2 maggio 2011

LA GRANDE TRANSIZIONE GEOPOLITICA: Crisi capitalista, cicli egemonici e distribuzione del potere

E’ evidente che sta cominciando a configurarsi un Nuovo Ordine Mondiale. Un cambiamento profondo che non è esente da pericoli. Per America Latina la scommessa è vitale: o integrazione o rimanere sotto il controllo di una superpotenza in declino.
Di Manuel Monereo
Emancipación
Lo scopo di questa discussione è strutturato attorno a tre idee:
1)- Nei rapporti transnazionali l’economia del mondo capitalista sta vivendo una mutazione, un riordinamento sistemico. Affrontiamo una transizione geopolitica di enormi dimensioni, il suo fondamento è la redistribuzione sostanziale del potere politico a livello mondiale.
2)- L’America Latina e i Caraibi hanno davanti a loro un’opportunità storica, per diventare soggetti e non semplice oggetto in questa transizione. Questa regione è una delle “linee di frattura” del sistema-mondo. Per la prima volta in decenni è un territorio conteso tra le grandi potenze. La commemorazione del bicentenario dell’indipendenza si allaccia al momento attuale con tale questione. E’ una nuova opportunità storica per unire l’emancipazione sociale con l’indipendenza nazionale e la sovranità con l’unità latino americana.
3)- La necessità di un “nuovo regionalismo”, per questo bisogna uscire dal “cosmopolitismo di mercato” e organizzare una nuova unità che permetta un modello di sviluppo sociale, economico e ecologicamente sostenibile. In breve, diventare un attore politico internazionale protagonista che dia voce ai popoli del continente. 

Il mondo sta cambiando base 

A novembre del 2008, il Consiglio Nazionale dell’Intelligence (organo di analisi e pianificazione legato alla CIA), ha reso pubblico il dossier “Tendenze globali 2025(1). In esso si affermava quello su cui noti esperti nordamericani mettono in guardiada anni. Riassumendo, pongono cinque grandi interrogativi. In primo luogo osserva che la tendenza dominante si evolve verso un’organizzazione multipolare del mondo. 
In secondo luogo, gli stati Uniti continueranno ad essere la potenza predominante, anche se dovranno adattarsi e condividere il potere a livello planetario.
In terzo luogo vi è l'emergere di altre grandi potenze (in particolare Cina e India). Il loro capitalismo è molto diverso a quello degli USA. L’intervento dello Stato ed un controllo di questo sui flussi di capitali, servizi, persone e tecnologia, sono la loro carta naturale.
In quarto luogo si apre la strada ad una nuova centralità: i problemi ecologici globali, la riduzione delle risorse naturali, sempre più scarse, aprono nuovi scenari di confronto internazionale.
In quinto luogo, si deve considerare la sicurezza da una visione globale dove l’aspetto militare, le risorse del pianeta ed il cosiddetto cambiamento climatico si incrociano e definiscono una nuova visione della strategia e della geopolitica.

Questo dossier, disponibile in rete, offre molti indizi su quella che è stata chiamata la rivoluzione negli “affari militari”. Il passaggio ad un mondo multipolare mette questiona un elemento centrale della strategia nordamericana: impedire che sorga una potenza o un insieme di potenze che possano a medio e a lungo termine mettere in discussione la super-potenza nord americana. Robert Kagan, (2) nel 2008 ha pubblicato un libro con il significativo titolo di “Il ritorno della storia e la fine dei sogni”. Questo autore, uno dei più rinomati teorici dell'estrema destra nordamericana, e co-autore del Progetto per un Nuovo Secolo Nordamericano, sostiene una tesi apparentemente semplice.
Il mondo è vissuto in un sogno, un’illusione transitoria chiamata globalizzazione. 

La storia emerge di nuovo come conflitto per il potere a livello mondiale di un insieme di potenze in competizione. Per l’autore la linea di confine è collocata nella difesa delle democrazie di mercato di fronte al presunto autoritarismo delle potenze emergenti. Ovviamente, la chiave sono gli USA e la loro capacità per la leadership politica e militare nel “mondo libero”.
Zbigniew Brzezinski (3) un altro autore neoliberale ma di maggiore spessore, ha pubblicato quest’anno un libro chiamato Tre presidenti: La seconda opportunità per la grande superpotenza americana, la tesi che sostiene questo noto “falco” democratico è, per molti versi suggestiva. Secondo lui siamo di fronte ad un “risveglio politico globale” caratterizzato  
“per essere storicamente anti-imperiale, politicamente anti occidentale ed emotivamente anti americano in dosi crescenti. Questo processo sta originando un grande spostamento dal centro di gravità mondiale che, a sua volta, sta alterando la distribuzione globale del potere con implicazioni molto importanti per il ruolo degli USA nel mondo”
Quest’analisi sorprende per la lucidità e il tono; sostenendo che gli Stati Uniti hanno una seconda opportunità, ma non ce ne sarà una terza se non saranno in grado di rispondere alle sfide della fase geopolitica che l’umanità sta vivendo in questo inizio di secolo.
La percezione dell’autore è molto acuta quando dice (si tenga conto che il libro si è scritto prima dell’aggravarsi della crisi finanziaria internazionale) che
“in vista dell’indebitamento globale degli USA (prestatore attuale dell’80% circa dei risparmi totali mondiali) e dei suoi enormi deficit commerciali, una crisi finanziaria di grandi proporzioni, principalmente nell’attuale contesto di predominio del sentimento anti-americano (così emotivamente carico come mondialmente generalizzato), potrebbe avere enormi conseguenze per il 'benessere e la sicurezza statunitense'” 
Seguendo questa riflessione possiamo analizzare la crisi economica come effetto e causa dei conflitti geopolitici sottostanti. Lo abbiamo fatto ponendo l’attenzione su quello che pensano e macchinano istituzioni ed intellettuali dell’establishment nordamericano che molte volte dicono più degli intellettuali critici al sistema.

La crisi: dall’economia alla geopolitica
Qualche volta fu usata la metafora di Sapir (4) del “virus mutante” per esprimere graficamente le dimensioni della crisi. In primo luogo, è stata la crisi dei mutui subprime, e, dopo del sistema ipotecario nordamericano nel suo complesso, dopo il virus è mutato mettendo in crisi il sistema finanziario mondiale. Il panico è arrivato ed è stato sul punto di far esplodere le relazioni economiche internazionali. Più tardi, una nuova mutazione lo trasformò nella crisi dei debiti sovrani e, attualmente, siamo in quello che il ministro dell’economia del Brasile ha chiamato “guerre monetarie”, cioè il ciclo si chiude e si trasforma in un conflitto geopolitico. La moneta è potere concentrato ed il conflitto tra di esse esprime le realtà delle relazioni delle forze internazionali.

Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un’uscita neoliberale della crisi del neoliberismo. Tra le altre conseguenze quest’uscita aggraverà la crisi, acutizzerà i conflitti geopolitici, accentuerà il degrado del tenore di vita  e le condizioni di lavoro delle classi operaie sia al centro che alla periferia del sistema. Finora siamo, come in ogni periodo anteriore, in una “lotta di classe” scatenata dall'alto, con scarsa risposta del movimento operaio sindacale e che trova la sinistra, in qualsiasi delle sue eccezioni, la senza idee e senza progetti.

Ebbene, cosa mette in crisi a questa crisi? Quello che questa crisi mette radicalmente in questione è la risposta che data ad un’altra crisi, quella degli anni '70. Quello che oggi è messo in discussione è tutto quel complesso storico che semplificando molto abbiamo chiamato Neoliberismo e che è stata una risposta specifica ad una specifica situazione di crisi. C’è, quindi, un lungo ciclo che comincia negli anni '70, che si struttura negli anni '80 e che arriva fino ad oggi.
Il capitalismo è sempre una realtà storica, un contesto sociale, economico storicamente determinato. Se partiamo dall'idea che le crisi sono sempre un elemento centrale della sua particolare modalità di funzionamento e di organizzazione, dovremmo concludere che sono le crisi e le risposte ad esse (da una particolare correlazione di forze) quelle che segnano le tappe del capitalismo. 
 Riassumendo: il capitalismo storico oggi dominante è il Neoliberale e l'alternativa è al capitalismo neoliberale. Se questa ipotetica alternativa conduce ad un nuovo capitalismo o a qualcosa che vada oltre dipende dalla correlazione delle forze e della capacità della sinistra sociale e culturale di organizzare una maggioranza sociale capace di promuovere una società in transizione verso il socialismo. Walden Bello (5) ha saputo elegantemente esprimere le caratteristiche dell'offensiva del capitale. Il restauro dell potere di classe è l'essenza del neoliberismo e oggi, secondo me, si trova in una situazione di crisi. Quando dico crisi, non dico fallimento, semplicemente rilevo la lotta ed il conflitto quindi la sua ragione di essere. Bello dice che questa riorganizzazione del potere del capitale ha tre pilastri: il primo, le politiche neoliberali si sono concretizzate come le conosciamo con il "Consenso di Washington", che hanno rappresentato un travaso di redditi, ricchezze e potere verso l'oligarchia e la plutocrazia internazionale. 
Il secondo, lui lo chiama "accumulazione eccessiva", la messa a disposizione del capitale di un gigantesco esercito di riserva mondiale delle società pre e post capitaliste e dei settori sociali in via di sviluppo. In questo senso, parafrasando Harvey, diremo che ogni crisi presume anche processi di "accumulazione per esproprio" come una caratteristica permanente del funzionamento del sistema. Il terzo, lo ha definito "accumulazione intensiva" o finanziamento dell'economia. È il cuore del suo ragionamento. Il finanziamento ha rappresentato la via di fuga per eludere le tendenze al sotto-consumo o alla sovrapproduzione che le politiche neoliberali portano con se. 
E' nella cosiddetta economia reale, dove ci sono i problemi, per così dire, reali. E’ giusto riconoscere il contributo dei “vecchi” Magdoff e Sweezy quando negli anni '80 diedero a questo fenomeno tutta l'importanza e lo introdussero come elemento centrale della loro teoria del “Capitale Monopolista” (7).

Quindi, è tutto questo complesso storico quello che oggi si trova in crisi. Prima è stato detto che i differenti periodi del capitalismo erano segnati dalle crisi e dalle risposte alle stesse. Ora si deve rilevare che esse riguardano anche i poteri egemonici e la distribuzione del potere mondiale. Non è un caso che il periodo neoliberale del capitalismo è associato all’offensiva nordamericana in un determinato momento (anni '70) dove la sua egemonia veniva messa in discussione. Non è neanche un caso che la crisi attuale abbia il suo epicentro negli USA e, di nuovo, venga messo in discussione il suo potere.

USA: una crisi di egemonia? 

Non è questo il luogo per approfondire il dibattito in corso sui problemi del dominio nelle relazioni internazionali. La scuola dell’economia-mondo e in particolate Arrighi (8) ha dato contributi, secondo me fondamentali, e dalla quale  è necessario partire. Come è noto, questo autore mette in relazione, seguendo a Braduel e Marx, i cicli sistemici di accumulazione con i cicli egemonici. In particolare il finanziamento dell’economia-mondo è in relazione con gli sforzi di una potenza in decadenza per mantenere le sue posizioni egemoniche. Credo che l’ipotesi merita di essere argomentata.

Infatti, insistendo su ciò che è stato detto in precedenza, la chiave di questa crisi è negli anni '70 e così le risposte. Nei momenti di crisi del capitalismo, mettendo in discussione l'egemonia degli Stati Uniti nel mondo e l'avanzamento dei movimenti di liberazione nazionale e sociale, le classi dominanti hanno iniziato una controffensiva che dura fino ad oggi. Il dossier della Trilaterale sull’ingovernabilità delle democrazie pone data all’offensiva ideologica e presume, bisogna tenerlo in conto, che le uscite dalla crisi sono sempre politiche e dipendono dalle lotte di classe in corso. La crisi è sempre movimento, ristrutturazione, il cambiamento e l'eccezione diventano la regola. 

La rottura di Nixon con il sistema di Bretton Woods e, principalmente, il colpo di Stato di Volker negli anni '80, iniziano il finanziamento dell’economia mondiale e la conversione degli USA da un’economia creditrice ad un’economia debitrice. Juan Ramon Capella e Miguel Angel Lorente, in un eccellente libro (9) hanno attirato l'attenzione l’attenzione sulla novità che aveva rappresentato che l’economia nordamericana si finanziasse sistematicamente ricorrendo al mercato mondiale e collocando i suoi buoni del Tesoro. Stiamo parlando (2007) del fatto che gli USA riuscirono ad appropriarsi di oltre il 40% del risparmio mondiale. Si creò un gigantesco meccanismo di trasferimento di capitali verso gli USA, necessario per finanziare il consumo, la gigantesca macchina militare e le guerre che questo paese avrebbe dispiegato nel mondo.
Per dirla da un altro punto di vista, le regole del gioco che che erano state stabilite consistevano nel fatto che si prestavano soldi agli USA in cambio di diventare i più grandi consumatori dell’economia mondiale, cioè, un’economia fondamentalmente parassitaria del resto del pianeta, al quale vendevano protezione militare e istituzioni finanziare capaci di assicurare il controllo che la plutocrazia internazionale esercita sul resto del mondo.

Chi acquista le obbligazioni nordamericane attualmente? Principalmente la Cina, il Giappone, i paesi petroliferi del Medio Oriente, Russia e perfino la Nigeria finanzia gli USA. E' così semplice. Con buona ragione, Oscar Ugarteche e Leonel Carranco (10) sono stati in grado di parlare con ironia del declino dei paesi un tempo potenti del G7, denominandoli paesi ricchi altamente indebitati (I PRAE).
Questi autori hanno analizzato attentamente i cambiamenti che sono stati prodotti nell’economia capitalista ed il ruolo degli USA in essa. Ad esempio, se parlassimo di quello che era il G7 nel 2010 (misurato in termini di acquisto) potremo osservare che non ci sarebbero in esso, né la Francia, né il Canada, né l’Italia, né la Gran Bretagna, mentre ci sarebbero Cina, India, Russia e Brasile. Inoltre, Leonel Carranco, partendo dai dati del FMI, dice che nel 2016 la Cina raggiungerà gli USA e che al terzo posto ci sarà l’India. Si tratta di cambiamenti radicali che, prima o poi, finiranno per avere delle conseguenze geopolitiche e inaugureranno un lungo periodo di conflitti, di crisi e sicuramente di guerre. Supporranno, ovviamente, profondi cambiamenti nelle istituzioni economiche internazionali. Modificheranno il quadro di rappresentazione nelle Nazioni Unite e in particolRE Del Consiglio di Sicurezza . Soprattutto, si metterà in discussione il dollaro come moneta di riserva internazionale.

Bisogna tener presente che i cosiddetti BRIC, come fa Leonel Carranco, costituiscono gli autentici motori dell’economia mondiale e che prima o poi finiranno per mettere in discussione le regole del gioco che conformano il potere. Questo processo Samir Amin lo ha definito con grande lucidità il “il capitalismo collettivo della Triade”. Questi paesi si caratterizzano per essere, in primo luogo, Stati continentali, con grandi territori, popolazione crescente e antiche culture ben radicate. In secondo luogo, tutti, in un momento o nell' altro,hanno respinto le linee guida del "Consenso di Washington". 
In terzo luogo, tutti difendono una  strategia nazionale di sviluppo attraverso il rafforzamento del ruolo dello Stato convertito nel centro e artefice del progetto nazionale. In quarto luogo, questi paesi non sono privi di difficoltà o conflitti, sono impegnati nella costruzione di un autentico Stato Nazione e integrare alle classi subalterne ad esso. E' stato sicuramente Ha-Joon Chang (12) che ha spiegato meglio questi cambiamenti da una critica storica ai concetti del libero scambio, protezionismo e al ruolo del risparmio estero come motore di crescita.

Parafrasando a Gramsci potremmo dire che negli Stati Uniti si “annodano tutte le contraddizioni”. La crisi, la sua durata, la sua intensità e le sue conseguenze, di ogni tipo, sono in relazione con il mantenimento o meno della loro egemonia nel mondo. Il declino dell'America, così come lo definiscono numerosi autori, non necessariamente significa collasso e molto meno affondamento. Una potenza come quella USA, che spende più del 50% del budgrt militare mondiale e che ha più di 700 basi militari nel mondo, cercherà sempre di  far prevalere politicamente e militarmente quello che non può più fare economicamente, è per questo che in questo anno fiscale, con Obama, si è raggiunta un’altra cifra record nelle spese militari. Tutto questo in un contesto di riarmo generalizzato particolarmente in America Latina ed i Caraibi.

Pensare alla decadenza di una potenza di queste dimensioni, unitto al peggioramento dei problemi ambientali e delle disuguaglianze in un mondo in crisi, richiede molta lucidità e un’importante capacità di intervento da parte dei popoli. Prima è stato detto e va sottolineato: la più solida tradizione del movimento operaio ha legato sempre la concorrenza alle relazioni internazionali. Viviamo una grande transizione geopolitica e dobbiamo tenere presente che tutte le precedenti si sono risolte, in una o un’altra forma, con gravissimi conflitti armati. 

America Latina e i Caraibi: Anello debole? 

Per molti può essere stata una sorpresa che proprio in America Latina e nei Caraibi dove si sono verificate le resistenze più dure al neoliberismo, sono finiti al di là del progetto con un’esplicita vocazione socialista. Il continente è stato il laboratorio delle politiche neoliberali. Queste hanno rappresentato un'autentica e genuina contro rivoluzione restauratrice del potere delle oligarchie e delle grandi transnazionali. Le sue conseguenze sono state anche molto note: come nella Conquista, il neoliberismo è stato imposto a sangue e fuoco per mezzo di dittature militari con la vocazione di fondare un nuovo tipo di Stato e di nuove relazioni tra la società, la politica e l’economia, il cui obiettivo ultimo- lo ha ripetuto molte volte Perry Anderson- è stato quello di tagliare alla radice l’esperienza organizzativa, la memoria e la capacità di creare alternative e impedire che il socialismo in qualunque delle sue eccezioni potesse risorgere nel futuro.

Come abbiamo indicato precedentemente, si fece uso della violenza più estrema. Le conseguenze durano ancora oggi: aumento della povertà e l’emarginazione, disgregazione sociale, perdita delle identità collettive e la progressiva conversione di molti paesi in “Stati falliti”, alla fine, è uno dei molti paradossi del neoliberismo, il cosiddetto trionfo della società civile diventa il territorio privilegiato dei gruppi di potere economico, in perfetta relazione con le mafie di ogni tipo e attraverso la cattura dello Stato per trasformarlo in corda di trasmissione degli interessi più oscuri, di fronte all’impotenza, oggi, della società sottomessa al doppio scossone dell’involuzione sociale e l’anomia collettiva.

Come detto prima, l’America Latina è stato un terreno privilegiato per la resistenza, con capacità e immaginazione sufficiente per trasformarsi in alternativa al governo e al potere. Questo è stato decisivo. Quanto queste alternative hanno provocato una crisi di Regime, i processi si sono radicalizzati fino a prendere in considerazione la costruzione di un nuovo tipo di stato, una nuova matrice di potere al servizio di quelli dal basso. In altri posti, le resistenze si sono trasformate in alternative elettorali, hanno dovuto vedersela con classi dominanti che non avevano perso il loro potere né la loro influenza elettorale. I ritmi e la profondità dei cambiamenti furono definiti dalla capacità del Movimento Popolare di trasformarsi in alternativa elettorale e di potere.
L’America Latina come è stato dettoto, è un territorio conteso. Se partiamo dalla storia dei rapporti tra l’America Latina ed i Caraibi con gli USA, come fa Peter Smith (13), arriveremo alla conclusione che questo confronto è parte di un conflitto più globale, dove entrano in gioco dall’epoca coloniale le diverse potenze mondiali e i diversi periodi che hanno modellato la loro evoluzione storica. L’autore segnala che altri ricercatori hanno documentato fedelmente: la costruzione degli USA come nazione è stata indissolubilmente unita alla sua costruzione come Impero. Basta guardare la sua cartina e conoscere la sua storia per rendersi chiaramente conto che il suo attuale territorio è fatto a scapito di altri paesi usando l’espropriazione, la vendita o l’invasione.

Le classi dirigenti degli USA avevano riconosciuto di avere un "destino manifesto”, una vocazione quasi naturale alla leadership continentale. Prima della “dottrina Monroe” (1830) si manifestò radicalmente che gli interessi strategici erano determinati da due principi: Assicurare la loro egemonia nel continente ed impedire la presenza di altre potenze. Questo spiega il calore con il quale hanno partecipato alla lotta per l’indipendenza dell’America Latina e la loro sistematica determinazione nel neutralizzare la configurazione di altri poteri alternativi che mettono in discussione il loro dominio.

Nicholas Spykman è stato di gran lunga l’analista geopolitico nordamericano più importante del XX secolo. La sua dottrina continua ad essere oggi il nucleo della strategia che  la grande potenza dominante dispiega sul continente. Egli faceva distinzione tra America del Nord, anglosassone e europea, ed il resto. Considerava che il “mediterraneo” circoscritto al Messico, Centroamerica ed i Caraibi erano di loro uso esclusivo. Non era permesso condividere il potere con un’altra potenza. Qualunque modifica di questo “status quo” ha sempre colpito (14) e continuerà a colpire direttamente gli interessi strategici più immediati del Nord America.
Da questo punto di vista i pericoli provengono dai processi di integrazione e di unità che possono essere articolati nel grande "Continente Sud americano". Spkyman al riguardo fu estremamente forte e chiaro: nel caso di un'unitàeconomica e politico-militare, la risposta non poteva essere altro che guerra. In sostanza, questa dottrina è stata con un tono o l'altro ripetuta sia da strateghi civili che militari negli Stati Uniti.

Quando parliamo di un territorio conteso lo facciamo da un doppio versante: un insieme di governi che decidono esplicitamente di rompere le regole del gioco che seguono la dominazione imperiale (paesi dell’ALBA) ed altri, da posizioni meno radicali, che danno un impulso all’integrazione regionale al di là dei limiti del mercato. Dal punto di vista esterno le grandi potenze emergenti (Cina, India, Russia) hanno fatto delle risorse che l’America Latina ed i Caraibi possiedono in abbondanza un elemento essenziale nella loro strategia di sviluppo nazionale. 

La congiuntura latino-americana e caraibica è marcata, almeno, da quattro questioni principali: la prima è la separazione relativa della loro economia rispetto alla crisi. Non è stata la prima volta e sicuramente non sarà l’ultima, è successo in altri periodi. Quando il Centro è in crisi, le periferie hanno l'opportunità d'integrare e creare nuove relazioni tra di loro. L’impulso arriva dall’esportazione di materie prime con il conseguente rischio di perpetuare il modello primario-esportatore. Le potenze emergenti arrivano per le materie prime, minerali, energetiche e alimentari e lo fanno su un piano globale al servizio dei loro interessi nazionali.
Un secondo elemento ha a che vedere con la controffensiva nordamericana. La sua esistenza è qualcosa impossibile da negare ed è aumentata dopo l’arrivo di Obama al potere. E’ chiaro che le elite nordamericane sono convinte che il loro declino si può evitare o rallentare se si riprende il controllo dell’America Latina e i Caraibi. Il ripristino della quarta flotta, fatto che non si verificava dagli anni '40, l’aumento delle basi e la presenza militare nordamericana nel continente, principalmente nelle zone ad alto rischio di conflitto per la vicinanza alle risorse naturali vitali, acqua, idrocarburi, biodiversità, ecc.

L’applicazione di quello che Hillary Clinton chiama il "potere intelligente”, cioè, una combinazione del potere duro e blando, ha avuto la sua prima manifestazione nel colpo di Stato in Honduras, tutto questo in un contesto di riarmo accelerato della regione. Un solo esempio: è bastato che il governo brasiliano facesse conoscere le dimensioni delle sue riserve petrolifere di Pre-sal, che è stato ordinato l’acquisto di due sottomarini nucleari e una nuova porterei alla Francia. Il governo brasiliano non riconoscerà che il nemico sono gli USA, ma i fatti sono fatti e dimostrano che le risorse naturali sud americane sempre più importanti per l’economia internazionale, sono un rischio per la loro sicurezza e determinanti nel bilancio delle forze nella regione.

La terza questione è segnata dal riflusso di quello che è stato chiamato lo “spirito di Porto Alegre” e dai segnali di stagnamento di alcuni dei processi più avanzati nel continente. Sembrerebbe che la lotta sociale e i movimenti di solidarietà abbiano perso il loro peso e significato politico, proprio quando il neoliberismo entra in crisi e gli USA vivono un periodo di veloce e accentuato declino. Il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia manifestano segnali di esaurimento di un ciclo, riformista e del bisogno,  per così dire, di un nuovo impulso che dia priorità alla soluzione, non retorica, dei problemi reali.
Quarto: il Brasile stadiventando l’elemento centrale della politica latinoamericana e una delle potenze emergenti. E’ uno Stato-Nazione ed ha interessi geopolitici in tutta la regione. La transizione geopolitica mondiale che analizziamo lo fa diventare uno dei perni della ristrutturazione mondiale del potere e, presto o tardi, dovrà definire, nelle nuove condizioni, la sua strategia e la sua relazione con gli USA. Le ultime elezioni hanno mostrato chiaramente le differenze tra l’elite politica del Brasile rispetto alle relazioni internazionali. Per la destra “paulista” l’opzione sarebbe quella di arrivare ad un accordo con gli USA e definire zone specifiche d'influenza evitando qualunque conflitto serio tra i due paesi. Per il “paulismo” l’accento si porrebbe sull’integrazione Sud Americana come zona di azioni privilegiate e come somma di forze per essere un soggetto attivo nel nuovo ordine internazionale in un processo di cambiamento accelerato. Non si deve dimenticare che il Brasile ha definito gli interessi e la politica per l’Africa, soprattutto per la zona sub-sahariana, e in cerca di un accordo stabile con la potenza egemone nella zona che è il Sud Africa.

Conclusione: un nuovo regionalismo?

Tutto quanto detto in precedenza, nel contesto di un bicentenario che non può essere solo retorico, spiega l’urgente bisogno dell’unità e integrazione latino americana. La cosiddetta agenda dell’integrazione è avanzata molto in America Latina negli ultimi anni. Il processo senza dubbio continuerà. Da qualche tempo  e secondo le nuove esperienze si sta parlando di un “regionalismo post liberale” (15), caratterizzato dal tenere più conto della politica, lo Stato ed il benessere del popolo, lasciando in secondo piano un tipo d’integrazione che è stata guidata dalle multinazionali.

L’integrazione autonoma ha almeno tre grandi obiettivi: Primo, negoziare in posizioni di forza con l’”amico del Nord” e con le grandi multiazionali, in secondo luogo intervenire ed essere soggetto in questo nuovo ordine internazionale in processo di configurazione, in terzo luogo quello che potremo chiamare le promesse incompiute  dell’Indipendenza, cioè, sovranità nazionale, sviluppo economico e giustizia sociale. Questi tre elementi in un modo o nell' altro sono già nell’Agenda d’Integrazione. Bisogna sottolineare che affrontano ostacoli formidabili e che, come altre volte nella storia, i risultati non sono garantiti. In effetti, esistono differenze politiche sostanziali all’interno di ognuno degli Stati e nei rapporti tra di loro. Bisogna riconoscere che non c’è oggi un progetto comune d’integrazione sufficientemente articolato e socialmente e ideologicamente legittimato. In secondo luogo, esistono profonde differenze strutturali-economiche, di popolazione e territoriali, tra questi Stati, che rendono difficile la messa in pratica di politiche condivise e organi capaci di portarle avanti. 
In terzo luogo le dimensioni del Brasile accentuano il rischio che tale integrazione configuri una zona fortemente egemonizzata da questo paese. I rischi di chi si crede un nuovo “sub-imperialismo” condotto da una nuova potenza emergente appare come qualcosa in più che un semplice pregiudizio. In quarto luogo bisogna tener conto della presenza attiva delle grandi potenze che cercano e privilegiano più le relazioni bilaterali con gli Stati della regione che accordi multilaterali.

Nonostante tutte le difficoltà, e prendendo atto delle vere contraddizioni, non c’è alternativa all’Integrazione: se l’America Latina ed i Caraibi non si uniscono in un progetto comune, conteranno o influiranno molto poco nel Nuovo Ordine che si sta configurando e finiranno per cadere di nuovo sotto il controllo, un pò più drammatico rispetto a prima, di una superpotenza nordamericana in decadenza. 
Questa è la sfida che richiede, principalmente, il protagonismo attivo e militante dei popoli: l’unità e l’Integrazione latinoamericana è troppo importante per essere lasciata esclusivamente nelle mani dei politici. 

Note
(1) http://www.dni.gov/nic/NIC_2025_project.html
(2) Kagan, R, Il ritorno della storia e la fine dei sogni
(3) Brzezinski, z. Tre presidenti: una seconda opportunità per la  sopravvivenza nordamericana.
(4) Sapir, Jr, Il Nuovo XXI secolo, dal Secolo americano al ritorno delle nazioni
(5) Sin Permiso, 05-10-2008
(6) Harvey, D. Breve storia del neoliberismo.
(7) Questo contributo è messa in risalto dai suoi discepoli. Foster, B.J e Magdoff F nella La gran crisi finanziaria, Cause e conseguenze.
(8) Arrighi, G. Adam Smith a Pechino. Origini e fondamenti del XXI secolo.
(9) Capella, J.R e Lorente, M.A- Il crack97k degli anni 80. La crisi. Il futuro.
(10) http://alainet.org/active/29597   e  http://alainet.org/active/42197
(11) Corea del Sud, Turchia e Indonesia
(12) Chang, Ha-J, Ritirare la scala
(13) Peter H. Smith P. Stati Uniti e America Latina: egemonia e resistenza
(14) Questo spiega in gran parte il conflitto con Cuba 
(15) Centofuochi, M e Sanahuja, J.A- Una regione in costruzione, Unasur e l’integrazione in America del Sud.
Tradotto e segnalato per Voci Dalla Strada da VANESA

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