione. Ciò potrebbe significare la sostituzione del dollaro. Allo stesso tempo, essi potrebbero "congelare" i dollari con cui gli Stati Uniti hanno letteralmente invaso il mondo. Può essere usato come un pretesto, per esempio, che "molti gruppi terroristici hanno forgiato i biglietti, e quindi la necessità di verificare l'autenticità di uno".

Domanda: Che cosa possiamo dire circa il divario che si è verificato all'interno della leadership americana detta élite?. E 'i democratici contro i repubblicani?

Risposta: No. Non è così. Ci sono due gruppi tra i protagonisti. Il primo potrebbe essere descritto come quello mondialeo addirittura trotzkyistas. Leon Trotzky aveva già messo questa idea, all'inizio del secolo scorso: non è necessario per la Russia, ma avevano bisogno di una rivoluzione. La Russia sovietica è stata percepita come una semplice trotzkyistas di base da cui partire per esercitare il controllo su tutto il mondo. Il secondo gruppo è costituito da stataliste che desiderano la prosperità per il loro paese. Siamo in grado di trovare i rappresentanti di questi due "clan" all'interno del Partito Repubblicano e nelle file del Partito Democratico. Ad esempio, il voto è avvenuto dopo poche settimane dal piano anti-crisi del Segretario del Tesoro Henry Paulson, che è stato proposto dal repubblicano Bush, tuttavia, i primi a respingerlo al Congresso erano proprio repubblicani stessi.

Quest'intervista condotta da Izvestia il 25-nov-08 ed è stata ampiamente ripresa in Occidente dalla CNN, Bloomberg, The Guardian e The Telegraph di Londra, FoxNews, e altri.

15 gennaio 2009

C'E' CRISI PER TE!



Il Beige Book della Federal Reserve registra un deterioramento del quadro economico in tutti i distretti degli Stati Uniti. Le condizioni dell'economia americana sono ulteriormente peggiorate.
Citigroup vendera' le attivita' di investment banking a JP Morgan a a Wall Street temono per lo stato di salute della principale banca americana che non riesce a trovare compratori per le attivita' di credito al consumo.
La forte flessione (-2,7%) delle vendite al dettaglio in America a dicembre a completato il quadro negativo e il flusso di vendite sui mercati azionari ha assunto la fisionomia di un fiume in piena.
I crolli del comparto bancario e la forte flessione dei consumi negli Stati Uniti affondano i mercati azionari, le borse europee bruciano quasi 210 miliardi di euro.
La Deutsche Bank annuncia che il quarto trimestre del 2008 si chiudera' con un rosso da quasi 5 miliardi di euro e l'8% della banca sarà rilevato dalla Deutsche Postbank, nell'ambito dell'operazione di aumento di capitale.
Tra i bancari i maggiori ribassi. Deutsche Postbank ha accusato un crollo del 18,70%, e se mpre a Francoforte Commerzbank accusa un tonfo del 10,40% e DEutsche Bank di oltre il 9%.
A Londra le cose sono andate anche peggio per i bancari.
Barclays cede il 15%, Hbos -11%, Hsbc -10%, Lloyds -9,60%, Old Mutual -13% ma la peggiore performance e' stata di Royal Bank of Scotland con un crollo del 17%.
Anche a Parigi i bancari guidano la list dei ribassi. Soc Gen accusa un calo del 10,50%, Dexia -9,75%, Bnp Paribas -7,90% e Credit Agricole -7,35%. Sempre a Parigi tra le blue chip maglia nera Axa con un tonfo dell'11%.
Profondo rosso anche a Wall Street. A meta' seduta il Dow Jones accusa uno scivolone del 3% e il Nasdaq sulla stessa linea con Citigroup che sprofonda con un -15,50%.
Complessivamente Wall Street perde quasi 370 miliardi di dollari capitalizzazione.

Fonte: ASCA

13 gennaio 2009

CNN: E' STATO ISRAELE A ROMPERE LA TREGUA



I media occidentali ripetono incessantemente che «Hamas ha rotto la tregua» durata sei mesi lanciando i primi razzi su Israele. La quale giustifica il mostruoso attacco a Gaza con la necessità di difendersi.

Questa versione è stata ripetuta, ovviamente, anche da CNN. Fino al 6 gennaio. Quando il giornalista Rich Sanchez, dopo aver sentito il deputato palestinese Mustafa Barghouti che sosteneva che era stato Israele a infrangere la tregua, ha promesso agli ascoltatori che avrebbe fatto una ricerca con la redazione internazionale del network, per appurare i fatti.

Ed effettivamente, Rick Sanchez ha detto in trasmissione: Israele ha violato per prima i termini della tregua, e precisamente il 4 novembre, con un attacco dentro il territorio di Gaza che ha ucciso 6 palestinesi (6).
fuocopuro

GAZA (2002): IL MASSACRO DI JENIN



Questo è un film fatto di grandi assenze: Bakri ha potuto infatti raggiungere Jenin solo a massacro avvenuto, il 26 aprile 2002, giorno in cui l'Esercito ha lasciato il campo. Ci è rimasto cinque giorni, ritornando solo un'altra volta per alcune rifiniture fotografiche. Ma è stato sufficiente: scheggia su scheggia si ricostruisce una storia, un'unità fatta di rovine. E di dolore. È questo che il suo autore vuole sviscerare in tutte le sue infinite variazioni. Ne risulta dunque un film sulla sofferenza umana: "su un'anima ferita, un cuore spezzato, un albero sradicato, una casa demolita, un fiore spezzato.".
È un dolore così forte, che non ha quasi bisogno di parole. Il primo, sorprendente testimone è un muto. Ma nessuno meglio di lui sarebbe capace di mimare efficacemente gli eventi, a cui ha assistito. I fatti sono talmente enormi che, appunto, non serve una dialettica particolare. Quindici secondi serratissimi racchiudono tutto: gli agguati, gli scontri, le barricare, le esecuzioni. Al primo piano, che puzza di morte e ha perso l'uso del linguaggio, si contrappone un secondo piano più vitale. La città continua a respirare: i vagiti, i canti, i rumori, le ombre raccontano di una comunità che è stata colpita al cuore, ma non è umanamente degradata. Ricomincia sempre da capo. E, soprattutto, non si arrende.
RESISTERE, NONOSTANTE TUTTO


Gentili lettori, questa è la prima parte di 6, del documentario sul massacro di Jenin del 2002 a Gaza. Invitiamo a vedere tutto il film.

«Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi come i nazisti»

10 gennaio 2009

ISRAELE HA PORTATO GAZA SULL’ORLO DI UNA CATASTROFE UMANITARIA

Si può trovare un senso all’insensata guerra di Israele contro Gaza solo capendo il contesto storico. La creazione dello stato di Israele nel 1948 fu causa di un’enorme ingiustizia verso i Palestinesi. I politici britannici mal tollerarono la faziosità degli Stati Uniti verso il neonato stato. Il 2 giugno 1948, sir John Troutbeck scrisse al ministro degli esteri che gli Statunitensi erano responsabili della creazione di uno stato canaglia guidato da «un gruppo di capi del tutto privo di scrupoli». Pensavo che questo giudizio fosse troppo duro, ma la brutale aggressione di Israele al popolo di Gaza, e la complicità dell’amministrazione Bush, ha riaperto la questione.

Chi scrive prestò servizio con fedeltà nell’esercito israeliano a metà degli anni Sessanta e non ha mai messo in discussione la legittimità dello stato di Israele secondo i confini di prima del 1967. Ciò che respingo senz’altro è il progetto coloniale sionista al di là della Linea verde. L’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di Israele dopo la guerra del giugno 1967 ha assai poco a che fare con la sicurezza. È solo una questione di espansionismo territoriale. L’obiettivo era quello di creare una Grande Israele attraverso un permanente controllo politico, economico e militare dei territori palestinesi. E il risultato è stata una delle più lunghe e brutali occupazioni militari dei tempi moderni.

Quarant’anni di controllo israeliano hanno provocato danni incalcolabili all’economia della Striscia di Gaza. Con una folla di profughi del 1948 stipati in una sottile striscia di terra, senza infrastrutture e senza risorse naturali, il futuro di Gaza è sempre stato buio. Ma Gaza non è solamente un caso di sottosviluppo economico, ma un caso, unico e crudele, di regressione pianificata dello sviluppo. Per usare un’espressione biblica, Israele ha fatto regredire il popolo di Gaza a tagliatori di legna e portatori d’acqua, a una fonte di manodopera a basso costo e a un mercato prigioniero per i beni di Israele. Lo sviluppo dell’industria locale è stato attivamente ostacolato affinché fosse impossibile ai Palestinesi rompere il vincolo di subordinazione a Israele e creare le fondamenta economiche necessarie per una vera indipendenza politica.

Gaza è il classico caso di sfruttamento coloniale nell’era post-coloniale. Le colonie ebraiche nei territori occupati sono immorali, illegali. Sono un ostacolo insormontabile alla pace. Sono allo stesso tempo strumento di sfruttamento e simbolo dell’odiata occupazione. A Gaza, i coloni ebrei erano soltanto ottomila nel 2005, a fronte di un milione 400mila nativi. Eppure quei coloni controllavano un quarto del territorio, il 40 percento della superficie coltivabile e facevano la parte del leone delle scarse risorse idriche. A gomito a gomito con questi stranieri intrusi, la maggioranza della popolazione locale viveva in condizioni meschine, in inaudita povertà. Ancora oggi l’ottanta percento vive con meno di due dollari al giorno. Le condizioni di vita nella Striscia rimangono un affronto ai valori della civiltà, un’importante causa scatenante della resistenza e un fertile terreno per il proliferare dell’estremismo politico.

Nell’agosto del 2005 il governo del Likud di Ariel Sharon ritirò unilateralmente i coloni da Gaza, richiamando tutti gli ottomila coloni e distruggendo le case e le fattorie che si lasciavano alle spalle. Hamas, il movimento di resistenza islamica, fu il protagonista della campagna che portò gli Israeliani a uscire da Gaza. Il ritiro fu un’umiliazione per le Forze di difesa israeliane. Sharon presentò al mondo il ritiro da Gaza come un contributo al processo di pace, basato sulla soluzione di due stati. Ma l’anno dopo, 12mila Israeliani colonizzarono la Cisgiordania, riducendo ulteriormente le dimensioni di uno possibile stato palestinese indipendente. Impossessarsi della terra e trattare la pace sono cose inconciliabili. Israele era in grado di scegliere, e scelse la terra invece della pace.

Il vero scopo di quella mossa fu quello di ridisegnare unilateralmente i confini di una Grande Israele inglobando le principali colonie della Cisgiordania nello stato di Israele. Il ritiro da Gaza, perciò, non fu affatto il preludio a un accordo di pace con l’Autorità palestinese, ma fu il preludio a un’ulteriore espansione sionista in Cisgiordania. Fu una decisione unilaterale di Israele presa in favore di quello che fu visto, erroneamente per conto mio, come l’interesse nazionale israeliano. Ben radicato in un rifiuto di fondo dell’identità nazionale dei Palestinesi, il ritiro da Gaza fu parte di iniziativa di lungo termine per negare al popolo palestinese un’esistenza politica indipendente sulla propria terra.

I coloni israeliani furono sì ritirati, ma i soldati di Israele continuarono a controllare tutti gli accessi alla striscia di Gaza per terra, per mare e per cielo. Gaza fu trasformata da un giorno all’altro in una prigione a cielo aperto. Da allora in avanti l’aviazione israeliana fu libera di sganciare bombe senza nessuna limitazione, di provocare boati sonici volando a bassa quota e rompendo il muro del suono, e di terrorizzare gli sventurati abitanti di questa prigione.

Israele si compiace di rappresentarsi come un’isola di democrazia in un mare di autoritarismo. Eppure Israele non ha mai fatto niente nella sua storia per promuovere la democrazia nei territori arabi, anzi a fatto molto per indebolirla. Israele collabora segretamente da lungo tempo con i regimi reazionari arabi per sopprimere il nazionalismo palestinese. Malgrado tutti questi ostacoli, il popolo palestinese riuscì a costruire la sola autentica democrazia del mondo arabo, con l’eccezione, forse, del Libano. Nel gennaio del 2006, libere e corrette elezioni per il Consiglio legislativo dell’Autorità palestinese portarono al potere un governo guidato da Hamas. Israele, però, rifiutò di riconoscere il governo democraticamente eletto, sostenendo che Hamas non è nient’altro che un’organizzazione terroristica.

Gli Stati uniti e l’Unione europea si unirono a Israele nell’emarginare e demonizzare il governo di Hamas e nel cercare di farlo crollare negando le entrate erariali e gli aiuti umanitari. Si creò così una situazione surreale: una parte significativa della comunità internazionale impose sanzioni economiche non contro l’occupante ma contro l’occupato, non contro l’oppressore ma contro l’oppresso.

Come spesso è accaduto nella tragica storia della Palestina, le vittime furono incolpate delle loro stesse disgrazie. La macchina propagandistica di Israele ha diffuso con insistenza l’idea che i Palestinesi siano terroristi, che rifiutino la coesistenza con lo stato ebraico, che il loro nazionalismo non sia nient’altro che antisemitismo, che Hamas sia soltanto un branco di fanatici religiosi e che l’Islam sia incompatibile con la democrazia. Ma la verità è che i Palestinesi sono un popolo normale con aspirazioni normali. Non sono migliori né peggiori di altri popoli. Ciò a cui aspirano è soprattutto un pezzo di terra per sé su cui vivere dignitosamente e liberamente.

Come altri movimenti radicali, le posizioni di Hamas sono diventate più moderate con la salita al potere. Dal rifiuto ideologico contenuto nel loro statuto, sono passati alla pragmatica soluzione di compromesso dei due stati. Nel marzo del 2007, Hamas e Fatah formarono un governo di unità nazionale pronto a negoziare un duraturo cessate-il-fuoco con Israele. Israele, però, rifiutò di negoziare con un governo che includesse Hamas.

Continuò a giocare al buon vecchio divide et impera tra fazioni palestinesi rivali. Verso la fine degli anni '80, Israele aveva sostenuto la nascente Hamas per indebolire Fatah, il movimento nazionalista laico guidato da Yasser Arafat. Adesso Israele ha iniziato ad incoraggiare i corrotti e plasmabili leader di Fatah a destituire i lori rivali politico-religiosi e a riprendersi il potere. Alcuni aggressivi neo-con statunitensi hanno partecipato al sinistro complotto per istigare una guerra civile palestinese. La loro intromissione è stata tra le maggiori cause del crollo del governo di unità nazionale e nel condurre Hamas a prendere il controllo di Gaza nel giugno 2007 per prevenire un colpo di stato di Fatah.

La guerra scatenata da Israele contro Gaza il 27 dicembre è stata l’apice di una serie di scontri e battaglie col governo di Hamas. Essa è però, in senso lato, una guerra fra il popolo palestinese e il popolo israeliano, perché la gente ha eletto il partito di Hamas. L’obbiettivo dichiarato della guerra è quello di indebolire Hamas e di fare sempre più pressioni affinché i suoi leader acconsentano a un cessate-il-fuoco alle condizioni di Israele. L’obbiettivo non dichiarato è quello di assicurare che i Palestinesi di Gaza siano considerati dal mondo solo come un problema umanitario, vanificando così la loro lotta per l’indipendenza e la creazione di un loro stato.

Il momento giusto per la guerra è stato determinato dall’opportunità politica. Le elezioni politiche sono in programma per il 10 febbraio e, nella corsa alle elezioni, tutti i principali concorrenti cercano di procurarsi l’opportunità di provare la loro durezza. Gli alti ufficiali dell’esercito scalpitavano per assestare un tremendo colpo a Hamas al fine di cancellare la macchia sulla loro reputazione provocata dalla guerra contro gli Hezbollah in Libano nel luglio del 2006. I cinici leader di Israele potevano contare pure sull’apatia e sull’impotenza dei regimi arabi filo-occidentali e sul cieco sostegno del presidente Bush in scadenza di mandato alla Casa bianca. Bush è subito corso a servizio degli Israeliani, scaricando la colpa della crisi su Hamas, ponendo il veto alle proposte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di un immediato cessate-il-fuoco e dando il via libera a un’invasione terrestre di Gaza da parte israeliana.

Come sempre, la potente Israele pretende di essere la vittima dell’aggressione palestinese, ma l’impressionante asimmetria di forza tra le due parti lascia poco spazio al dubbio su chi sia la vera vittima. Questo, infatti, è un conflitto fra Davide e Golia, ma al contrario, con la piccola e indifesa Palestina nel ruolo di Davide che affronta un Golia israeliano armato fino ai denti, spietato e arrogante. La risorsa della forza militare bruta è accompagnata, come sempre, dalla petulante retorica del vittimismo e dalla manfrina dell’autocommiserazione ricoperta di una pretesa superiorità morale. In ebraico si chiama sindrome di bokhim ve-yorim, “piangere e fottere".

Certo, Hamas ha la sua parte di colpe in questo conflitto. Privato del frutto della vittoria elettorale, davanti a un avversario senza scrupoli, ha fatto ricorso all’arma dei deboli, il terrore. I militanti di Hamas e della jihad islamica hanno continuato a lanciare razzi Qassam contro le colonie israeliane vicino a confine con Gaza finché l’Egitto non ha mediato un cessate-il-fuoco di sei mesi lo scorso giugno. Il danno provocato da questi rudimentali ordigni è minimo, ma l’impatto psicologico è immenso, tanto che i cittadini hanno preteso la protezione del governo. Date le circostanze, Israele aveva il diritto di difendersi, ma la sua risposta alla seccatura dei razzi è stata del tutto sproporzionata. Le cifre parlano da sole. In tre anni, dopo il ritiro da Gaza, undici israeliani sono stati uccisi dai razzi. D’altro canto, nel solo triennio 2005-2007, le Forze di difesa israeliane hanno ucciso 1.290 Palestinesi a Gaza, compresi 222 bambini.

Ma al di là delle cifre, uccidere civili è sbagliato. Questa regola si applica tanto agli Israeliani quanto ad Hamas, ma le cronache parlano di un’incontenibile e incessante brutalità verso gli abitanti di Gaza. Israele, inoltre, ha mantenuto l’embargo su Gaza dopo che entrò in vigore il cessate-il-fuoco, il che, secondo i leader di Hamas, vuol dire violare l’accordo. Durante il cessate-il-fuoco, Israele ha impedito le esportazioni dalla Striscia, violando manifestamente un accordo del 2005 e causando un violento calo delle possibilità di impiego. Ufficialmente, infatti, il 49,1 percento della popolazione è disoccupato. Ma al contempo Israele ha limitato drasticamente l’ingresso a Gaza di automezzi carichi di cibo, carburante, bombole di gas per uso alimentare, pezzi di ricambio per impianti sanitari e idrici, e medicinali. Mi risulta difficile capire come affamare e congelare i civili di Gaza possa voler dire proteggere i cittadini israeliani che vivono sul confine. Ma anche se fosse, sarebbe lo stesso immorale, una forma di punizione collettiva che è severamente proibita dal diritto internazionale.

La brutalità dei soldati israeliani fa il paio con la propensione alla menzogna dei suoi portavoce. Otto mesi prima che scoppiasse la guerra contro Gaza, Israele creò il Consiglio per l’Informazione nazionale. La sostanza dei messaggi alla stampa di questo organo è che Hamas ha violato il cessate-il-fuoco; che l’obiettivo di Israele è la difesa della sua popolazione; che le forze di Israele stanno facendo tutto il possibile per non fare del male ai civili innocenti. I velinari di Israele sono riusciti a trasmettere il messaggio. Ma, in sostanza, la loro propaganda non è altro che un insieme di bugie.

C’è un enorme divario tra la realtà delle azioni di Israele e la retorica dei suoi portavoce. Non è stato Hamas a rompere il cessate-il-fuoco, ma le Forze di Difesa israeliane. Il 4 novembre fecero un incursione a Gaza uccidendo sei uomini di Hamas. L’obiettivo di Israele non è solamente la difesa della sua popolazione, ma il rovesciamento finale del governo di Hamas a Gaza, mettendo il popolo palestinese contro i suoi governanti. E altro che cercare di non far del male ai civili: Israele è colpevole di bombardamenti indiscriminati e di un embargo ormai triennale che ha portato gli abitanti di Gaza, attualmente un milione e mezzo, sull’orlo di una catastrofe umanitaria.

Il precetto biblico dell’occhio per occhio è già abbastanza crudele. Ma la dissennata offensiva israeliana contro Gaza sembra seguire la logica dell’«occhio per ciglio». Dopo otto giorni di bombardamenti, con un bilancio di più di 400 Palestinesi uccisi contro quattro Israeliani, il governo guerrafondaio ha ordinato l’invasione di terra di Gaza, le cui conseguenze sono incalcolabili.

L’inasprimento dell’impiego dell’esercito non potrà far guadagnare a Israele l’immunità dal lancio di razzi da parte dell’ala militare di Hamas. Ad onta della morte e della distruzione che Israele ha inflitto loro, essi continuano la loro resistenza e continuano a sparare razzi. Si tratta di un movimento che glorifica il vittimismo e il martirio. Semplicemente: non c’è una soluzione militare allo scontro fra due comunità. Il problema del concetto di sicurezza di Israele è che esso nega persino la più elementare sicurezza all’altra comunità. C’è un solo modo per garantirsi la sicurezza, e non è sparare, ma discutere con Hamas, che si è più volte detto disposto a negoziare un cessate-il-fuoco duraturo con lo stato ebraico entro i confini di prima del 1967, un accordo che duri venti, trenta o addirittura cinquanta anni. Israele ha respinto l’offerta per la stessa ragione per cui ha rifiutato con sdegno il progetto di pace della Lega araba nel 2002, che è ancora sul tappeto: perché comporta concessioni e compromessi.

Questo breve excursus sulla cronaca di Israele degli scorsi quarant’anni non può che portare alla conclusione che esso è ormai diventato uno stato canaglia con «un gruppo di capi del tutto privo di scrupoli». Uno stato canaglia viola abitualmente il diritto internazionale, possiede armi di distruzione di massa e pratica il terrorismo, cioè l’uso della violenza contro i civili per scopi politici. Israele soddisfa tutti e tre questi criteri; le calzano a pennello. La vera mira di Israele non è una coesistenza pacifica coi vicini palestinesi, ma il dominio militare. Rende più grave gli errori del passato aggiungendone di nuovi e più disastrosi. I politici, come chiunque altro, sono certamente liberi di ripetere le menzogne e gli errori del passato. Ma non sono obbligati a farlo.
AVI SHLAIM

Fonte: http://www.guardian.co.uk/world/2009/jan/07/gaza-israel-palestine
www.comedonchisciotte.org

9 gennaio 2009

IL PROGETTO EBRAICO

Abbiamo aspettato inutilmente nei giorni scorsi che almeno qualcuno dei politici, in America, in Europa, in Italia, qualcuno dei Capi di Governo o dei Ministri dell’Economia denunciasse, facendone i nomi e destituendoli dalle cariche, gli operatori finanziari responsabili dell’immensa truffa messa in atto. Una truffa mai avvenuta in precedenza almeno in queste proporzioni e che ha provocato il crac delle più importanti Banche, il crollo delle Borse mondiali, la perdita dei propri investimenti e risparmi per coloro che glieli avevano affidati convinti che fossero degni della massima fiducia, e che adesso si trascina dietro il fallimento di innumerevoli grandi e piccole industrie. Sembra incredibile: cosa fa la magistratura? Mette in carcere, come al solito, chi ruba un etto di parmigiano al supermercato? E cosa facevano i vari Istituti di controllo e di valutazione, le Agenzie di rating, i Presidenti delle Banche Centrali, a cominciare da quella europea dal cui pulpito un ineffabile Trichet ogni giorno straparla del proprio dovere di tenere stretti i cordoni della borsa? Non si erano accorti di nulla? Dobbiamo per forza pensare che, o sono del tutto incapaci di fare il proprio mestiere, oppure che sono corresponsabili delle avventure criminose messe in atto. In ogni caso avrebbero dovuto essere rimossi e condannati. Invece, nulla. Silenzio assoluto. La Borsa è una istituzione “sacra” il cui andamento, anche quando è azzardato al massimo, non può in nessun modo essere oggetto di censure in quanto, secondo le norme che la guidano, è sufficiente che l’investitore sia a conoscenza del fatto che opera in zona “rischio”; più o meno come chi gioca alla roulette .

E’ fallito adesso anche il maggiore finanziere americano, Bernie Madoff, provocando un terribile terremoto in quanto gli avevano affidato le proprie ricchezze i più grandi capitalisti d’America. Ricchezze andate in fumo a causa della incredibile “catena di S. Antonio” messa in atto da Madoff con la vendita di prodotti finanziari inesistenti. In un particolareggiato articolo su questo argomento pubblicato nel suo sito (e che non possiamo riprodurre perché accessibile soltanto agli abbonati) il giornalista Maurizio Blondet ha messo l’accento sulla responsabilità di una particolare “visione del mondo” nelle attuali disavventure delle Banche e delle Borse, quella degli Ebrei. Di fatto sono quasi tutti ebrei gli operatori della finanza, compreso il Madoff e i capitalisti di cui sopra, e come è noto lo sono sempre stati anche quando le Borse e le Banche non esistevano, ed erano loro che prestavano soldi ad alto interesse ai poveri, piazzandosi con piccoli “banchetti” vicino ai mercati, mentre ai Re e Papi fornivano il denaro per le guerre e le conquiste in cambio di ipoteche su intere città. Gli Ebrei non amano ricordarlo, ma uno dei motivi che ha contribuito alla formazione dell’immagine negativa che li ha accompagnati lungo lo scorrere della storia è stato proprio il loro arricchirsi attraverso il commercio di denaro. Del resto il primo Monte di Pietà è nato in Italia ad opera di S. Bernardino da Feltre con il preciso scopo di prestare denaro ai poveri senza richiedere “interesse”, per sottrarli all’usura dei banchi ebraici cui non erano in grado di far fronte e che spesso li faceva finire nella prigione prevista per i debitori insolventi. Lo Statuto dei Monti di Pietà era un modello di tutela giuridica per coloro che vi si rivolgevano tanto da vietare espressamente che fossero accettati “in pegno” gli strumenti di lavoro (erano quasi tutti contadini e artigiani i lavoratori del tempo) e qualsiasi oggetto necessario alla vita quotidiana.

Perché ci si trova oggi a dover precisare l’identità ebraica dei manipolatori della finanza mondiale? Perché esiste appunto una “visione del mondo” che li guida, un progetto di vita sul quale si fondano i dogmi che tutti noi, non ebrei, siamo stati obbligati a condividere dalla fine della seconda guerra mondiale: il primato dell’Economia nella struttura della società, il Mercato come massimo e quasi unico valore (non dimentichiamoci che anche Marx era ebreo). In realtà il “progetto” ebraico riguarda gli “altri”, tutti gli “altri” perché gli Ebrei per quanto riguarda sé stessi hanno sempre messo al primo posto la propria identità come “Popolo” e non si sono dati pace fino a quando non hanno ottenuto, con Israele, il proprio territorio, la propria patria, il proprio Stato. Ma agli altri popoli questo è negato. L’Europa del nazismo, del fascismo, della persecuzione razzista doveva pagare, o meglio non aveva diritto a sopravvivere se non cancellando la sua storia, la sua identità, i suoi sentimenti, i suoi valori, perfino la sua configurazione geografica, per abbracciare totalmente il modello ebraico. E’ così che è nata l’Unione Europea: eliminando la vecchia Europa.

L’Unione Europea, perciò, è stata fondata sul “progetto ebraico”: il Mercato come unico legame fra i popoli e fra le Nazioni; la Moneta come cemento per la unificazione. Non si è parlato di altro dalla firma del Trattato di Maastricht in poi; tutto quello che è stato deciso dai governanti e messo in atto aveva come suo unico scopo l’incremento del Mercato, la libertà assoluta del Mercato, l’abbattimento di ogni frontiera, di ogni ostacolo al Mercato, sventrando montagne e spianando vie per “ l’alta velocità”, in una frenesia parossistica per giungere a realizzare il massimo sogno: una Europa-Mercato. Il prototipo utopistico, non più di una Città del Sole, ma di un Continente del Sole-Mercato.

Adesso, però, il crollo delle Borse, la crisi dell’economia, segnala il fallimento del progetto prima ancora che fosse completato. Non sembra che i governanti si siano fermati neanche un momento a riflettere se non fosse il caso di cambiare direzione, anzi. Invitano a consumare, consumare in funzione del circolo perverso del Mercato che alimenta se stesso, e si affrettano a conformare il territorio dell’Europa a inestricabile intrico di vie di comunicazione. Ma tocca ai cittadini resistere. Troppe volte nella storia si è ceduto alla volontà di governanti accecati dai propri insani disegni. L’Italia, l’Europa, non sono fatte per scambiare merci, per vivere di mercati. Già da molti anni sono state spinte al silenzio le intelligenze creative, affogate nell’arido mare del commercio. Non è questo che possiamo e dobbiamo dare al mondo. Il fallimento dei grandi finanzieri ci invita a liberarcene.
Ida Magli

8 gennaio 2009

LA FINE DELLE NAZIONI


Nei giorni scorsi la Svezia ha ratificato per via parlamentare la Costituzione europea, il cui nome è stato cambiato, con i soliti metodi truffaldini di cui è costellata la costruzione dell’UE, in “Trattato di Lisbona” per farla accettare a quei popoli che, come “Costituzione”, l’avevano bocciata. Anche se non ci sono state le maggioranze assolute che accompagnano di solito le questioni europee, tuttavia i politici svedesi hanno approvato con notevole entusiasmo la rinuncia alla sovranità e all’indipendenza del proprio Stato: 243 “sì”, 39 “no”, 13 astensioni e 54 parlamentari assenti. Due piccolissimi partiti di opposizione, quello della Sinistra (i Comunisti) e quello dei Verdi, avevano tentato di far rinviare di un anno la ratifica; ma le quattro formazioni della coalizione governativa di centro-destra insieme al principale partito di opposizione, quello socialdemocratico, si sono uniti nel sostenere con tutte le loro forze i benefici di una immediata approvazione e l’hanno avuta vinta.

Dobbiamo dunque prendere atto, per l’ennesima volta, che la costruzione dell’impero europeo sta a cuore in modo talmente esorbitante ai politici di ognuno degli Stati chiamati a farne parte, da non ammettere neanche una minima pausa di riflessione, tanto meno una pausa che insinui una qualsiasi perplessità nei cittadini, neanche laddove vige un perfetto regime socialista come in Svezia. Il fatto è che i parlamentari svedesi non dimenticano che sono stati i cittadini, votando “No” tutte le volte che si è fatto un referendum, a impedire l’adesione della Svezia alla moneta unica, e dunque sapevano bene che, se avessero potuto, gli Svedesi si sarebbero opposti anche alla Costituzione.

Dobbiamo tenere sempre bene a mente questa constatazione perché uno dei punti più importanti dell’esame che faremo sarà proprio questo: l’Impero europeo è stato ideato in modo misterioso, segreto, da qualcuno fra i massimi detentori del potere il cui nome ci è sempre stato tenuto nascosto, ed è stato realizzato a poco dai governanti dei singoli Stati tenendo il più possibile all’oscuro i cittadini degli scopi da raggiungere. Una oscurità che si è protratta per anni, con il consenso dei mezzi di informazione, in quanto tutti, politici e giornalisti, erano consapevoli che si trattava di una operazione contraria ai sentimenti e agli interessi dei popoli. Quale popolo, infatti, sarebbe così stolto da voler rinunciare a possedere un proprio territorio, una patria? Quale popolo potrebbe desiderare di non essere libero, di non conoscere neanche la lingua di coloro che lo governano, insomma di dipendere da stranieri sui quali non può incidere in nessun modo?

Il Parlamento europeo è pura finzione, come i politici sanno bene, in quanto non ha alcun potere reale sulla volontà della Banca Centrale, dei Capi di governo e dei Commissari, i quali sono tenuti, in base al trattato di Maastricht, a “non sollecitare e a non accettare istruzioni da alcun Governo né da alcun organismo”(Art.157). Nessuno, perciò, ha il diritto di affermare che in Europa vige la democrazia. La costruzione dell’Unione Europea è semmai la prova irrefutabile di come si possa, con innumerevoli sotterfugi, astuzie e stratagemmi formali, ingannare l’opinione pubblica ed esautorare qualsiasi presidio democratico. Del resto se ne è avuta l’ennesima conferma proprio in questi giorni: dall’ultima ricerca svolta sul gradimento dell’Unione fra le popolazioni d’Europa è risultato che soltanto il 35% degli Italiani è favorevole. Importa forse qualcosa ai governanti che la maggioranza dei cittadini non voglia l’unificazione?

Vanno avanti allegramente a programmarsi le votazioni per il Parlamento europeo, assegnando i posti, riccamente retribuiti, ai candidati che vogliono togliersi di torno perché difficilmente collocabili in Italia a causa della loro ignobile condotta politica (come è noto si è fatto il nome di Bassolino e della Jervolino) tanto è sicuro che così non potranno più disporre di nessun potere: il parlamento europeo e il nulla si equivalgono. Scriveva nel 1997 Enrico Letta in un volume di incitamento all’accettazione dell’euro intitolato “Euro sì”, che “sarebbe necessario che cambiasse l’idea che l’approdo a Bruxelles debba seguire la sconfitta in qualche scontro interno di partito o sia l’anticamera del pensionamento rispetto a lunghe carriere politiche nazionali”. Sono passati undici anni, l’Europa imperversa, ma i criteri di scelta dei parlamentari sono rimasti gli stessi, per il semplice motivo che oggi come allora il parlamento europeo è esclusivamente un comodo sedile a disposizione dei partiti.

La cosa più grave, però, è che i governanti non si sono fermati a riflettere sul fallimento del Progetto neanche di fronte all’attuale crisi economica, al crollo delle Banche e delle Borse, fenomeni che segnano il punto culminante del disastro del Progetto stesso, il segnale che tutto l’edificio sta per crollare. Non si può sbagliare, infatti, davanti all’evidenza: non sono le corruzioni, i furti, le truffe, gli errori dei singoli operatori e dei singoli amministratori delegati delle grandi industrie ad aver provocato la catastrofe, ma l’Idea che ne è stata all’origine e che per la sua stessa natura permette o addirittura provoca questi comportamenti.

Quale era questa Idea? Creare un mondo tutto uguale, in funzione del dogma della globalizzazione, senza frontiere, senza dazi, senza confini, senza Stati, senza distinzioni di popoli, di culture, di razze, di territori, di lingue, di costumi, di leggi, di religioni, di governi, di monete: un immenso, unico mare di “uguali” sul quale il Dio Mercato potesse navigare in assoluta libertà. L’Unione Europea (non si è voluto, infatti, che si chiamasse “Stati Uniti d’Europa” in quanto gli Stati non debbono sussistere) doveva esserne il perfetto prototipo, la realizzazione esemplare, quella che il resto del mondo avrebbe dovuto ammirare ed imitare per raggiungere la felicità. Non dimentichiamoci che è questo che promette ai popoli la costituzione europea: la felicità, commisurata al PIL, al prodotto nazionale lordo.

Un'idea del tutto folle, naturalmente, come la situazione attuale ha dimostrato e sta ancora dimostrando. Nessuno aveva mai pensato in precedenza che si potessero mettere in funzione dei “sistemi” privi di qualsiasi interruttore, di una qualsiasi valvola o chiusura di sicurezza; nessuno aveva mai ritenuto che gli uomini fossero “oggetto dei bisogni del mercato” invece che soggetto agente dei propri bisogni. E’ in base a questi principi che il crollo delle Borse ha contagiato tutto il mondo: era stato eliminato, in nome della libertà del mercato e della sua capacità di autoregolarsi, ogni forma di controllo. Ed è in base a questi stessi principi che i governanti oggi, invece di chiedersi in che cosa il sistema fosse sbagliato e cominciare a cambiarlo, insistono nell’esortare i cittadini a spendere in funzione del mercato, annientando così perfino quel buon senso che di solito guida l’uomo intuitivamente verso la salvezza prima di cadere nell’abisso. La formula: “dato che non avete soldi e prevedete che domani ne avrete ancora di meno, spendete più che potete” apparirebbe, come di fatto è, quella di suicidi sul punto di spararsi se non fossero i governanti a proclamarla. Ma l’aspetto più terribile di questa situazione è che siamo costretti a presupporre che una parte almeno dei governanti sia in buona fede, e che non si accorga che i “fondamentalismi” dell’Occidente sono altrettanto distruttivi quanto quelli del terrorismo orientale. E’ infatti fondamentalismo allo stato puro la certezza dei governanti d’Europa che le leggi sulle quali si fonda il Mercato siano inamovibili, identiche a quelle della Fisica, e che gli uomini, identificati esclusivamente come “consumatori”, debbano necessariamente piegarvisi. La verità è, invece, che la legge: consumare sempre più merci per produrre sempre più merci, annienta l’Uomo. Il pensiero, l’anima, il sentimento, il valore, tutto ciò che fa dell’uomo l’Uomo.
Ida Magli 15.12.2008

7 gennaio 2009

L' IMPOTENZA DELLA PACE

“E cosa sta facendo la nostra gente in Palestina? Erano servi nelle terre della Diaspora e d'improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un'inclinazione al dispotismo. Essi trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose.”
Ahad Ha'am – Zionism: the Dream and the Reality – Harper and Row – New York – 1974.

In questi giorni di sgomento e rabbia, incredulità ed angoscia, stiamo osservando l’ennesimo capitolo dell’infinito tormento palestinese, che già sappiamo non sortirà effetto alcuno, né fra i palestinesi – che si ritroveranno uniti per qualche tempo, per poi ricominciare l’eterno dissidio interno – né per gli israeliani, i quali non potranno rimanere a Gaza – sarebbe come riportare il morto in casa – e s’accontenteranno di qualche anelito di vittoria: vera, presunta, addomesticata dai media, velleitaria e che provocherà altri dissidi interni.

3 gennaio 2009

NUCLEARE: LA RISPOSTA SBAGLIATA


L'Enel oramai ha la ricetta pronta per il ritorno al nucleare entro il 2020, in barba ad un referendum dove la volontà dei cittadini si è espressa contraria, ma in Italia dove oramai vige la dittatura, lo stato non siamo noi cittadini.
L'amministratore delegato dell'Enel Fulvio Conti, è stato di grande aiuto alla "nobile" causa del nucleare, rilasciando interviste a vari quotidiani della casta, dove parla di blackout: "Rischiamo di restare al freddo e al buio".
Dietro questa preoccupazione per noi cittadini, si nascondono sempre interessi economici con molti ma molti zeri.
L'UBS la grande banca svizzera privata (legata a filo doppio con Clearstream) con il suo eccellente cast di analisti esperti in paradisi fiscali e riciclaggio di denaro, ha stimato dal progetto dell'Enel sul nucleare un aumento del titolo dall'attuale 7 a 9 € entro la fine dell'anno.
La valutazione deriva dal prezzo pagato da E.On per le centrali di Endesa Italia che sono state valutate circa 8 miliardi di euro per un valore implicito di 1.108 euro per kW di potenza installata.
Quindi come ha dichiarato il ministro Scaiola: "Entro 5 anni la prima pietra delle nuove centrali italiane nucleari"...e di questo affare colossale.
L'Enel parla di "centrali di terza generazione" e di "terza generazione migliorata" con 2 iter di autorizzazioni per un super contesto normativo ancora da "allestire"...
Questo vuol dire che i criteri delle norme sono ancora da definire, ma ricordiamoci che al di là della sicurezza, che può venir meno di fronte ai grandi interessi economici, il grande problema delle centrali nucleari non è la sicurezza ma gli scarti: le scorie radioattive. oramai non si sa più dove metterle, a meno chè non trovi un posticino la criminalità organizzata, grande esperta del settore...
Gli Stati Uniti hanno investito 8 miliardi di dollari in 18 anni per stoccare i residui all’interno delle montagne Yucca, lì dovrebbero essere al sicuro per 10 mila anni… ma hanno già cominciato a contaminare l’area.
Inoltre gli studi dell’agenzia internazionale per l’energia atomica dicono che l’uranio comincerà a venir meno dal 2025-2035, come il petrolio, e i prezzi, quindi, andranno su. Si potrebbe usare il plutonio, peccato che si presti divinamente a farci le atomiche.
Il nucleare ha bisogno di troppa acqua. Il il 40% dell’acqua potabile francese serve a raffreddare i reattori. 5 anni fa molti anziani morirono per il caldo, e scarseggiò l’acqua per raffreddare gli impianti, sicché fu ridotta l’erogazione di energia elettrica. E morirono ancora più anziani per mancanza di aria condizionata.
Come dice Roberto Saviano: "le organizzazioni criminali non sono mai all'opposizione".
Cosa ci dobbiamo aspettare da uno stato governato dagli interessi personali di onorevoli "abusivi" che sono lì di prepotenza perchè nessuno ha avuto la possibilità di votare?
L'abitudine non è mai una bella cosa, fa sembrare normale anche ciò che non lo è. Siamo abituati all'illegalità dopo mani pulite ora viviamo tranquillamente l'era di "mani sporche". Vediamo la delinquenza negli "stranieri" ma non nei nostri governati.
E' vero: "quando c'è la salute c'è tutto", ma proprio per questo ci dobbiamo pensare dicendo NO alle centrali nucleari...e ad altro, ma ne parleremo la prossima volta!

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