1. Oggi, 2 giugno 2012,
nasce il sito dell’Associazione Riconquistare la Sovranità (ARS). La
data è stata scelta per l’alto valore simbolico: crediamo fermamente
nella Costituzione Repubblicana, soprattutto nel titolo che disciplina i
“rapporti economici”, disapplicato da oltre venti anni. La disciplina
costituzionale dei rapporti economici è un’ancora di salvezza per
tentare di uscire dalle tre crisi che attanagliano l’Italia: la crisi
della produzione; la crisi della distribuzione; la crisi culturale e
addirittura antropologica.
L’ARS muove dalla convinzione che l’euro
sia stato un errore tecnico, oltre che politico: ha impoverito non
soltanto i lavoratori dipendenti, bensì anche molte imprese italiane. Si
tratta di un’opinione ancora largamente minoritaria, la quale,
tuttavia, va diffondendosi, perché la barriera della menzogna, eretta
dai media mainstream, è stata forata in più parti dalle avanguardie del
popolo italiano e perché la spietatezza dei crudi fatti e le crisi della
produzione e della distribuzione della ricchezza hanno oggettivamente
suscitato in molti cittadini almeno il dubbio sulla sostenibilità della
moneta comune.
Tuttavia, l’ARS sostiene una posizione
più avanzata rispetto a quella di coloro che si limitano a constatare il
fallimento dell’euro e, quindi, gli squilibri e l’impoverimento che la
moneta comune ha generato. L’errore tecnico dell’euro si colloca in un
quadro di politiche giuridico-economiche le quali, negli ultimi
venticinque anni, hanno spostato ricchezza:
i) dal lavoro subordinato al capitale;
ii)
dalla piccola impresa , dal piccolo commercio e dai professionisti
alla grande impresa produttiva, alla grande distribuzione e ai grandi
studi professionali, i quali sono imprese;
iii) dal capitale produttivo al capitale finanziario;
iv) dal capitale finanziario che eroga prestiti alla produzione al capitale finanziario che eroga prestiti al consumo; e
v)
finanche dal capitale finanziario che eroga prestiti al capitale
finanziario che gioca sui valori di titoli e che compie vere e proprie
scommesse su solvibilità di stati e sul livello dei tassi di interesse o
degli indici di borsa ( i cosiddetti derivati).
Insomma dai salari e dai redditi da
lavoro ai profitti; dai profitti alle rendite; dalle rendite alle
vincite. E’ il capitalismo caos e casinò.
2. L’abbinamento del
vincolo della “moneta comune”, che non è moneta italiana, e dei vincoli
globalisti – libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e
delle persone; imposizione fanatica della concorrenza e tendenziale
divieto dei monopoli pubblici – ha generato, come era naturale,
indebitamento privato (in buona parte verso l’estero), difficoltà
specifiche in alcuni settori del commercio e dell’impresa, bolle
(finanziaria, immobiliare, del credito al consumo), delocalizzazioni,
disoccupazione, e deflazione salariale – all’interno del sistema
dell’Unione europea e del WTO, la deflazione salariale è oggettivamente
l’unico strumento per “competere”.
Perciò, a differenza della maggior parte
dei contestatori dell’euro, l’ARS riconosce che i fenomeni della
deflazione salariale, della crescita dell’indebitamento privato (di
famiglie e imprese), della trasformazione dei debiti privati delle
banche in debiti pubblici, delle delocalizzazioni, della disoccupazione e
della sotto-occupazione crescenti si sono verificati anche in
ordinamenti giuridico-economici che non hanno adottato la moneta comune
(per esempio in Gran Bretagna) e negli Stati Uniti. Pressoché tutti i
paesi della triade – USA, Unione europea, Giappone -, con la parziale
esclusione dei paesi che hanno potuto avvantaggiarsi di condizioni
particolari (la Germania ha approfittato dell’introduzione dell’euro a
scapito dei paesi del sud Europa) soffrono da tempo di bassa crescita,
di disuguaglianze sociali crescenti tra i percettori di redditi da
lavoro e di redditi da capitale (rendite e profitti), e di
disoccupazione, celata nelle statistiche dalla sotto-occupazione, ormai
fenomeno strutturale in molte delle economie della triade.
3. Non si tratta di
“crisi del capitalismo” o di “crisi globale”. Nell’ultimo quinquennio,
un numero molto elevato di ordinamenti giuridico-economici estranei alla
triade ha visto aumentare il PIL con medie che variano dal 4% al 9%
(dal Brasile, all’India; dall’Argentina alla Cina, dal Vietnam al
Libano, dall’Angola alla Russia; dall’Indonesia alla Bielorussia; e via
continuando). La crisi è crisi dei sistemi giuridico-economici
capitalistici dei paesi con economie “avanzate” (verrebbe da dire:
marce). Essi sono ordinamenti capitalistici di mercato o comunque sono
ordinamenti che nell’ultimo ventennio , in alcuni casi nell’ultimo
trentennio, hanno subito trasformazioni da forme di capitalismi di
stato, quali erano, a forme di capitalismi di mercato, quali stanno
diventando o sono diventati.
L’Associazione Riconquistare la Sovranità propone di invertire la rotta.
4. Tutti i
provvedimenti proposti dai movimenti di contestazione in questi ultimi
anni implicano che l’Italia arresti, per quanto la riguarda, il processo
di globalizzazione e scelga la strategia della de-globalizzazione. De-globalizzare
significa che l’Italia deve sottrarsi ai vincoli posti dall’Unione
europea e dal WTO. Si tratta del punto nevralgico, non spiegabile in
poche battute. Ad esso dedicheremo numerosi articoli e riflessioni. Per
ora ci limitiamo ad esprimere l’assunto. Senza sottrarci ai vincoli
dell’Unione europea e del WTO, non è possibile promuovere la piena
occupazione; alzare i salari; proteggere il piccolo commercio e la
piccola impresa; ridurre le importazioni di beni alimentari; sviluppare
la produzione interna di beni che importiamo e che sapremmo produrre;
evitare la distruzione della nostra agricoltura; aumentare gli addetti a
quest’ultimo nobile settore economico; rendere interno il debito
pubblico; pagare tassi di interesse sul debito pubblico bassi, perché
protetti da una banca centrale nazionale non autonoma; nazionalizzare le
grandi banche commerciali e separare queste ultime dalle banche
d’affari; sottrarci al potere del capitale marchio; limitare il potere
della pubblicità e i costi e gli ingiusti profitti che essa genera;
eliminare le forme di lavoro servile che si sono andate diffondendo;
vincolare il risparmio italiano a investimenti in Italia; limitare le
delocalizzazioni; ridurre e limitare l’indebitamento delle persone e
delle famiglie; promuovere filiere corte e mercati locali; in generale,
costruire un’economia sociale e popolare a dimensione umana.
Nel Documento di Analisi e Proposte politiche e nel Progetto
dell’Associazione Riconquistare la Sovranità – entrambi i documenti
sono pubblicati sul sito dell’ARS – sono tracciate le linee guida e la
strategia paziente da seguire.
5. L’insistenza sulla
crisi della produzione e sulla crisi della distribuzione della ricchezza
non sta a significare che l’ARS si disinteressi della crisi culturale e
antropologica del popolo italiano. Siamo anzi consapevoli che questa è
la crisi di gran lunga più importante.
Intanto, la crisi della distribuzione
della ricchezza, essendo crisi della giustizia, è già crisi di civiltà.
Qui materia e idea si legano inscindibilmente. La civiltà di una società
non è scindibile dalla giustizia dei rapporti economici. Siamo
diventati una società che accetta troppo facilmente disuguaglianze,
ingiustizie e lavoro servile.
Anche la precarietà del lavoro
subordinato e la promozione della libera circolazione delle persone sono
nel medesimo tempo elementi di un rapporto giuridico-economico e segno
di degrado civile. Altro è la precarietà e la disponibilità ad
allontanarsi dalla propria terra per scelta volontaria: per tentare una
carriera o per formare un bagaglio di esperienze che sarà utile in
un’arte o in un mestiere autonomo: elementi sovente positivi e
fortificanti. Altro è la precarietà generale, cantata in nome della
“flessibilità” e imposta a tutti i lavoratori subordinati, in
abbinamento con la promozione della libera circolazione delle persone.
Quest’abbinamento è scelta di sradicamento, promozione di instabilità
psicologica, è attacco alla famiglia (crea difficoltà a chi desideri
costruirne una stabile) e quindi è imposizione dell’individualismo. Ed
è, ovviamente, sfruttamento.
Più in generale, viviamo soggetti a un
perenne diluvio di pubblicità, immersi in informazioni e spettacoli
regalatici dal grande capitale (chi sa perché il capitale marchio paga
per intrattenerci ed informarci!); con i bambini cacciati dalle strade e
dai vecchi campi – piene di autovetture le prime e di cemento i
secondi. I bambini sono divenuti il primo bersaglio del capitale
marchio.
Le scuole non insegnano più materie e
non sono più serie, ossia giustamente severe: sono divenute luoghi in
cui si “progetta” e si collegano nozioni tratte da materie diverse (la
tanto amata e in realtà pietosa “interdisciplinarietà”). Le università
attirano studenti mediante forme svariate di pubblicità e divengono
facili laureifici, perché prendono fondi anche in base al numero basso
degli studenti fuori corso. I docenti universitari sono stati collocati
“sul mercato”, a elemosinare pochi fondi presso enti e associazioni:
cercare fondi è divenuta la principale attività del docente; o meglio è
l’attività promossa dal legislatore.
Alcuni dei mali segnalati sono
strettamente connessi alla disciplina dei rapporti giuridico-economici;
altri soltanto indirettamente, perché sono il frutto di processi
culturali molto complessi. Ma alla resa dei conti, soltanto riprendendo
il controllo della produzione e della distribuzione, è possibile pensare
di porre rimedio alle degenerazioni culturali, tutte direttamente o
indirettamente riconducibili alla promozione del turbocapitalismo
globale e finanziario. Senza riprendere nelle nostre mani il destino,
ossia senza riconquistare il potere di dirigere e programmare produzione
e distribuzione della ricchezza, è possibile soltanto un lieve
miglioramento dei profili ideali, culturali e ambientali.
Dunque, riconquistare la sovranità anche e soprattutto per tentare di edificare una diversa, migliore e magari grande civiltà.
02.06.2012
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